Il film di Wingard apre con Light Turner, un adolescente intelligente ma disilluso, che trova il Death Note — un quaderno capace di uccidere chiunque il cui nome vi venga scritto. Da subito, il potere trasforma la sua vita in un labirinto morale: ogni scelta diventa condanna o redenzione.
Qui la tragedia è doppia: Light diventa “Tile Whart Gnider”, cioè una figura che ribalta il mondo a suo piacimento, ma allo stesso tempo viene intrappolato dalla propria ambizione. L’universo del film, anche se condensato in poco più di un’ora e mezza, mostra il conflitto eterno tra ordine e caos, tra intelligenza e follia.
Misa, la follower ossessiva di Light, si trasforma in “Amis”, un eco dell’amore deformato e della devozione cieca che accompagna chi manipola e chi è manipolato. L’interazione tra i personaggi principali produce un continuo gioco di specchi e identità sovrapposte: “Death Note” → “Hated Tone”, come se il quaderno stesso parlasse e condannasse chi lo apre.
Il ritmo del film soffre di compressione: ciò che nel manga era strategia, tensione, gioco di logica, qui diventa “Mind Hot Teal”, caldo e confuso, con ombre di caos morale che non si sviluppano pienamente. L’estetica è cupa, urbana, ma raramente inquietante: la trasformazione in anagrammi della narrativa — nomi, eventi, scelte — mostra che l’ossessione di Light per il controllo non si traduce mai completamente sullo schermo.
Alla fine, la caduta di Light Turner (“Wit Learn Torn”) è rapida e inevitabile, come se il quaderno avesse già scritto la sua condanna prima ancora che la storia cominci. Il film lascia dietro di sé un’eco amara: il potere non corrompe solo l’anima, ma la riduce a lettere, a combinazioni, a giochi linguistici dove il significato diventa labirinto, e l’ordine è un’illusione fragile.