Ospite Inatteso

  • Tutti i vantaggi della consulenza aziendale

    Tutti i vantaggi della consulenza aziendale

    La consulenza aziendale assume un ruolo davvero significativo, specialmente se un imprenditore vuole amplificare le performance legate alla sua attività. Di solito ciascun imprenditore adotta determinate strategie che ritiene possano considerarsi le migliori per arrivare a risultati precisi. Tuttavia, nonostante spesso le convinzioni siano molto pressanti, sono soggette anche a miglioramento. E in questo senso interviene il ruolo del consulente aziendale, un esperto che si occupa di studiare e analizzare una data realtà imprenditoriale e di progettare e mettere a punto una strategia per migliorare i risultati. Ma scopriamo perché in dettaglio è importante il ruolo del consulente aziendale.

    Perché è importante la consulenza aziendale

    Un collaboratore può svolgere delle funzioni molto importanti. A volte si tratta di individuare quali sono i giochi d’azzardo. Altre volte si tratta di individuare le strategie migliori all’interno del settore di riferimento. Altre volte ancora bisogna individuare i competitor, per studiarne e imitarne le mosse.

    Insomma possono essere tante le domande a cui può rispondere un consulente aziendale. La consulenza di questo tipo è davvero importante perché molte volte le attività da compiere diventano complesse ed è difficile dare una risposta a tutte le domande.

    Un imprenditore può pensare di agire autonomamente, ma soltanto fino ad un certo punto. Infatti spesso ci si accorge che sono necessarie delle competenze specifiche. Soltanto un esperto può avere quella giusta esperienza e quelle giuste conoscenze che possono servire ad ottenere i migliori risultati possibili.

    Ma non dobbiamo pensare ad un conflitto di ruoli, infatti il consulente aziendale non è una figura che “si oppone” all’imprenditore oppure sottrae a lui il potere decisionale. Il suo intervento comunque può essere molto decisivo, specialmente quando il livello di stress per il titolare di un’azienda aumenta, nell’applicare le giuste strategie per raggiungere gli obiettivi prefissati.

    Il consulente aziendale, se vogliamo parlare in generale, può tracciare una strategia con maggiore lucidità e, oltre a far raggiungere gli obiettivi prefissati, può migliorare i processi. Infatti spesso il suo ruolo è quello di far emergere alcune problematiche da risolvere e di trovare le soluzioni.

    Di che cosa si occupa il consulente aziendale

    Il consulente aziendale ha sempre il compito di dare dei consigli corretti e delle indicazioni all’imprenditore. A volte è specializzato in alcune aree ben precise, come per esempio il marketing, la consulenza legale o quella fiscale.

    Il suo ruolo è anche quello di trasmettere le sue competenze e le sue conoscenze all’imprenditore con cui collabora. Ma a livello pratico di che cosa si occupa il consulente aziendale?

    Il suo compito è quello di accompagnare l’imprenditore nel prendere delle decisioni che a volte possono rivelarsi anche troppo complesse. In molte occasioni può contribuire a chiarire i pensieri del titolare di un’azienda con delle motivazioni strategiche.

    Naturalmente non si tratta soltanto di un semplice consiglio come lo intendiamo nel senso comune, ma le sue indicazioni si basano sulla ricerca dei dati oggettivi. Il suo ruolo professionale lo spinge anche a poter proporre delle nuove idee dal carattere innovativo, in modo che l’attività imprenditoriale risulti più efficace e quindi sia portatrice di maggiori guadagni.

    È da considerare che spesso all’interno dei processi aziendali una determinata area che non funzioni correttamente potrebbe influenzare tutte le altre. Questo determina un ritardo nei risultati con delle problematiche che si possono riversare a livello organizzativo, amministrativo, ma che possono avere anche delle conseguenze a livello legale e finanziario.

    E proprio in questo senso interviene il ruolo del consulente aziendale, che, dopo aver analizzato ogni aspetto, si occupa di ottenere un coordinamento delle varie aree aziendali. Da tutto questo si vede come la consulenza aziendale è qualcosa di cui un imprenditore non può assolutamente fare a meno.

  • Perchè Bob Dylan che (non) canta We are the world è il meme più importante degli ultimi 30 anni

    Perchè Bob Dylan che (non) canta We are the world è il meme più importante degli ultimi 30 anni

    We Are the World” è il celebre, citatissimo e altamente simbolico singolo di beneficenza registrato, nel lontano 1985, registrato dal supergruppo USA for Africa nel 1985. Scritto da Michael Jackson e Lionel Richie, con la produzione supervisionata da Quincy Jones e Michael Omartian, fece parte dell’album We Are the World. All’epoca, secondo i dati ufficiali, riuscì a vendere circa 20 milioni di copie, diventando l’ottavo singolo più venduto di tutti i tempi e il ricavato venne interamente devoluto all’Etiopia, all’epoca devastata da una terribile carestia. Nello scorso anno, per inciso, Richie ha proposto di rifare l’iniziativa in favore delle vittime del Coronavirus Covid-19.

    Il supergruppo dell’epoca includeva molte delle star del periodo, 45 artisti tra cui alcuni dei fratelli Jackson, Stewie Wonder, Tina Turner, Billy Joel, Cyndi Lauper. E poi lui: Bob Dylan, sensibile all’iniziativa quanto in difficoltà per la tonalità del brano, non esattamente nelle sue corde abituali, come testimoniato dal video delle prove che effettuò con una certa “sofferenza” di fondo. Poeta, cantautore, scrittore e conduttore radiofonico, Dylan fu da sempre espressione della nuova poetica americana emergente all’epoca, ispirata ad una tradizione innovata e caratterizzata da quel timbro di voce inconfondibile. Ma in quel contesto, probabilmente, non avrebbe potuto dare il meglio di sè.

    Proprio quello che lo rese un meme negli anni a venire. Silenzio, ascolto, un sospiro, un accenno di cantato, Stewie, keep it playing one more time. Pensieri.

    Ad oggi, abbiamo questa meravigliosa testimonianza: il simbolo di chi si trova nel posto giusto senza sapere esattamente cosa fare, perchè farlo, come trovare quel maledetto attacco, quale sarà la tonalità giusta, e facendolo così sembrare un ateo costretto a cantare in chiesa, Play it again Stevie, o magari un perfetto “imbucato” al matrimonio di sconosciuti. E questa, semplicemente, è parte di una storia più grande di chiunque della quale anche lui, in pochi ricordano, fece parte.

    E quanti di noi a casa, in famiglia durante il pranzo di Natale quanto ti sposi / questi giovani d’oggi, durante l’ennesima call fiume con 18 capufficio non si è sentito esattamente come Bob?

    Il simbolo del disagio di chi, con tutta la buona volontà e le buone intenzioni, proprio non riesce a vedersi per tutta la vita in ufficio o davanti ad un computer, aspettando chissà cosa o chissà chi, e sperando (in assoluto, e senza distinguo) in un mondo migliore.

    By The cover art can be obtained from Columbia Records., Fair use, https://en.wikipedia.org/w/index.php?curid=21720627
  • Politicamente corretto: l’impressione (sbagliata) che non si possa più dire niente

    Politicamente corretto: l’impressione (sbagliata) che non si possa più dire niente

    L’impressione che il politically correct coincida con un divieto di libertà di espressione è molto comune (anche nella stampa generalista), e in teoria qualifica ab ovo la potenziale discussione: una giungla priva di regole in cui, di fatto, una persona (in molti casi un po’ buzzurro) che si sente privata della “libertà” di insultare gli altri.

    Chiariamo, non sembra esistere una singola accezione del termine politically correct: nell’ambito cinematografico, ad esempio, non è raro che esso venga utilizzato in modo improprio, e non mancano esempi in cui si riferisce della scorrettezza di personaggi che non sono persone, che appartengono comunque al mondo dell’immaginario e contro i quali, se non altro, l’atto di sfogarsi aiuta forse a lavare la coscienza. Esiste anche una ulteriore accezione del termine, usata da persone prevalentemente conservatrici, che ne fanno uso a titolo di assurda “arma bianca” da usare contro l’interlocutore, specie se quest’ultimo non è troppo attrezzato verbalmente.

    In un libretto denso e di poche pagine in cui parla del film Matrix, Slavoj Zizek smentisce tra l’altro il mito del politicamente corretto (come lo chiama lui stesso) secondo il quale Lacan, il celebre filosofo e psicologo di inizio novecento, avrebbe relativizzato anche la scienza esatta, per “farlo sembrare”, in qualche modo, più “flessibile”. In realtà potrebbe essere una semplice banalizzazione del concetto, cosa non da poco ma sicuramente meno grave del ritenere il politically correct un “tabù” da sfondare egoisticamente e come se nulla fosse.

    Sono questi i limiti in cui dovremmo muovere e focalizzare la nostra discussione, in effetti: comprendendo che se è accettabile una certa flessibilità nelle scienze sociali, non possiamo applicare lo stesso criterio in modo acritico anche a concetti di fisica o medicina. Non che queste ultime siano infallibili e non possano prendere svarioni, ma proprio perchè è in qualche modo il “prezzo da pagare” a fare la differenza.

    Photo by Dmitry Vechorko on Unsplash

  • BONDiNG ha sdoganato tanti tabù sul sesso. E tanto basta (per ora)

    BONDiNG ha sdoganato tanti tabù sul sesso. E tanto basta (per ora)

    Bonding è una serie TV uscita nel 2018 (e terminata quest’anno) da riscoprire, per chi non l’avesse vista, per una varietà di motivi: tanto per cominciare, la durata degli episodi, di circa venti minuti ciascuno, a comporre due sole stagioni (la terza, inizialmente annunciata, non sembra che uscirà mai). In secondo luogo, gioca a suo vantaggio la fresca leggerezza della narrazione, in grado di disseminare gli episodi di spunti auto-ironici e di personaggi gradevoli.

    In ultimo ma tutt’altro che ultimo come importanza, BONDiNG tende mediamente a normalizzare gli aspetti sessuali della vita di chiunque, affrontando con disinvoltura tabù medi e grandi della società in cui ci pregiamo di vivere. Gli stessi tabù a cui siamo soggetti senza volerlo davvero, a volte, abbagliati da false conquiste e da aperture solo di facciata così come, altrettanto spesso non perfettamente a nostro agio nel rendere pubbliche le nostre perversioni. BONDiNG ha il merito di normalizzare il mondo del feticismo sessuale osando rappresentare l’eccitazione sessuale in modo fortemente soggettivizzato, non soltanto esternando o alludendo (senza stereotipi) a relazioni omosessuali, tra docente e studente e via dicendo.

    Ed è proprio la leggerezza di fondo ad essere il suo punto di forza; con un tono non certo da trattato filosofico sul genere (modello Cronenberg o Von Trier), bensì dando spazio alle fantasie sessuali umane e, per l’appunto, rendendole accettabili. Un pregio considerevole, a conti fatti, considerando l’arretratezza culturale in cui si vive in molte parti del mondo, ma anche allargando l’osservazione al mondo delle serie e dei film Netflix incentrati sul tema del sesso, che su altri frangenti è quasi sempre costituito da banalità malassortite e sedicenti role play, triti e ritriti.

    La questione è complessa, più di quanto possa sembrare: certi cambiamenti come l’effettiva parità tra i generi alla fine si raggiungeranno, sperabilmente, ma credo anche sia necessario introdurre un concetto di gradualità nell’introduzione. L’assalto frontale alla società benpensante, da sempre teorizzato e praticato da tanti, rimane ovviamente lecito, ma c’è anche il dubbio che si possa arrivare ad una maggiore accettazione anche in modo più indiretto. Non che l’opera di Rightor Doyle (con Zoe Levin e Brendan Scannell, tra gli altri) ambisca a farlo a livello di “manifesto”, ovviamente, ma di sicuro è lecito leggera la popolarità della serie almeno in termini di piccolo segnale positivo.

    Cosa non da poco, dicevamo poco fa visto che si parla di pratiche bondage, BDSM in genere, female domination, fetish, pissing e via dicendo, pratiche sessuali effettivamente esistenti e parte, piaccia o meno, del dark side sessuale di ognuno di noi. In questo frangente sorprende come, fin dal primo episodio, lo stereotipo sia smentito: a partire da quel Pete il timido che sembra lasciare spazio alla più becera stereotipizzazione da commedia americana, tra studentesse attratte dal docente di psicologia (eccallà), una protagonista dalla doppia vita da matricola e sex worker e naturalmente l’immancabile, l’immarcescibile, l’indomabile “amico gay” di lei, per cui non serve essere esperti di studi di genere per intuirne la portata banalizzante (l’unica vera pecca, forse, a livello di caratterizzazione dei personaggi).

    Stereotipare e banalizzare, parlandone più in generale: tutto questo BONDiNG non lo ha fatto, e gliene va dato atto. Le critiche che vennero espresse all’epoca dalla community delle dominatrici di professione, in effetti, che lo accusarono di eccessiva superficialità, nonchè di non insistere abbastanza sull’aspetto consensuale di questo genere di attività, rischiano quasi di lasciare il tempo che trovano. Per lo stesso motivo per cui un film, non andrebbe dimenticato, esprime un punto di vista ed una panoramica del mondo per come regista, produzione ed attori lo vedono in quell’istante. Istante che, mentre leggete, potrebbe essere già superato da nuove conquiste.

  • I pistoleri solitari dell’11 settembre

    I pistoleri solitari dell’11 settembre

    Come ricorderanno i fan di X-Files, per quanto i personaggi di Mulder e Scully fossero al centro di quasi ogni episodio, di tanto in tanto ricevettero un aiuto significativo, nei loro sforzi per scoprire la verità di una serie di cospirazioni cosmiche, da un trio di singolari personaggi dai tratti caratteristici (tre sostenitori di teorie del complotto, per inciso). Si trattava di John Byers, Melvin Frohike e Richard Langly, protagonisti di uno spin off di X Files che entusiasmò vari complottisti, fin dall’epoca della sua uscita, per quanto sia stato abbandonato dopo una serie per la scarsità di ascolti. La serie in questione, per inciso, non è mai arrivata in Italia, e questo naturalmente ha finito per alimentare il mito cospirativo sulla serie stessa.

    Di Witchblue - DVD originale della serie X-Files, Stagione 9, episodio n. 15 intitolato Modifica genetica, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=2227589
    Di Witchblue – DVD originale della serie X-Files, Stagione 9, episodio n. 15 intitolato Modifica genetica, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=2227589

    I tre personaggi divennero meglio conosciuti come The Lone Gunmen (Pistoleri Solitari, letteralmente), nome che uscì fuori da uno spinoff di X-Files uscito nel 2001, circa sei mesi prima degli attentati dell’11 settembre. Il primo episodio andò in onda il 4 marzo 2001, con il titolo Pilot (probabile gioco di parole implicito tra “pilota d’aereo” ed “episodio pilota“), e narra una storia che sarebbe diventata familiare ai più: un hacker prende il controllo di un Boeing 727 e lo fa volare verso il World Trade Center, con l’intenzione di farlo schiantare contro una delle Torri Gemelle.

    I Lone Gunmen riusciranno a contro-hackerare l’aggressore informatico e a scongiurare un disastro che poi, in seguito, sebbene in modalità leggermente diverse sarebbe avvenuto sul serio. Ovviamente la vulgata complottista divenne monolitica nell’affermare che quell’episodio avesse “previsto” gli attentati dell’11 settembre 2001. L’episodio arrivò in Australia, ad esempio, meno di due settimane prima di quella data fatidica che cambiò il mondo.

    Suggestioni, chiaramente, prive di effettive prove su un fatto che oggi presenta un impatto emotivo diverso, su cui rimangono punti da chiarire (ovviamente) ma che, di fatto, negli USA fece scalpore pur passando in sordina (condizioni ideali per il fiorire di cospiracy theories).

    La storia era particolarmente intrigante, peraltro, se si pensa che il personaggio l’hacker non era un lupo solitario o uno schizofrenico. La macchinazione, nella sceneggiatura, era frutto del lavoro di un’organizzazione segreta all’interno del governo, quello che oggi molti complottisti chiamerebbero deep state, la cui esistenza viene da sempre negata ufficialmente. Stando al loro piano segreto, se l’attentato avesse funzionato, si sarebbe data colpa degli attacchi al World Trade Center a uno o più dittatori stranieri che, citando la serie, “imploravano di essere bombardati“.

    La trama di Pilot fu affrontata in modo riluttante sui media, il che naturalmente finì per alimentare le narrazioni cospirative sull’auto-attentato, costruito dagli USA stessi per avere un pretesto per fare la guerra. L’episodio passò in sordina per via della singolare coincidenza, soprattutto perchè, probabilmente, le reali vittime degli attentati fecero passare la voglia di proporre parallelismi di alcun genere.

    Da un punto di vista psicologico o razionale potrebbe trattarsi di un caso di cherry picking collettivo (si selezionano accuratamente solo gli aspetti coincidenti con la realtà ignorando, ad esempio, che nel vero 11 settembre non figurò alcun attacco informatico), senza contare il più classico dei bias di conferma, ovvero la tendenza a cercare ad ogni costo conferme di fatti che già crediamo, anche se esistono prove contrarie in merito. In fondo chi crede al complotto ci crede lo stesso (I want to believe è da sempre uno dei motti dei fan di certa ufologia), e non c’è modo di discuterne, come dimostrato da mockumentary come Operazione Luna, per quanto chiaramente la forte suggestione in questo caso rimanga, anche a distanza di anni.

    La cosa che mi preoccupa è che, come scrittore di fantascienza, ti viene in mente che se puoi immaginare uno scenario del genere, anche il potere potrebbe farlo (Frank Spotnitz, produttore esecutivo della serie)

    Foto di copertina: Lerone Pieters on Unsplash