Il panorama punk underground è sempre stato estremamente attivo, per quanto sia stato costituito spesso e volentieri da vere e proprie meteore. Band che nascono e muoiono nell’ambito di un paio di album, risultando peraltro introvabili sulle piattaforme di streaming a cui siamo abituate. Gli Erode di Como sono esattamente così: non si trovano su Spotify, potete trovare qualcosa su Youtube o al limite spulciando in qualche superstite negozio di dischi. E se è vero che – come ricordano i Punkreas – intanto i negozi di dischi non ci sono più, rimane vivida e sostanziale questa gemma del punk oi italiani di metà anni Novanta.
Sono saturo di voci / E povero di idee (Erode, Conoscenza Reciproca, 1997)
Sarebbe impossibile descrivere questo disco e coglierne l’essenza senza delineare quello che è stato, storicamente, il movimento Punk Oi!. Verso la fine degli anni Settanta, in piena esplosione del fenomeno punk (con capofila Ramones, The Clash e Sex Pistols), si andavano creando varie sotto-correnti del genere, un po’ come avvenuto per il metal. Due generi che da questo punto di vista hanno avuto quasi più sotto-generi che band, e che esprime mediante l’Oi! (che alcuni identificano con lo street punk) la vera voce popolare. La musica Oi! nasce come tentativo di mantenere il punk come fenomeno stradaiolo, per l’appunto, lontano dalla parvenza da rockstar delle band punk più famose: la parola Oi trae spunto da un brano dei Cockney Rejects del 1980, band che usava aprire ogni brano dicendo quattro volte “oi” al posto del solito 1, 2, 3, 4 per dare il tempo.
I Cockney Rejects’ vengono dall’East End di Londra (la stessa zona che ha visto nascere gli Iron Maiden di Steve Harris), e i loro componenti sono legati al mondo del tifo del West Ham United, al punto da aver coverizzato il brano che viene cantato tradizionalmente dai tifosi allo stadio, I’m Forever Blowing Bubbles. Il punk oi come genere è tipicamente diretto, brutale, senza fronzoli e caratterizzato da cori da stadio all’interno dei brani, probabilmente per la contestualizzazione calcistica in cui di fatto il genere ha preso piede. Con tutte le ambiguità e le facili polemiche del caso, a cominciare dagli episodi di violenza ai loro concerti (da parte di tifoserie rivali) a finire all’attribuzione / presunta vicinanza a movimenti di estrema destra come il British Movement. La maggior parte delle band (e degli skinhead) si è sforzata di prendere le distanze da questo aspetto, soprattutto dopo una serie di violenti incidenti durante vari concerti Oi; tuttavia la presenza di band suprematiste come gli Skrewdriver sono state sufficienti a dare all’Oi! uno stigma di cui non si è mai, forse, completamente liberato.
Gli Erode entrano in scena da Como negli anni Novanta con questo unico album (assieme ad altri due EP), ed esibiscono un’appartenenza politica senza ambiguità, aderendo di fatto all’ideologia dell’allora Unione Sovietica, mostrando falce e martello, stella rossa e militari in copertina, fino alla fotografia di Lenin in seconda di copertina del CD. L’ideologia della band è chiara, ma il disco non si limita a parlare astrattamente di politica o a farne una questione di “purezza”: al contrario, i testi sono profondi e spaziano su vari argomenti, dalla socialità di ogni giorno alla solitudine, passando per la normalizzazione del fascismo e per le difficoltà della vita di strada.
Cerco aperture che nel mondo non trovo
Nuove fessure dove entrare di nuovo
Vecchie strutture dove fare il mio covo
Impalcature da rimettere a nuovo
Consumato è il mio tempo
Impotente ed immoto
Io resto fermo, sguardo perso nel vuoto (Veramente, Erode)
Tutti quanti sotto il cielo – cantano gli Erode ad un certo punto del disco, che si pone come lavoro monumentale per il genere (quantomeno in Italia) e si caratterizza per brani immediati, facili da memorizzare, accattivanti e struggenti, fatti di un tempo non più a misura d’uomo (“Non farti più vedere (no), Non farti più sentire (no), Non lasciare parole da leggere in silenzio, Non voglio più pensarti (no), Non voglio più cercarti (no), Non lasciarmi ricordi, Che fermino il mio tempo“). E tanto spazio è dedicato all’alienazione urbana indotta dalla zona di Como da cui proviene la band, con il brano Panico panico:
Schiere di mobilifici costeggiano la statale, l’autostrada è ingorgata e non ci si muove, e non ci si muove. Prostitute di colore offrono la felicità alla sera, all’Artsana, alla Chicco. I carrelli sparsi per la strada segnalano le postazioni del piacere della Brianza perduta su se stessa.
E si arriva poi a Frana la curva, brano che evoca ovviamente un’atmosfera da stadio incentrata sugli scontri tra polizia e gruppi ultras: forse il brano più famoso della band, coverizzato da varie band ed entrato nell’immaginario del genere e del contesto. Tempo che non ritorna è così senza ombra di dubbio uno dei migliori dischi mai usciti per questo sottogenere, per quello che vale riconoscerlo oggi. Ovviamente impregnato di idee chiare e prive di compromessi, politicizzate nel senso più autentico del termine (la politica, infatti, dovrebbe riguardare la quotidianità ed impregnarsi di vita di ogni giorno, non essere un’astrazione al servizio dei politici di professione).
Un disco per appassionati di punk che vale certamente la pena procurarsi, per quanto non facilissimo da reperire se non nei contesti adeguati (fiere del disco e mercatini).