FOBIE_ (170 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Basket case: cosa c’è in quella cesta?

    Basket case: cosa c’è in quella cesta?

    Duane Bradley, ragazzo di provincia dalla faccia pulita, si presenta in un motel di New York portando con sè uno zainetto ed una grossa cesta di vimini: cosa è venuto a fare nella Grande Mela?

    In breve. Tra i b-movie del genere horror per eccellenza: sangue, violenza, trama più solida della media e vari elementi che lo hanno reso, nel tempo, un oggetto di culto. Gli appassionati non potranno prescindere da questa chicca (per quanto non esente da difetti), gli amanti generalisti dell’horror possono sempre visionare per curiosità.

    Basket case” di Frank Henenlotter (regista noto principalmente per via di questo film e di Brain damage) è probabilmente uno dei b-movie dell’orrore più solidi e famosi mai realizzati negli anni Ottanta. Il suo feeling, il suo ritmo ben scandito, il suo splatter artigianale e gli spruzzi di sangue (probabilmente fatti con una “peretta”) hanno finito per fare scuola, e non ci sono dubbi che i lavori della Troma (ad esempio) ne possano essere stati pesantemente influenzati. Un esempio di b-movie per fama, gloria e giusti meriti, anche per il fatto che riesce a mantenere viva l’attenzione dello spettatore senza banalizzare, ma anzi accattivandosi la curiosità e dosando con grande cura tutti gli elementi.

    In pochi hanno notato che si tratta di un horror artigianale che, a suo modo, analizza le relazioni umane (amore, gelosia, possessione) sfruttando un’apparenza meramente organica e gore: il risultato appare pienamente convincente, anche se probabilmente, al netto di tutto, riesce più ad incupire che a spaventare sul serio lo spettatore. Si potrebbe parlare di una sorta di proto-body horror, per via della presenza della creatura nella scatola che finisce, inevitabilmente, per avere un’ovvia valenza simbolica (orrore esteriore versus interiore).

    Beninteso che, in questo discorso, si rimane comunque lontani dalle introspezioni sul tema effettuate qualche anno dopo da David Cronenberg, si tratta un horror artigianale ottantiano nello stile, nella sequenzialità e nella costruzione dei personaggi, in cui vive qualche momento davvero tragico che forma una strana coppia – neanche a dirlo – con l’andamento scanzonato, irriverente e volutamente trash del resto. Secondo alcuni, del resto, è proprio questo dualismo l’unica cosa che finisce per essere l’aspetto negativo di “Basket case“, fermo restando che si tratta di una pellicola “di genere” per pubblico “di genere”, non sono mai stato troppo d’accordo. L’accostamento mi pare ben realizzato, il tema di fondo è decisamente spaventoso, e la verità, per quanto faccia sorridere di riflesso, si sa trasformare e diventa (fin troppo) serio nella seconda parte. Una prassi di molti horror, per la verità, quella di accostare il comico al tragico. Il tutto, c’è da specificare, in un contesto di recitazione abbastanza infimo ed una qualità visiva piuttosto bassa, per non parlare del doppiaggio in italiano non esattamente da Actor’s Studio.

    Del resto rimangono innumerevoli gli elementi di culto della pellicola: il mazzetto di dollari ostentato da Duane – secondo il regista si trattava dell’intero budget del film! – gli inevitabili tagli che misero sul mercato una versione “fully uncut” ed una che esaltava (censurando tutto il gore) solo l’aspetto ironico del film, i credits per buona parte fake – dato che il cast era particolarmente esiguo, la chirurgia improvvisata nel salotto di casa, gli inquilini casinari del motel, le urla nella notte, le smorfie indimenticabili di Terri Susan Smith versione “ragazza della porta accanto“, senza dimenticare naturalmente il contenuto del cestino (la vera miccia che “accende” la pellicola). La creatura venne animata parzialmente in stop motion (cosa un po’ insolita per un film di questo tipo) oppure, ove possibile, con un guanto deformato mosso direttamente dal regista – tanto per dare l’idea del livello di artigianalità che, è bene specificare, non degenera mai in un eccesso che lo avrebbe reso solamente ridicolo.

    Probabilmente uno dei film del genere più “puramente” b-movie, non il miglior horror anni 80 (questo è sicuro) ma certamente una delle pellicole che meglio bilancia artigianalità e qualità, con un finale in crescendo ed un epilogo tragico che non potrà, a mio avviso, lasciare indifferenti.

    Come già in altri casi: “Basket case” per molti, ma non per tutti.

  • Noroi The Curse: il mockumentary paranormale di Shiraishi

    Noroi The Curse: il mockumentary paranormale di Shiraishi

    Masafumi Kobayashi, giornalista che si occupa di paranormale, scompare misteriosamente dopo l’incendio della sua casa, episodio che provoca la morte della moglie. L’uomo aveva appena realizzato un documentario che indagava su alcuni singolari fenomeni paranormali…

    In breve. Nonostante i presupposti non siano incoraggianti e la tagline di apertura – “Questo documentario è ritenuto troppo inquietante per una visione pubblica” – rischi di far sorridere il pubblico più smaliziato, “Noroi” sa ben raccontare una storia in stile falso-documentario, sia con grande consapevolezza dei mezzi che con buona scelta di intreccio, personaggi ed ambientazione. Una versione riveduta, arricchita e corretta di The Blair Witch Project, con numerosi pregi rispetto a questa citatissima (e sopravvalutata) pellicola. Un film avvolto da una spirale di sovrannaturale mai di bassa fattura, e dal taglio quasi “scientifico”: da non perdere.

    Kagutaba: a tool that is capable of causing disasters

    Noroi è un film ancora non disponibile sul mercato italiano, ma che si rivela piuttosto interessante ed originale, pur eccedendo in un unico difetto (l’eccessiva lunghezza: circa due ore): i suoi pregi lo rendono comunque consigliabile, specie se collocato all’interno di un genere che, ad essere onesti, troppo spesso si limita a fare rehash di luoghi comuni, storie e personaggi già visti in decine di altre salse. Del tutto privo delle caratteristiche che rendono detestabile il genere (vedi le riprese troppo traballanti e l’eccessiva essenzialità degli intrecci), Noroi merita una visione da parte del pubblico horror di ogni “ordine e grado”. Diversi sono i dettagli, infatti, che sono degni di essere raccontati: il rituale del demone Kagutaba, l’enigmatico comportamento del sensitivo freak, la comparsa di un dettaglio durante la seconda visione della videocassetta, dinamica che cheggia quasi il gioco di specchi dietro il quale si cela l’assassino di Profondo rosso. Il nastro del mockumentary, preannunciato come “troppo sbalorditivo per essere immaginato“, finisce poi per suggerire indirettamente la strategia del regista Shiraishi: puntare fin dai primi fotogrammi su ambiguità svelate progressivamente (a volte solo basandosi su suggestioni inquietanti) che dovrebbero far vedere – da un momento all’altro – qualcosa di orrorifico allo spettatore.

    E, di fatto, la scelta di mostrare quasi subito la maschera dagli occhi cavi del demone Kagutaba indica che non si tratta del solito gioco di accenni, suggestioni e rimandi mai esplicitamente mostrati: l’orrore è suggestivo, tangibile e concreto, per quanto suggerisca più malattie psichiche o mentali che vere e proprie entità maligne. Il vero protagonista della pellicola, ovvero l’occhio vigile e mal celatamente voyeristico della telecamera (vedi Peeping Tom o Marebito), cerca di filmare il non-filmabile, di indagare a fondo sui vari livelli di realtà per cercare di imprimere su nastro ciò che si nasconde sotto un ennesimo velo di Maya. Il tutto, come si conviene, tendendo progressivamente un filo della tensione, mantenuto piuttosto credibile fin dall’inizio, e schematizzando il film in micro-sequenze quasi a sè stanti, mediamente di cinque minuti ciascuna. Concentrandosi su vari aspetti del paranormale (ESP, telecinesi e via dicendo), e frammentando con cura le scene – che questa semplice tecnica fanno diventare una continua scoperta per lo spettatore – fanno sì che, pur inserendo topoi del terrore già usati in altre pellicole (le voci di bambini che piangono, la scomparsa della sensitiva e via dicendo) il film non risulti mai “già visto” o, peggio, malamente adattato. Tante sezioni, in definitiva, girate in modo amatoriale e con stili differenti, realizzando sostanzialmente un film vero e proprio che del mockumentary conserva più che altro la sola forma espressiva.

    La stessa definizione di shockumentary, di fatto, sembra in questa circostanza quasi castrante e limitativa, ed andrebbe utilizzata con le dovute riserve e specifiche del caso: Noroi conserva la struttura tipica di un horror paranormale, e non si perde nei dettagli che ipocritamente altri film promettono (senza mantenere) di mostrare. È quindi, in definitiva, il linguaggio accattivante e ben ritmato di “Noroi: The Curse“, a conti fatti, che risulta essere il suo principale punto di forza.

  • Suicide Club è il circolo della morte di Shion Sono

    Suicide Club è il circolo della morte di Shion Sono

    Tokio sembra essere in preda ad un’epidemia di suicidi: prima 54 adolescenti si gettano sotto un treno, poi un’infermiera si lancia nel vuoto e degli studenti emulano il gesto dal balcone della scuola. Un poliziotto indaga sulla questione scoprendo verità inquietanti…

    In breve. Diffidate da qualsiasi recensione o parere troppo entusiastico, perchè il film non riesce a cogliere nel segno. L’incipit è memorabile, senza dubbio, ma seguono troppi accenni, troppi elementi sconnessi, una certa smania di stupire e delle interpretazioni non sempre di livello. Un’idea che forse, in altri contesti, sarebbe potuta essere più accattivante.

    Diretto nel 2002 dal visionario Shion Sono (già noto per il terrificante e fuori dalle righe Strange circus), Suicide Club (noto anche con il titolo “Suicide Circle“) è a mio parere un film riuscito solo a metà: se da un lato scatena suggestioni impulsive – il suicidio è senza dubbio uno dei tabù più colossali della società moderna – e nonostante riesca a divagare con una certa coerenza, un sentito gusto per il grottesco e per l’esagerazione sul tema, ne risulta una pellicola ampiamente sopravvalutata e sopravvalutabile. Suicide Club, pertanto, evoca più la più classica delle occasioni perse.

    Non male il livello di splatter, per quanto molte scene siano ai limiti dell’artigianalità più grossolana(quasi a livello di certi b-movie italiani anni 80); decisamente più suggestive molte delle scene topiche, tra cui il suicidio in metropolitana che vediamo all’inizio, e le morti più improbabili che rivaleggiano con quelle viste in “Final Destination“. La parola “capolavoro”, tanto abusata in queste circostanze, ci deve ricordare che non basta scomodare temi forti per essere considerati cineasti di livello: è anche questo di come si racconta. Questo difetto, a mio avviso, si concretizza per almeno due ragioni: da un lato non si capisce quasi per nulla dove il regista sia voluto andare a parare (cosa piuttosto chiara, invece, nella metafora circense del succitato film), dall’altro la trama appare piuttosto sconnessa, caotica – in certi passaggi si fatica a capire cosa stia succedendo. Il finale è visionario o realistico, ad esempio?

    Nonostante alcune trovate crudeli quanto azzeccate – la cintura di pelle umana è destinata a scolpirsi nella memoria di tutti gli spettatori – vi sono troppi momenti di sottovuoto spinto che fanno calare l’attenzione, e non riescono (a mio parere, ovviamente) a coinvolgerlo come si dovrebbe. Eppure le idee non mancano, del resto il tema era ghiotto: il focus è posto sull’alienazione dell’uomo moderno, svilito da mille giocattoli futili e disumanizzato al punto di sentirsi “solo tra la folla” come unica, autentica, condizione di esistenza. Una solitudine lacerante che porta a voler terminare la propria vita anche senza una ragione, forse semplicemente perchè la società lo imporrebbe, con i suoi ritmi pressanti ed autodistruttivi. Altri cineasti hanno mostrato in questa direzione, e pur sviluppando trame a volte ai limiti dell’astrattismo puro (penso a Tetsuo, ma anche a Izo e a Der Todesking) sono riusciti a cogliere nel segno: il regista Sono, al contrario, concretizza diversi incubi metropolitani moderni in perfetta penombra, e mostra teenager incoscenti propensi a trovarsi una fidanzata con la stessa tranquillità con cui commetterebbero un suicidio di massa.

    Del resto non sarebbe stato male lasciare un punto interrogativo sulla natura dell’eventuale setta che sembra aver condizionato le menti dei giovani mediante internet: ma i particolari del puzzle appaiono distanti tra loro, troppo per parlare di un film davvero memorabile.

  • Freaks (1932): Tod Browning racconta le storie di veri fenomeni da baraccone

    Freaks (1932): Tod Browning racconta le storie di veri fenomeni da baraccone

    Hans è un nano da circo innamorato di una trapezista, la quale ne asseconda le galanterie solo per convenienza.

    In breve. L’unico difetto di Freaks è che non vedremo mai la versione uncut, perchè venne massacrata dalla censura per via delle reazioni negative del pubblico dell’epoca. Al netto di questo, un capolavoro crudele e significativo, che lascia il segno ancora oggi.

    Può una donna amare davvero un nano? Leggere più volte la tagline di Freaks è il modo migliore per approcciare alla sua visione: film del 1932, recitato secondo i canoni espressionisti e tormentato da numerosi problemi di scandali e di distribuzione. Tra i film maledetti forse per eccellenza, peraltro, dato che una parte del film particolarmente cruda pare sia andata perduta per sempre: as usual, tagliata dalla censura d’epoca.

    La storia è semplice: una trapezista bella e calcolatrice di nome Cleopatra, intepretata da Ol’ga Vladimirovna Baklanova, approfitta biecamente dell’invaghimento del nano Hans (Harry Earles) per farsi prestare denaro e ricevere regali di ogni genere. Non solo: fa finire la precedente relazione dell’uomo (che ha un’aspetto da bambino e, per inciso, interpreta splendidamente la parte) e, durante un matrimonio simulato, cerca più volte di avvelenare il consorte al fine di rubargli l’eredità.

    Questo scatenerà una feroce vendetta da parte dei freaks, che si rivolteranno contro i “normali” in una modalità piuttosto brutale e con reminiscenze strutturali del racconto Hop-Frog di Poe: lei sarà mutilata e diventerà una spaventosa “donna gallina”, mentre il suo amante sarà castrato e avrà un futuro da cantante in falsetto (quest’ultimo dettaglio non si vede nel film, ma era previsto dalla sceneggiatura originale). Esiste anche un lieto fine imposto dalla MGM, in cui si mostra Hans in una bella casa da miliardario ovviamente riappacificato con Frieda: questa sequenza, nella versione in streaming su Amazon Video, non sembra essere presente.

    Most big people do, they don’t realize that I’m a man with the same feelings they have (Hans)

    Se Freaks è consolidato a livello di cult assoluto, ovviamente, i motivi sono tanti: non ci sono effetti speciali veri e propri, perchè se vediamo un uomo senza gambe camminare con le mani o un’altro senza arti accendersi una sigaretta il risultato, ancora oggi, è ancora più impressionante. Questo dipende anche dalle storie che si raccontarono all’epoca, tra cui quella di una donna che fece causa alla MGM (distributrice del film) perchè, a suo dire, aveva subito un aborto spontaneo dopo aver visto il film. Ad ogni modo, Steven Schneider inserisce Freaks tra i 1001 film da vedere prima di morire – e noi ci sentiamo di dargli ragione, a pieno diritto.

    Il soggetto di Freaks è tratto dal romanzo breve Spurs di Tod Robbins, a cui il regista pensava già dal 1927. I veri protagonisti della pellicola furono, storicamente, quelli che comunemente o cinicamente chiamiamo freak: non nel senso squisitamente zappiano del termine, bensì vari uomini e donne affetti da una qualche anormalità o deformità fisica. Ad esempio il nano Harry Earles, la donna barbuta Olga Roderick (che dopo le riprese rinnegò la sua partecipazione, a quanto pare), Frances O’Connor e Martha Morris (le due ragazze senza braccia), le gemelle siamesi Daisy e Violet Hilton, Zip & Pip (Elvira e Jenny Lee Snow), l’ermafrodita Josephine Joseph; Johnny Eck ovvero l’uomo senza gambe, Prince Randian senza nè braccia nè gambe, Koo-Koo “la ragazza uccello” e Schlitze (vestito da donna per motivi di incontinenza).

    Il regista aveva lavorato in un circo in gioventù, sia come clown che come contorsionista: la sua familiarità con quell’ambiente fa finito per ispirarlo nel realizzare questo lavoro, che in effetti ci trasporta in modo molto credibile all’interno di un circo, in cui i “fenomeni da baraccone” (senza braccia, senza gambe, nani, con la testa a punta e via dicendo) vengono derisi e segretamente discriminati o sfruttati dai “normali“.  All’epoca fece scalpore, e anche tanto, che Browning avesse scelto di usare autentici freak come attori, risparmiando sugli effetti speciali e conferendo alla pellicola un che di realistico che, visto ancora oggi, fa realmente impressione.

    Gli intenti di denuncia sociale e di volontà di far riflettere il pubblico su una vicenda tragica e romantica per definizione vennero, all’epoca, travisati come volontà di strumentalizzare gli attori e le rispettive deformità: cosa che Browning non ha mai fatto, proprio perchè mostra i vari uomini e donne discriminati e vittime del cinismo e della perfidia dei cosiddetti “normali”. Al tempo stesso, un film del genere sarebbe improponibile a qualsiasi produzione ancora oggi, motivo per cui lo stato di cult si è consolidato nel tempo, finendo per fare le scarpe (soprattutto a livello visuale) a qualsiasi altro horror eccessivo o violento sia mai stato prodotto.

    Negli Stati Uniti, non a caso, Freaks è stato bandito in numerosi stati e città, e a quanto pare ancora oggi è tecnicamente illegale organizzare proiezioni di questo lavoro in molte zone degli Stati Uniti. Nel Regno Unito e in Australia, peraltro, questo film è stato bandito per più di 30 anni dopo la sua prima uscita, e in Italia non è mai ufficialmente arrivato (su Amazon Video è disponibile solo in inglese sottotitolato in italiano).

    C’è anche un’altra cosa da osservare: se questo film fosse uscito qualche anno dopo, sarebbe quasi sicuramente stato vittima di facili spettacolarizzazioni, soprattutto che insistessero inutilmente sull’aspetto dei protagonisti o, peggio ancora, trasformando la vicenda in uno snuff e/o shoxploitation. Browning, per quanto massacrato dalla censura (la versione che ci è arrivata del film non è, quasi certamente, una director’s cut), sembra invece molto attento a dosare il linguaggio ed i contenuti, ed è abile a “caricare a molla” la storia, mostrando la derisione e l’arroganza dei due villain per poi esplodere in faccia allo spettatore la fase di revenge.

    Distribuito per un certo periodo coi titoli “Forbidden Love“e “Nature’s Mistakes“.

  • Martyrs: l’horror viscerale e imprevedibile di Laugier

    Martyrs: l’horror viscerale e imprevedibile di Laugier

    Una bambina, in fuga da una fabbrica abbandonata, viene accolta in un orfanotrofio. Anni dopo, la vediamo da adulta irrompere in una casa, armata di fucile a pompa. Mentre l’amica di sempre si affretta a raggiungerla, una domanda assilla lo spettatore: per quale motivo la ragazza sta agendo così?

    In breve. Singolare storia thriller ad innesco multiplo, convulsa, imprevedibile, avvincente quanto ricca di momenti decisamente cruenti (non sarà facile guardarlo per intero). Il punto da focalizzare non è tanto l’osare, il trasgredire chissà quale tabù, quanto l’immettere in circolo un messaggio preciso e, a suo modo, ancora rivoluzionario. Il “gioco” di Laugier sembra essere quello di fare concetto sull’idea di martirio: A serbian film si è spinto anche oltre, ma qui non si scherza neanche.

    Non faccio parte dell’elite che scrive sui magazine e forma gran parte delle opinioni sui film; tantomeno mi piace cercare sottotesti quando non ce ne sono, anche se – senza una vera consapevolezza – della volte finisco per farlo lo stesso. Per queste ragioni vorrei improntare la mia recensione instradandola sui giusti binari da subito, dato che le cose da evidenziare in Martyrs sono tante, ed è molto facile divagare e perdersi in discorsi futili.

    Per analizzare il film mi sono basato su un’intervista a Laugier disponibile ancora oggi su Youtube, che parte da un’osservazione fondamentale: da Scream in poi, piaccia o meno, è nata una corrente di horror che (triste da riconoscere) sembra non credere più alle storie che racconta. A differenza dei classici dell’exploitation anni ’70, della corrente satanica e di poche, lodevoli eccezioni analoghe, la rappresentazione del terrore è diventata sempre più “popolare”, più legata a stereotipi di genere, fumettistici quanto a loro modo ammorbidenti, collocando spesso la narrazione su situazioni facili da prevedere, stereotipate, a prescindere. Il famoso caso in cui “si strizza l’occhio al pubblico” per accattivarsene i favori, e farlo al limite sentire più intelligente della media è tutto qui: ed è proprio ciò che Martyrs, senza dubbio, non è.

    Questo mi sembra il presupposto fondamentale per capire appieno lo spirito di “Martyrs“: in molti altri film si era fin troppo consapevoli che si trattasse di finzione e questo, secondo il regista, ha contribuito a smaliziare il pubblico e a renderlo (aggiungerei) particolarmente maleducato – nel senso di “non educato al Cinema“. La reazione a questo malessere, legato a problemi personali del regista, è stata la stesura di questa allucinante storia – e con risultati del tutto positivi.

    Martyrs“, a dispetto di chi ne ha criticato la violenza gratuita – manco fosse il più insulso dei naziploitation, è un horror molto complesso nel suo concepimento e, forse proprio per questo motivo, facile preda di banali critiche nazional-popolari, quanto a ben vedere affascinante. La recensione che segue potrebbe contenere, inevitabilmente, qualche micro-spoiler inevitabile, a cui ho badato, in una successiva revisione dell’articolo, a fare in modo che non fosse eccessivamente “compromettente” (nota di maggio 2022).

    Il regista francese Pascal Laugier, classe 1971 – che qualcuno ricorderà per “Saint Ange“, lavoro parzialmente sulla falsariga di The ward e Session 9 – è partito da uno scenario tipico nel cinema di genere (una storia di vendetta, un po’ alla Tarantino verrebbe da dire), per poi sviluppare la trama su altro, mediante una sequenza di colpi di scena uno più devastante dell’altro. E sa farlo, questo è innegabile. Il film possiede una capacità di inchiodare lo spettatore alla poltrona sfruttando situazioni sempre poco prevedibili, poco scontate, molto poco banali. E dire che la storia, al di là dei minuti iniziali, si sviluppa con un caso di “già vista” violenza casalinga apparentemente motivo, che finisce per fare da inquietante preavviso per il pubblico.

    Perchè Martyrs?

    Per martirio si intende, per definizione, il sacrificio della vita accettato in nome di una fede: un concetto che è risuonato minaccioso negli ultimi eventi che abbiamo vissuto a livello mondiale, dopo il collasso delle superpotenze polarizzate ed il consolidamento delle post verità personali. Laugier parla soprattutto del martirio accettato dai seguaci di una religione ma il discorso, ad oggi, potrebbe estendersi a qualsiasi credo politico, per dirla alla Zizek (o Lacan) un Grande Altro, foriero di perenne tensione morale e psicologica quanto, alla fine dei conti, identificabile con qualsiasi ideologia o principio ispiratore della propria vita.

    Dicevamo la complessità di Martyrs e questo, sia ben chiaro, deve essere messo in chiaro per evitare di descrivere ciò che il film non è: Laugier ha svolto un gran lavoro di ricerca etimologica sul martirio e sulle sue implicazioni di significato, a livello religioso come culturale. Per chi ama l’horror non dovrebbe essere neanche una novità, alla fine: per quanto si possa apprezzare ad esempio Cronenberg e la sua profondità concettuale, o anche solo “divertirsi” con mostri, serial killer o famiglie dedite al cannibalismo (anche qui il rischio banalizzazione è dietro l’angolo, come detto all’inizio), non sarà facile per il pubblico medio accettare un film come “Martyrs“. Che di una violenza considerevole non fa mistero, ma la usa sempre in modo funzionale al titolo: il martirio possiede una connotazione liberatoria, pura, angelica, tanto da renderlo realmente inquietante, come pochi altri titoli. Un qualcosa che riprende, a livello di linguaggio, la tradizione dell’orrore pulp e low-cost, quello che va bene a patto che sia realistico (Le colline hanno gli occhi, L’ultima casa a sinistra), prendendo le distanze dall’horror più scanzonato o “fumettaro”.

    Specialmente in tempi di crisi generalizzata come quelli che viviamo, il pubblico ha poca voglia di speculare e riflettere su ciò che ha visto – e tanta di cannibalizzare pellicole giusto per “fare numero”, per cui quando un film come questo ha qualcosa di serio da raccontare, è paradossale che il contenuto passi in secondo piano per parte del pubblico. Del resto la regia è solida, la sceneggiatura non fa una grinza e le interpretazioni sono tutte ineccepibili: Martyrs possiede un ritmo da film perfetto, ma per capire appieno quello che si è visto occorre pazientare un’ora e mezza, e a quel punto non sarà facile non distogliere lo sguardo. La violenza che sprigiona da circa la metà dei fotogrammi padroneggia e domina lo spettatore, mostrandogli sangue, umiliazioni e sottomissione psico-fisica che, come si scoprirà, sono dovute ad una vera e propria setta religiosa che finalizza la sofferenza del martirio, per l’appunto, alla ricerca dell’Aldilà e a spese delle povere vittime.

    Martyrs prende spunto (anche) da Clive Barker

    Se state pensando ad Hellraiser – il dolore per sublimare il piacere – siete quasi sulla giusta strada, in effetti, anche se qui le conseguenze sono spinte in modo molto più contemplativo, realistico e profondo di quanto non avvenga nel capolavoro di Barker. In tal senso i paragoni con Hostel di Roth sono fuori luogo (qualcuno ha equivocato in tal senso, in effetti) se non per la dinamica delle torture, aspetto secondario rispetto ai contenuti effettivi del film, che vanno al di là di una mera o compiaciuta pornografia dell’horror. Rimane forse come tratto comune tra queste ultime pellicole la sofferenza dell’uomo vista come un qualcosa di catartico, liberatorio e purificatore: l’asceta/vittima diventa un privilegiato, un essere superiore da idolatrare perchè del tutto immune al dolore, e sulla via della conoscenza. E se il mostro che hanno creato è così, è chiaro che sarà terribilmente più spaventoso di qualsiasi altro.

    Martyrs e il torture porn

    Ho letto che molti hanno scomodato il termine torture porn, espressione abusatissima fino a qualche anno fa in questo ambito, ma in questo caso la locuzione – per quello che vale – è assolutamente fuorviante ed inesatta: la violenza che subiscono le vittime di Martyrs non provoca piacere a nessuno, ma è comunque liberatoria, serve a far raggiungere uno status privilegiato (quello di martiri, ovviamente nella mente contorta degli aguzzini), e questo rende automatico riportare il discorso verso le varie forme di fanatismo (religioso ma anche, come dicevamo prima citando Lacan, politico e sociale).

    Altro colpo di genio, del resto, è il fatto di rappresentare una inquietante micro-società auto-organizzata, nella quale le giovani sono lentamente massacrate anche da altre donne, mediante violenza subdola ed arrivando a perdere progressivamente i propri tratti di femminilità. Una chiave di lettura che, a suo modo, richiama metamorfosi cronenbeghiane (per non dire kafkiane) ma anche il Potere brutale rappresentato dal celebre “Salò” di Pasolini, altro film molto apprezzato da diversi amanti dell’horror per quanto anch’esso propenso ad essere mal giudicato, per via di una forma che finisce per sovrastare la sostanza.

    Servono sicuramente anche film del genere, saggi di psico-horror o horror sociale che dir si voglia, e serve rivedere film del genere con uno spirito di ricerca: con più pellicole come Martyrs, probabilmente, non cambierebbero di una virgola le incomprensioni tra detrattori ed estimatori a priori ma – se non altro – la dignità del genere horror sarebbe sicuramente più preservata.

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