FOBIE_ (182 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • La fortezza: il film più mitologico (ed incompiuto) di Michael Mann

    La fortezza: il film più mitologico (ed incompiuto) di Michael Mann

    1941: un gruppo di nazisti viene inviato a sorvegliare una misteriosa fortezza, in una sperduta località rumena; alle prese con una forza crudele e sinistra, dovranno ingaggiare un professore ebreo per affrontarla.

    In breve. L’unico horror puro di Mann, abbastanza difficile da reperire e orrendamente mutilato rispetto alla director’s cut (che durava circa 3 ore rispetto ai 90′ della versione che è circolata). Un cult di cui il regista non sembra avere bei ricordi, anche perchè massacrato da buona parte della critica e del pubblico – non per demeriti propri, c’è da dire, ma per le circostanze che lo accompagnarono. Ad ogni modo, alcuni sprazzi sono notevoli e l’idea di fondo straordinaria; da vedere filologicamente.

    Uscito al cinema e pubblicato in seguito solo in LaserDisc e VHS, non esisteva in DVD fino allo scorso anno (per un mix di problemi legati, peraltro, ai diritti non disponibili sulla colonna sonora, notevolissimo lavoro dei Tangerine Dream), in Italia circola esclusivamente in una versione TV di qualità media, anche se in seguito ho trovato su Amazon.com sia il DVD che la versione in streaming, ma sono in inglese. Abbastanza sicuro, del resto, che il DVD disponibile sia Region 1 – per cui è visibile solo su lettori canadesi e USA – e che entrambe le versioni di cui sopra sono quelle di circa un’ora e mezza. Sì, perchè esiste un ulteriore mistero sulla versione uncut o director’s cut de La fortezza: una versione di 210 minuti (stando alla Wikipedia inglese, quantomeno) che andò male durante le anteprime e venne ridotta a quella che conosciamo dalla Paramount, ovviamente contro il parere di Mann (che a quanto pare bloccò la pubblicazione della versione completa in DVD). Questo comporta che nel film siano presenti dei “buchi” e dei salti temporali considerevoli, senza contare che alcuni cerchi non si chiudono narrativamente, lasciando il film in un senso di sospensione tutt’altro che affascinante. Film che, nelle intenzioni di Mann, avrebbe dovuto essere un mix tra una fiaba per adulti ed una caratterizzazione realistica dei dialoghi e dei personaggi, giocando sui toni dell’horror più simbolista e introspettivo (“A fairy story for grown-ups. Fairy tales have the power of dreams, from the outside. I decided to stylize the art direction and photography extensively, but use realistic characterization and dialogue.“)

    What are you? Where do you come from?

    Where am I from? I am… from YOU!

    Parlare de “La fortezza” di Michael Mann, pertanto, deve per forza passare per la conoscenza di queste micro-storie smarrite nel nulla; se l’intenzione del regista era di proporre un horror che simboleggiasse il fascino delle ideologie fasciste sulle persone, il risultato finale non sembra purtroppo essere all’altezza delle aspettative, anche per via di uno stile ibrido tra i tempi lenti da film d’autore (molte riprese si soffermano sui panorami molto più di quanto ci si aspetterebbe, ad esempio, e c’è un’attenzione esasperante sul parlato) e l’immediatezza dell’horror fumettaro (il Golem protagonista venne ideato dal fumettista Enki Bilal, e a vederlo oggi non sfigurerebbe in un cine-fumetto di quelli più popolari). Un ibrido già atipico di suo, certo non aiutato da una produzione travagliata e dal fatto che, soprattutto, gli effetti speciali siano monchi: Wally Veevers, supervisore agli effetti speciali, morì in post-produzione (e a lui è dedicato il film), senza lasciare alcuna indicazione su un’enorme quantità di girato. Probabile, quindi, che l’uncut non vedrà mai la luce ufficialmente per questo motivo: il regista si ritrovò con una grossa quantità di video grezzo di cui non sapeva cosa fare, per cui fu costretto a riadattare il finale per quello che poteva.

    Se i toni sono quelli ideali del genere, equilibrati e al tempo stesso follemente creativi di tanti film di culto del periodo (penso a Predator e, almeno in parte, Hellraiser), l’opera è quindi considerata sostanzialmente apocrifa: è chiaro che manca qualcosa al film. Per Mann fu un vero e proprio trauma e ne parlò poco o nulla in seguito, ad ogni modo il principale riferimento narrativo dovrebbe risiedere nel film Ardenne ’44: un inferno (1969) di Sydney Pollack, che possiede una storia ed una struttura in parte analoghe, seppur con i toni della commedia. L’idea di collocare i nazisti in un contesto horror-fantastico, con riferimenti storici ben precisi innestati in un intreccio inventato, è un qualcosa che oggi definiremmo “tarantiniano“: di per sè è una grande idea, perchè fornisce al regista uno strumento impagabile per comunicare un messaggio, con il linguaggio forte e disambiguo dell’horror. Il cast di livello (da Ian McKellen a Jurgen Prochnow, passando per Scott Glenn) e l’ambientazione sulfurea (in quasi tutto il film è visibile una nebbia sinistra) impediscono qualsiasi pensiero di stroncato di questo lavoro, pur considerando il suo problema di fondo: è un horror apocrifo.

    La fortezza è un vecchio castello in pietra abbandonato, collocato in Transilvania nei pressi del Passo di Dinu (inesistente nella realtà), costellato di 108 T fatte di nickel, fattore scatenante la rovina dei nazisti. Girato in una vecchia cava abbandonata nel Galles, ambientazione del tutto naturale ed in grado di evocare sinistri presagi già di suo, alterna parte delle riprese nelle caverne di Llechwedd Slate, a sua volta “a black monumental structure” come ebbe a dire lo stesso regista in una definizione sintetica, espressiva e completa. La fortezza è un horror a forti tinte fantasy come tanti se ne sono visti nel cinema, eppure con una sua propria originalità di fondo – derivante almeno in parte dal romanzo da cui è tratta la storia, di F. Paul Wilson, a detta dei più superiore alla versione filmica. L’autore del romanzo, peraltro, non ha mai fatto mistero del suo disaccordo con la versione di Mann del suo libro, che ad esempio ha visto la sostituzione del vampiro protagonista con un Golem (figura antropomorfa della mitologia ebraica), riferendolo come un film visivamente intrigante, ma per molti versi incomprensibile (visually intriguing, but otherwise utterly incomprehensible). Pare peraltro che il racconto successivo di Wilson dal titolo Cuts non sia casuale, dato che parla di uno scrittore che pratica il voodoo contro un regista, colpevole di aver distrutto un suo lavoro.

    La fortezza è l’ultimo passaggio per un mondo (in tal senso, puramente lovecraftiano) di orrori pronti a scatenarsi sulla terra, scaturiti dall’avidità dei nazisti – qui rappresentati in modo tutt’altro che stereotipato, a cominciare dalla figura del militare dissidente (e dai tratti umani) Woermann, contrapposto alla ferocia di Kaempffer. Un film che inizia come un classico war-movie d’epoca e che evolve, poco dopo, in un sinistro fantasy-horror, incentrato più sulle atmosfere che sullo splatter: in tal senso, potremmo definirlo un’opera dai tratti fulciani (il Fulci de L’aldilà e Paura nella città dei morti viventi, s’intende). I dialoghi sono essenziali per lo svolgimento della storia, e sono recitati in uno stile sostanzialmente epico, tanto da sembrare straniante per il pubblico (e di certo il cut scomodo non aiuta e rischia di renderli non intellegibili).

    Di per sè, quindi, le sensazioni evocate da The keep sono più che altro originali e positive: con un po’ di fortuna, sarebbe stato un grandissimo horror epico, destinato a fare scuola. Ovviamente le circostanze hanno finito per renderlo un’opera sostanzialmente incompiuta, abbandonata al suo destino, nota sul web per via di recensioni più che altro insulse. In tal senso, quindi, finirà per essere apprezzata solo dai cinefili più appassionati di horror, disponibili a collocarlo nel contesto storico di cui ho discusso.

  • Non aprite quella porta – Parte 2: quando Hooper reinventa Leatherface

    Non aprite quella porta – Parte 2: quando Hooper reinventa Leatherface

    Sono passati molti anni dagli eventi del primo film, ma la famiglia di Leatherface sembra essere ancora in circolazione: ad affrontarli saranno la DJ di una radio locale ed uno sceriffo in cerca di vendette personali.

    In breve. Piaccia o meno è il seguito (ufficiale) di Non aprite quella porta: in breve, poco o nulla è rimasto dell’originale, e ciò che era orrore da documentario diventa horror grindhouse. Difficile dare un giudizio certo, anche se fan e critica propendono per la stroncatura.

    Il caso è più unico che raro: un regista di uno dei più famosi film del genere, amato da generazioni e difficilmente criticabile sotto qualsiasi punto di vista, smantella pezzo per pezzo la sua storia e la prosegue assumendosi, nel farlo, il rischio di rendere la saga un polpettone gore anonimo e incolore. A ben vedere (e a confronti di tanti altri squallidi epigoni) questo film ha anche dei pregi, che certo usciranno fuori soltanto negli ultimi tre quarti d’ora – momento in cui la storia riprende ritmo e si ravviva – e che sono tipici di un b-movie pieno di splatter, con qualche buon momento di tensione e tutto sommato gradevole.

    Criticare Non aprite quella porta – Parte 2 fa parte dello “sport nazionale” degli amanti dell’horror per una varietà di motivi: alla base c’è un problema di mancata continuity. L’introduzione fa infatti presagire un seguito sulla totale falsariga del capolavoro precedente, ma non è così: Hooper non ha mai amato ripetersi, ed opta per un cambio totale di registro. Molti aspetti del film, che risaltano più nella seconda parte del film che nell’interminabile prima, sembrano voler ricalcare la violenza estetizzante ed i deliri quasi cartoonistici di film come La casa o L’armata delle tenebre. E in effetti è facile pensare ai due protagonisti (sceriffo e DJ) come ad un calco di Ash ne La casa 2, se non fosse che questo film è uscito prima di quest’ultimo (e comunque dopo La casa, da cui potrebbe aver preso spunto). È chiaro, a questo punto, che pur non trattandosi di un capolavoro (difficilmente se ne trovano, nell’ambito slasher-splatter in assoluto) molta della fama negativa di Non aprite quella porta – Parte 2 è quantomeno ingiustificata.

    Il film soffre comunque per una sceneggiatura non troppo curata – per dire, si capiscono più i mugugni di Leatherface che certe frasi pronunciate da Drayton Sawyer – c’è qualche doppio senso che probabilmente si perde nella traduzione, c’è la scelta (opinabilissima, della serie come vi viene in mente) di chiamare Leatherface “Faccia di pelle” nel doppiaggio italiano – che sarebbe come chiamare Incubo Freddy Krueger o Michele Miei Michael Myers – la stessa scelta della protagonista convince come scream queen più alla fine che sulle prime. Nulla da dire sul ruolo assegnato a Dannis Hopper, per inciso, semplicemente perfetto – e calato alla grande – nella parte del “giustiziere”.

    Per il resto, è un horror splatter non eccelso ma onesto, che richiede la conoscenza del film precedente dato che cerca di allestire evocazioni più o meno sensate della stessa (la cena col nonno ultra-centenario, i cannibali, la consueta porta scorrevole che Leatherface cerca di sfondare, le seghe elettriche che saltano fuori come funghi), senza cercare di ricopiare un capolavoro, e provando a dare un seguito sensato all’incubo della famiglia cannibale. Il film prosegue la storia di Leatherface e del fratello-padre Drayton Sawyer, “il Cuoco” del primo episodio, che ha trovato lavoro come cuoco di una griglieria ambulante, e non è difficile immaginare a chi appartenga la carne cucinata. Nel frattempo la DJ di una radio locale entra casualmente in contatto coi maniaci, e si candida da subito a scream queen della pellicola. La scelta di utilizzare un registro da horror comico / black comedy è criticabile, in effetti, giusto nella soppressione di quel feeling sinistro e documentaristico che caratterizzava Non aprite quella porta. A conti fatti, Hooper sembra anche voler ironizzare sul fenomeno di culto creatosi dall’uscita del film.

    Il regista, abile come pochi a costruire storie terrorizzanti e ad indagare i meandri dell’incubo e dell’irrazionale (come prova dovrebbero bastare la visione 1) dell’originale del 1974, 2) di Quel motel vicino alla palude e 3) dell’ottimo Il tunnel dell’orrore), sembra meno a proprio agio con la black comedy, anche perchè molte delle cose che dovrebbero far sorridere non si capiscono, o passano indifferenti. C’è il lato positivo di una storia semplice ma ben diretta, di villain grotteschi e almeno in parte azzeccati, soprattutto in un crescendo sul finale capace di omaggiare, negli ultimi fotogrammi addirittura il controverso Le colline hanno gli occhi.

    Non è, insomma – come alcuni sono portati a pensare – come se Deodato avesse auto-parodiato il suo Cannibal Holocaust, o come se Wes Craven avesse girato una versione più light di Nightmare facendo passare l’idea rassicurante di dire al pubblico “si scherza, è un film ed il sangue era finto“. Forse Hooper fa in parte questo “gioco”, ma a metà storia sembra ripensarci e da’ all’intreccio la sterzata decisiva: del resto, stiamo pur sempre della storia di uno sceriffo che vuole vendicare il fratello ucciso dalla famiglia di Leatherface (non c’è novità), e che nel farlo coinvolge la DJ di una radio locale che “guarda caso” si troverà a registrare la telefonata di una delle vittime (c’è un po’ di prevedibilità).

    Prendere o lasciare: se volete trascorrere un’ora e mezza di horror ottantiano “leggero”, o scoprire da dove abbia preso ispirazione un film come La casa dei 1000 corpi (da qui Rob Zombi ha preso, direi, a piene mani) Non aprite quella porta – Parte 2 potrebbe fare al caso vostro. Il resto del lavoro di Hooper mi sembra soggetto a valutazioni abbastanza soggettive per cui, visione alla mano – e trattandosi di intrattenimento con poche o nessuna pretesa – ognuno potrà farsi l’idea che preferisce. Rimane la nota stilistica sullo stile recitativo da grindhouse puro, sulle ambientazioni texane e sulle efferatezze mostrate come modello per i posteri.

    Nota di merito di cui si è parlato poco, infine, la colonna sonora del film, che è un discreto mix di gothic e rock new wave che riesce a non passare inosservato.

  • E venne il giorno: il virus che induce al suicidio di Shyamalan

    E venne il giorno: il virus che induce al suicidio di Shyamalan

    Un insegnante di scienze, assieme alla moglie e ad una ragazza lottano per sopravvivere a un morbo che sembra causare il suicidio dei contagiati.

    In breve. Piccolo saggio post-apocalittico del 2008 che, rivisto oggi, conferma le perplessità della critica e del pubblico anche all’epoca della sua uscita.

    Guardare E venne il giorno di M. Night Shyamalan nel 2020, in tempi di Covid-19, può assomigliare più ad una mission impossible che ad altro. Se i toni di questi film di 12 anni fa, infatti, sono apertamente catastrofici, e parlano di un’umanità preda di un misterioso “qualcosa” che ne induce il suicidio – Suicide Club era già uscito nel 2002, tutto sommato – il tutto crea un’atmosfera che, a dirla tutta, avremmo già visto in quasi tutti i film del genere. Traffico bloccato, strade semideserte, gente rigorosamente morta (vedo la gente morta, cit.), morente, moribonda o meditabonda, un eroe “della strada” che sembra destinato a salvare il mondo. Il problema di fondo del film, al netto di un’intensità che sul momento non si discute, è che lascia poco o nulla allo spettatore, rendendo la visione di b-movie a tema virus (un genere che rimarrà tabù per molti anni, quasi peggio dei cannibalici, a mio modo di vedere) quasi preferibile e più accattivante, a confronto.

    Parliamo di cose già viste, che hanno certamente costituito parte dello Zeitgeist dal 2000 in poi, passando per vari titoli pop come ad esempio 28 giorni dopo o l’ancora più incisivo The divide. Mettere a paragone le varie produzioni di questo tipo, peraltro, appare come un’impresa ai limiti dell’apocalittico (tanto per dire la ricorsività, a volte), anche perchè si tratta di film prodotti con intenzioni, budget e “spiritualità” quasi sempre diverse l’una dall’altra. Conosciamo bene, a questo punto, la coralità e la coerenza delle opere di Shyamalan in generale: questo film la coglie appieno per quanto, alla prova dei fatti e al netto della spettacolarità visiva (peraltro neanche marcatissima), l’intreccio si riveli un pochino debole.

    Che altro dire? Possiamo anche fare finta che le candidature di “E venne il giorno” ai Razzie Awards 2008 siano state esclusivamente spocchia da intellettuali cinefili, perchè non è questo il punto: piuttosto, come nella tradizione dei film riusciti a metà, E venne il giorno scomoda un apparato universale che fa appello alle più profonde paure dell’uomo (e questo va benissimo), ma poi le risolve in una bolla di sapone (una didascalica rivolta della natura contro l’uomo, sia pur contestualizzando al 2008 e senza aggiungere un dettaglio “di quelli belli”, un si po’ sentì).

    Alla base dell’intreccio vi è la realtà scientifica (e psicologicamente analizzata in più contesti) dell’effetto spettatore, secondo cui maggiore è il numero dei presenti in una situazione di pericolo, minore è la probabilità che qualcuno di loro presterà aiuto alla persona in difficoltà o, peggio ancora, in pericolo di vita. Un principio sul quale si basano, del resto, la quasi totalità dei film di zombi di ogni ordine e grado, anche quelli che non scomodano il pessimismo antropologico alla Romero. Qui, semplicemente, non c’è abbastanza “carica” perchè il tutto possa detonare in un film realmente memorabile. “E venne il giorno”, per la cronaca, è stato girato in soli 44 giorni sfruttando quasi esclusivamente esterni (ben l’85% delle riprese, secondo IMDB).

    Vengono meccanicamente in mente i sempiterni anni 90, in cui uscì il video di “Just” dei Radiohead diretto da Jamie Thraves, caratterizzato da un mood probabilmente simile: la gente si sdraia dopo essersi fatta bisbigliare qualcosa nel video, che il pubblico non vedrà mai. Anche lì un clima “preoccupante”, nessuno sa perchè succeda quello sta accadendo, ma è la realtà. Un po’ come dice la tagline del film, insomma: “It’s Happening“, che poi sarà usata anche da altri film del regista come Signs. Il che è un po’ quello che abbiamo vissuto un po’ tutti in questo 2020, se vogliamo. E che questo film, di fatto, sembra vagamente “miope” nell’immaginare o aver reso in qualche modo suggestivo.

    Affermare che “E venne il giorno” sia stato un gran film, del resto, significherebbe fare un torto e non poter rendere omaggio ai film più sopra le righe del buon Manoj Nelliyattu Shyamalan, la cui migliore dimensione resta quella, a mio modesto avviso, di Unbreakable – Il predestinato, film per molti versi sorprendente rispetto all’epoca in cui uscì.

  • Hereditary: cast, storia, produzione, sinossi, spiegazione finale del film

    Hereditary: cast, storia, produzione, sinossi, spiegazione finale del film

    Ecco una panoramica completa di “Hereditary,” compresi il cast, la storia, la regia, la produzione, lo stile, una sinossi, alcune curiosità e una spiegazione dettagliata del finale del film con un pre-avviso spoiler:

    Cast Principale:

    • Toni Collette nel ruolo di Annie Graham
    • Alex Wolff nel ruolo di Peter Graham
    • Milly Shapiro nel ruolo di Charlie Graham
    • Gabriel Byrne nel ruolo di Steve Graham
    • Ann Dowd nel ruolo di Joan

    Regia e Produzione:

    • “Hereditary” è stato scritto e diretto da Ari Aster, che ha esordito con questo film come regista.
    • Il film è stato prodotto da A24, una casa di produzione conosciuta per il suo impegno nel cinema indipendente e di genere.

    Stile e Atmosfera:

    • “Hereditary” è noto per il suo stile visivo cupo e disturbante, con una forte enfasi sulla tensione e la suspense psicologica.
    • La colonna sonora, composta da Colin Stetson, contribuisce a creare un’atmosfera angosciante e claustrofobica.

    Sinossi: La trama di “Hereditary” ruota attorno alla famiglia Graham, composta da Annie (Toni Collette), suo marito Steve (Gabriel Byrne), il figlio maggiore Peter (Alex Wolff) e la figlia minore Charlie (Milly Shapiro). Dopo la morte della madre di Annie, la famiglia inizia a sperimentare eventi inquietanti e sconvolgenti che rivelano segreti oscuri nella loro storia familiare. Mentre la tensione aumenta e il terrore si fa più intenso, la famiglia viene trascinata in un mondo di tragedie e oscure presenze supernaturali.

    Curiosità:

    • Il film è noto per la sua complessità e simbolismo, con numerosi dettagli nascosti e riferimenti all’interno della storia.
    • Toni Collette ha ricevuto elogi unanimità per la sua interpretazione nel ruolo di Annie, guadagnandosi persino una nomination all’Oscar.
    • Il film è stato descritto da molti critici come una delle opere più spaventose e disturbanti degli ultimi anni.

    Spiegazione del Finale (Spoiler): Attenzione, da qui in poi ci saranno spoiler sul finale del film.

    Alla fine di “Hereditary,” la tensione raggiunge il suo culmine quando la possessione demoniaca si rivela essere un elemento chiave della trama. Annie, alla ricerca della figlia Charlie, scopre il libro delle invocazioni demoniache della madre e si rende conto che sua madre era coinvolta in rituali demoniaci per portare il demone Paimon in un corpo mortale. Joan, un’amichevole vicina di casa che ha fatto amicizia con Annie, si rivela essere parte di un culto che cerca di portare Paimon nel corpo di Peter. Nel climax del film, Peter viene posseduto da Paimon e Joan pronuncia un incantesimo per invocare l’entità nel corpo del ragazzo. Questo porta a una serie di eventi scioccanti, tra cui la decapitazione di Annie da parte di Peter e la successiva coronazione di Peter come ospite di Paimon. Il finale del film è estremamente oscuro e pessimista, poiché Paimon ottiene successo nella sua possessione e la famiglia Graham è completamente distrutta. La sua ossessione per il controllo e la possessione è stata portata a termine, e il culto riesce a ottenere ciò che desiderava.

    Si scopre che la famiglia Graham è stata manipolata da una setta segreta che adora un’entità demoniaca nota come Paimon. Joan, interpretata da Ann Dowd, è uno dei membri chiave di questa setta. Joan ha manipolato Annie per invocare Paimon nel corpo di Peter. Nella sequenza finale, Peter, sotto l’influenza di Paimon, diventa posseduto dalla divinità e decapita la madre Annie. Joan, Peter, e altri membri della setta, si riuniscono in un rito che trasferisce il corpo di Peter a Paimon. Nel momento culminante, Peter viene coronato come l’ospite perfetto per Paimon, e la setta celebra il suo successo. Il finale è ambiguo e inquietante, lasciando molte domande senza risposta e concludendo con l’orrore che si perpetua. La famiglia Graham è stata completamente distrutta dalle forze oscure e dai segreti del passato. La narrazione del film riflette la discesa nella follia e nel terrore, con il destino inesorabile che porta alla tragedia.

  • Pirati fantasma: guida pratica a “The fog” (J. Carpenter, 1980)

    Pirati fantasma: guida pratica a “The fog” (J. Carpenter, 1980)

    Durante la ricorrenza del centenario della nascita della tranquilla cittadina di Antonio Bay (21 aprile), una misteriosa nebbia avvolge le navi di passaggio e le case dei singoli abitanti. Al suo interna sembrano celarsi dei misteriosi esseri che uccidono utilizzando spade ed uncini…

    In breve. “The fog”, film in parte sopravvalutato ma discretamente interpretato: un’ interessante digressione di vecchia scuola b-movie da parte di un buon Carpenter, che firma soggetto, musiche e regia. Avvolgente e lento – almeno nelle intenzioni – come un racconto di E. A. Poe (a cominciare dalla citazione iniziale), il suo sostanziale limite si rileva nell’intreccio stesso, ben costruito ma piuttosto scarno e troppo tirato per le lunghe.

    Seduti attorno al fuoco, un gruppo di ragazzini di Antonio Bay ascolta una storia di pirati seduta attorno al fuoco: con questa atmosfera suggestiva inizia “The fog“, un film horror che omaggia la scuola anni 50, e che vive di suggestioni molto classicheggianti. Prima di tutto, e non poteva che essere così, le atmosfere di H. P. Lovecraft, a cominciare dall’oscurità incombente sulla piccola cittadina, continuando con le solite presenze malefiche non umane sfumando poi su un sepolto senso di colpa, legato ad un misfatto collettivo che si scoprirà soltanto alla fine. Del resto nell’introduzione ci ricorda, con le parole di Poe, che “tutto ciò che vediamo o a cui rassomigliamo è soltanto un sogno dentro un sogno“, quasi a voler sottolineare le illusioni e le suggestioni di un mondo senza memoria storica, senza passato e (forse) senza futuro.

    Il formato anamorfico, utilizzato ostinatamente dal coraggioso ed indipendente regista, e concepito per dare maggiore dignità alla pellicola, visto oggi finisce quasi per fare tenerezza: i pirati fantasmi rimangono per tutto il film poco più che un’ombra, ed il livello di azione e di sangue è piuttosto vago e indefinito. I mostri, privati del proprio oro dall’avidità degli abitanti cento anni prima (etteparèva), vengono commentati dalla suadente voce di Stevie (Adrienne Barbeau), speaker radiofonica (a volte) fuori campo, che potrebbe aver parzialmente ispirato Fulci, Fragasso e compagnia in Zombi 3. Questo espediente serve a mantenere il film parzialmente affascinante anche al giorno d’oggi, anche se bisogna riconoscere che la faccenda è tirata un po’ troppo per le lunghe, annoia in più di un tratto e potrebbe risultare facilmente soporifera per il pubblico di oggi: assolutamente inadatto, quindi, a chi si aspetta colpi di coda e thrilling intenso. Qui è come se Carpenter si sia crogiolato troppo nelle proprie idee, finendo così per sfornare un prodotto gradevole soltanto per gli iper-appassionati. Buono, comunque, il livello della regia, capace di rappresentare un doppio o triplo livello di vicende in contemporanea, senza mai creare confusione ed unendo vari punti con intelligenza ed efficacia. Peccato per gli effetti speciali, davvero troppo essenziali: qualche oggetto in movimento, qualche ombra indefinita, qualche orologio che si spacca e delle automobili che si avviano senza guidatore sono un po’ pochino per parlare di un horror corposo. E questo rimane vero, purtroppo, anche contestualizzando il tutto al periodo di uscita di “The fog“…