Ospite Inatteso

  • 5 film di fantascienza che hanno anticipato la realtà

    5 film di fantascienza che hanno anticipato la realtà

    Fin dalla sua nascita, la fantascienza ha saputo prevedere il progresso della tecnologia, a volte con precisione sorprendente. Oggetti e dispositivi visti per la prima volta sul grande schermo sono oggi parte integrante delle nostre vite, e l’umanità ha saputo compiere imprese che un tempo sarebbero state viste come esempi di stregoneria. Scopriamo dunque alcune delle pellicole che hanno saputo mostrare sul grande schermo innovazioni poi diventate realtà.

    Minority report (2002)

    Vent’anni fa Steven Spielberg indovinò parecchie cose in questa pellicola interpretata da Tom Cruise e liberamente ispirata da un racconto di Philip K. Dick. Nel futuro di Minority report non avvengono più omicidi grazie a un sistema basato sulla premonizione del crimine e sulla punizione preventiva. Nel film compaiono pubblicità personalizzate, che chiamano insistemente per nome il protagonista. Pur se non a questi livelli, gli annunci pubblicitari mirati sono oggi quasi inquietanti nella loro precisione, ottenuta tramite i cookie che tracciano ricerche e traffico web. Nel film si vedono anche auto senza pilota, la cui introduzione si sta già discutendo, computer con interfaccia touch che ricorda molto i moderni smartphone, e anche la tecnologia di riconoscimento facciale che oggi si utilizza per sbloccare diversi dispositivi. Riguardandolo oggi, può venire voglia di entrare nel mondo tech per contribuire allo sviluppo di nuove innovazioni, e indubbiamente se si vuole iniziare a programmare da zero non c’è mai stato momento migliore. Un corso intensivo come Hackademy di Aulab aiuta ad avvicinarsi alla disciplina in tre mesi, insegnando basi di coding, le metodologie di lavoro più efficaci, oltre alla forma mentis necessaria per studiare poi altri linguaggi e, perché no, collaborare alla creazione di tecnologie che oggi sono ancora fantascienza.

    2001: Odissea nello spazio (1968)

    Il capolavoro visionario di Stanley Kubrick riuscì a immaginare molte delle tecnologie che sono diventate di uso comune, come le videochiamate e i tablet. Anche gli assistenti virtuali sono oggi una realtà con la voce rassicurante di Alexa o Google Assistant, fortunatamente ancora immuni dalle tendenze omicide dell’inquietante supercomputer HAL 9000.

    Nel film vediamo poi una stazione spaziale, che precede di tre anni la messa in orbita nel 1971 del primo modello da parte dell’Unione Sovietica. La stazione messa su schermo da Kubrick è basata su un vero progetto della NASA, nel quale la struttura ruoterebbe su se stessa per creare un effetto di gravità artificiale.

    Guerre stellari (1977-1983)

    Sebbene il franchise creato da George Lucas stia ancora sfornando nuovi prodotti, ci riferiamo qui alla trilogia originale uscita tra il 1977 e il 1983. È vero che la storia si avvicina forse più al genere fantastico, ma di certo ha saputo prevedere un paio di innovazioni divenute realtà. Nel primo film, la principessa Leila appare a Obi-wan Kenobi sotto forma di ologramma 3D, una tecnologia utilizzata oggi con successo per organizzare concerti live di artisti scomparsi o, nel caso della popstar animata giapponese Hatsune Miko, mai esistiti. Passando ai progressi medici, il braccio bionico che Luke utilizza dopo uno scontro con Dart Fener è adesso una reale possibilità per pazienti che hanno subito l’amputazione di un arto.

    Viaggio nella luna (1902)

    Vero pilastro della storia del cinema e considerato il primo film di fantascienza mai realizzato, la pellicola muta di George Méliès ha anticipato, come suggerisce il titolo, l’allunaggio. Non sorprende che ci abbia visto così lungo, considerato che l’opera è in parte ispirata a un racconto di Jules Verne, famoso per la sua abilità nel prevedere invenzioni e scoperte future. Certo, i viaggiatori di Méliès si trovano davanti una situazione ben diversa da quella che si presentò a Neil Armstrong e compagni nel 1969, ma ciò non intacca il fascino e il valore della pellicola.

    Star Trek (1966 – in corso)

    Pur consistendo in realtà in diverse serie e film, la saga di Star Trek merita una menzione speciale. Le avventure dell’Enterprise e del suo equipaggio non hanno solo anticipato invenzioni, come il traduttore universale, ma le hanno addirittura ispirate. L’inventore del primo cellulare, Martin Cooper, citò infatti tra le sue fonti di ispirazione proprio i dispositivi per la comunicazione del Capitano Kirk. Inoltre, file mp3 e iPad con funzione touch si possono a loro volta annoverare tra le tecnologie che devono molto a Star Trek.

    Foto di Thomas Budach da Pixabay

  • Speciale: il cinema del complotto

    Speciale: il cinema del complotto

    Il cinema, da sempre, al di là della sua innata funzione di intrattenimento, ci aiuta a leggere la realtà? Se tutti adesso vedono e rivedono Contagion di Soderberg, per intenderci, non è che siano improvvisamente diventati cinefili: c’è paura, tanta, è normalissimo che ci sia – ed un film come quello aiuta ad esorcizzare. Le piattaforme di streaming come Netflix stanno riducendo la qualità dei video, in alcuni casi, per limitare l’uso della banda, data la richiesta surreale che sta arrivando: se ci pensiamo, solo in Italia, 6 milioni di persone a casa, un bacino d’utenza fresco (credo) praticamente inedito per l’Italia.

    Tutti in casa belli e connessi, insomma – o quasi, tranne qualcuno che (suo malgrado) dice di non “credere” al virus: le teorie del complotto hanno iniziato a diffondersi anche in Italia, il virus secondo loro è stato creato apposta, addirittura non esisterebbe. Eppure le immagini dei mezzi militari a Bergamo che portavano via le vittime del virus dovrebbero averle viste tutti: e allora come si può arrivare a questo – nonostante una realtà come questa, evidente, tangibile, che ci costringe a rimanere tappati in casa il più possibile? Evidentemente un virus cattivo, difficile o impossibile da curare ed evoluto in modo naturale – come sembrerebbe essere il coronavirus – è molto, molto più spaventoso di uno creato in laboratorio ad hoc (quando, a mio parere, dovrebbe essere il contrario).

    Ne abbiamo sentite di fandonie e assurdità, in questi anni: il surriscaldamento globale che non esiste, o che è stato inventato dai climatologi per tutelare il proprio lavoro. L’evoluzione darwiniana, che sarebbe secondo alcuni “solo una teoria“. Le vaccinazioni che causerebbero l’autismo. Queste sono tutte, evidentemente, assurdità a cui nessuno dovrebbe credere: ma nel clima di ricerca di soluzioni facili, sbrigative, perchè in fondo abbiamo di meglio a cui pensare (arroganza pura di alcuni, purtroppo), perchè a qualcuno le disposizioni governative fanno un baffo, . Ma il problema sono anche i media, ai quali sembra interessare solo il body-count, la conta spietata delle vittime, il click-bait che manco nei siti di bufale ed il portare lettori sul proprio sito a qualsiasi costo, magari perchè pagano (poco, s’intende) gli stipendi ai propri giornalisti ad impressions.

    Un clima folle, esasperato e crudele che in parte George Romero e Brian Yuzna avevano quasi profetizzato negli anni scorsi; e con loro, ovviamente, molti altri registi di tutto il mondo.

    Il paradigma di negazione della realtà alla ricerca di una spiegazione alternativa, se possibile condizionata dal Governo, laboratori segreti e da “quello che non ci dicono“, se storicamente non sarebbe nemmeno impossibile (complotti ce ne sono stati nella storia, ma meno frequentemente di quello che si pensa) è diffuso nella sua forma più cruda come negazionismo (denialism) ed è ben noto nella psicologia del comportamento umano. Dopo questo virus gli psicologi mondiali, per inciso, avranno un bel da fare con tutti noi.

    Negare la scienza, dicevamo, negare le realtà ufficiali fa sentire appagati e (forse) più tranquilli: ed è determinato anzitutto dal clima di confusione imperante, e non solo. Dipende anche da realtà che spesso diventano troppo brutali da accettare. Molti non riuscirono ad accettare che gli attentati dell’11 settembre fossero stati organizzati contro la nazione più potente al mondo, e quindi ripiegarono (e ripiegano ancora oggi!) su spiegazioni “alternative”, anche se improbabili o completamente inventate. Si nega l’olocausto, si nega l’AIDS, il cambiamento climatico: tutto, pur di adattare la realtà al proprio standard di vita. Un’ottica egoista e miope, che trova purtroppo tanto consenso, ad esempio, negli ambienti più conservatori e chiusi, ma in alcuni casi addirittura in quelli più radicali e progressisti. Chi nega il coronavirus, probabilmente, non riesce proprio ad accettare che possa costringerci alla quarantena.

    Esiste una sterminata filmografia di cinema complottista o para-complottista, che non per forza ha a che fare con la malattia in senso pandemico: un esempio è Shutter Island di M. Scorsese, in cui il protagonista si inventa una realtà alternativa in cui vivere pur di non ammettere di aver fallito. Anche film meno noti al grande pubblico come Cube o Pathos, ad esempio, ricalcano le paure di chi crede di avere tutto contro: un mondo ostile, cupo ed in cui le trappole sono architettate ad arte – non si sa bene per quale motivo, da chi e cui prodest.

    Citerei anche Society di Yuzna, peraltro, perchè è l’espressione più lampante di un atteggiamento molto diffuso anche in Italia: se sei di status sociale elevato ti senti comunque superiore alla massa, non attaccabile da alcun virus. A proposito di contagio, anche film come The Gerber Syndrome: il contagio, Pontypool, Crimes of the future, La città verrà distrutta all’alba, Apocalypse Domani, e direi anche l’inquietantissimo Rabid – Sete di sangue rientrano secondo me a pieno diritto negli horror incentrati sulla diffusione di pandemie, malattie sconosciute e germi misteriosi e sfiguranti. In un’ottica travisata dai più, peraltro, anche Essi vivono di John Carpenter (regista rigidamente materialista, peraltro) è molto noto nell’ambiente complottista.

    Ci sono molti altri film e documentari, di cui non ho mai volutamente parlato su questo blog, che mantengono la stessa falsariga e la estremizzano: ci raccontano che la realtà è manipolabile, distorta, e cercano di convincerci (a differenza dei titoli citati) che le cose stiano proprio come dicono loro. In questi giorni siamo di fronte ad un evento di portata mondiale che avrebbe fatto rabbrividire anche George Romero e Lucio Fulci, che a più riprese immaginarono l’apocalisse dovuta ai morti viventi (per via di esperimenti incontrollati, abusi ambientali, cause ignote e naturalmente diffusione di epidemie).

    In definitiva: sono un umile recensore di un piccolo, quasi insignificante sito di cinema. Non uso i social per diffondere biecamente articoli del genere, basandomi sul clickbait: li scrivo e basta. Non sono nessuno, non sono un virologo, non sono un complottista. Dico solo che certi film andrebbero rivisti, per avere la conferma che gli artisti, i registi, gli sceneggiatori sono spesso profetici, e se non lo sono hanno le antenne – quantomeno. Se ogni persona è tentata, anche la più razionale, a pensare ad un complotto, ricordiamoci del rasoio di Occam: la spiegazione più semplice è spesso quella giusta. E noi, in fondo, siamo soggetti ai virus in quanto, semplicemente, siamo parte della natura.

    Solo che, purtroppo, molti di noi – tra un selfie ed un aperitivo – se lo sono dimenticato.

    Photo by Josh Hild on Unsplash
  • Le scommesse sportive nei film: un mondo da riscoprire

    Le scommesse sportive nei film: un mondo da riscoprire

    Prendiamo un film, anche il primo che vi venga in mente (o anche solo il nostro preferito), e proviamo ad immaginare di sezionarlo. Chiediamoci: che cosa c’è davvero al suo interno? Ogni film degno di questo nome presenterà, a farci caso, una specifica “posta” in gioco: un messaggio specifico, sociale o politico, un’analisi psicologica, una speculazione filosofica. Oppure, al contrario, un inutile non sense, un indecifrabile non-messaggio fatto di nichilismo, senso del ridicolo, inconsapevolezza, cinismo, ironia, demenzialità, magari umorismo ingenuo, di bassa lega. Poco importa: la posta in gioco c’è sempre, addirittura anche se il regista non avrebbe mai voluto, e la “scommessa” registica si esplica nel proporre quel contenuto sullo schermo, farlo vedere e farne parlare, in un’ottica esibizionistica quanto esplorativa.

    Scommettiamo che…

    Il numero di stereotipi legati al mondo delle scommesse nel mondo cinema è enorme: dalla rappresentazione delle sfide più azzardate ed emozionanti della storia, fino ad arrivare alle più becere trame da film hard di serie Z. Quale sarà la prossima idea a farci attraversare da un brivido inesorabile? Scommettere su qualcosa possiede un innegabile fascino che il cinema, ovviamente, non poteva mancare di esprimere alla massima potenza: e forse addirittura poco importa il come lo faccia – se mediante trame sgangherate di casalinghe vs. idraulici oppure, all’estremo opposto, raccontando di micidiali hacker intenti a scommettere sul mondo.

    E dire che sono trascorsi 48 anni, al momento in cui scriviamo, da quando Steno ideò Febbre da cavallo, una delle commedie cult più celebrate in assoluto, nel cinema italiano, di questo genere. Nel frattempo il mondo virtuale ha definitivamente preso piede, per cui oggi si parla di scommesse sportive online, con numerosi siti web che richiamano questa idea come ad esempio scommessesportiveonline.org. Quanto riferiamo per le scommesse online in Italia sembra valere, su scale geografiche differenti, anche per il resto del mondo, con l’esclusione (speriamo solo temporanea e più breve possibile) delle zone caratterizzate da situazioni di conflitto, come sappiamo, alquanto complesse e preoccupanti. Piaccia o meno, stiamo globalizzando con passo inesorabile anche questo ambito.

    Il lato oscuro del gambling

    Da un altro punto di vista, parlando di film e scommesse, il mood relativo al mondo delle scommesse sportive ha conosciuto fasi alterne: se prima si ironizzava facilmente anche grazie alle interpretazioni dei divi caratteristi della commedia all’italiana, col tempo sono uscite fuori storie un po più serie o inquietanti, oggetto delle sceneggiature di film come il recente Il lato oscuro dello sport. Quel film raccontava, tra le altre cose realmente avvenute in ambito sportivo, quella dei giocatori NBA che truccarono il campionato scommettendo su se stessi, in un’esibizione di freddo calcolo finanziario che lascia ancora oggi, almeno in parte, basiti (e su cui i protagonisti si sono ravveduti col tempo, come testimoniato dal documentario stesso, per quanto lo fecero almeno all’inizio per necessità). Cambiano i punti di riferimento, non esiste più una sola faccia della realtà – e a questo punto la celebre parallasse (approfondimento) per interpretare i duplici piani della storia, di cui dissertava Zizek molti anni orsono,  sembra che si sta davvero concretizzando.

    Tale switch continuo di “umore” sembra sostanziale, e vale la pena approfondirlo: anche perchè, in prima istanza, esso è frutto delle situazioni che viviamo nella nostra martoriata e contraddittoria società, di cui il cinema finisce per essere lo specchio. Sarà senza dubbio curioso scoprire come potrebbe cambiare ancora, radicalmente o meno, in futuro.

    Le scommesse e la perdizione di Barry Lyndon

    La rappresentazione delle scommesse nel contesto cinematografico, è uno stereotipo di tanti film americani, del resto: basti citare a mo’ di esempio film interpretati da grandissimi attori (anche se non sempre come trame davvero memorabili) come The Gambler, Una notte da leoni – e l’elenco potrebbe continuare per moltissime altre righe. E poi, se proprio volessimo dirla tutta, andrebbe citato almeno Barry Lyndon, uno dei film meno noti e più amati di Stanley Kubrick, in cui l’iniziazione al gioco d’azzardo del protagonista ne segnerà l’inizio della perdizione (indimenticabile, a riguardo, la sequenza accompagnata dal Barbiere di Siviglia di Giovanni Paisiello).

    In fondo il cinema non è altro se non un simbolo, al limite svuotato di ogni significante, il che non depone necessariamente in favore di vera e propria bassa qualità (e ci serviva Quentin Tarantino per ricordarcelo) e che anch’esso rappresenta il nostro bisogno inconscio di non pensare, di pensare meglio, di pensare meglio, di evadere, di provare il brivido dell’azzardo per provare, in qualche modo, ad inseguire un processo mentale virtuoso, rilassante e coinvolgente.

  • Guida pratica alle fantasie erotiche nel cinema: 9 film da non perdere

    Guida pratica alle fantasie erotiche nel cinema: 9 film da non perdere

    Le fantasie sessuali sono il classico argomento “caldo” che viene rigorosamente banalizzato: da produzioni cinematografiche poco accorte, ad esempio, così come da dibattiti sterili e discussioni che più miopi non si potrebbe. È difficile o raro racconteremo le nostre, in effetti (salvo casi particolarmente gradevoli), e quasi sempre ripiegheremo sulla stantìa immagine dell’idraulico e della casalinga – e buonanotte a tutto il resto.

    Per ora ci concentriamo su dieci film da noi selezionati che raccontano, a loro modo, altrettanti tipi di fantasie erotiche.

    Nymph()maniac

    Il film di Lars Von Trier è un vero proprio saggio di fantasie erotiche, o di sessualità a 360° vissuto tra immaginario e reale. La storia di Joe, una donna affetta da ninfomania, che racconta la propria storia ad uno sconosciuto e ripercorre tutte le esperienze sessuali avute. Parliamo di fantasie che diventa realtà, in questo caso, che la donna sembra aver sperimentato in qualsiasi forma fin dalla più tenera età.

    Un excursus a tratti insostenibile perchè, di fatto, per Von Trier la sessualità viaggia a braccetto con la dimensione mortifera e abusante, rendendo il contesto più psichiatrico e nichilista di quanto il titolo stesso, ad una lettura superficiale, potrebbe suggerire.

    Al netto di una dimensione sessuale rappresentata senza gli orpelli e le vanità tipiche della pornografia classica, il film presenta una interminabile carrellata di pratiche sessuali, quasi sempre sonorizzate in presa diretta.

    Tra queste troviamo: essere penetrate in modo asettico e senza preliminari, fare sesso sottomissivo con un uomo potente, fare sesso nel bagno di un treno con uno sconosciuto, erotizzare un’insegnante, fare sesso con più uomini contemporaneamente, praticare sesso orale in modo forzoso.

    Recensione completa

    Histoire d’O

    Su eros e letteratura si dovrebbe scrivere a parte, e ce ne sarebbe abbastanza per la produzione di più di un saggio; questo film si basa su un romanzo del 1954 di Pauline Réage, alias Dominique Aury, una scrittrice francese che svelò di essere l’artefice della storia solo nel 1994. Quella di Jaeckin è una riduzione cinematografica con tutti i limiti del caso, ovviamente, ma che trovo emblematica come espressione di vari generi di fantasie erotiche.

    L’intera storia, strutturata come un dramma a tinte gotiche, è incentrata sul sado-masochismo, in particolare una fotografa di cui conosciamo solo l’iniziale, O.,  che viene iniziata ad una serie di perversioni masochiste (sculacciate e frustate, a cui la protagonista si sottopone consapevolmente) che culminano con le iniziali dell’amante marchiate letteralmente a fuoco sul deretano.

    È il mondo del bondage, fuori da ogni tabù, e forse difficilmente qualsiasi altra pellicola a tema (a cominciare dalle sovra-citate Cinquanta sfumature di grigio e annessi) sarebbe mai arrivata a questi livelli.

    A dangerous method

    In questa sede viene messo sullo schermo una delle fantasie considerate forse più inaccetabili in assoluto, ovvero una fugace relazione sessuale (peraltro sado-masochista) tra paziente e psichiatra.

    Il “un menage a trois intellettuale” (come è stato definito da Cronenberg stesso) riguarda Freud, Jung e Spirlein, ed è una storia che introduce la sessualità repressa in un contesto “parlante” – la terapia della parola diventa da mera valvola di sfogo e circostanza in cui escono fuori traumi inconsci a potente afrodisiaco e fonte di attrazione nel mondo reale difficile da eludere, come gli esperti di questo ambito sanno.

    Il focus del film rimane sostanzialmente annesso all’epistemologia, allo status attuale della psicoanalisi ed alla sua credibilità (dal consueto punto di vista materialistico del regista canadese), mentre la rappresentazione di una scena sadomaso tra la Spirlein e Jung, con tanto di sculacciate e conseguente orgasmo, rimane molto impressa nella memoria.

    Recensione completa del film

    Videodrome

    Per quanto sia un film incentrato sui mass media e sul loro potere condizionante (all’epoca della TV come mezzo di comunicazione di massa, quando ancora internet era usato probabilmente solo dai militari), introduce il cyber sex o sesso virtuale, a distanza, prima di qualsiasi altro film.

    In un contesto spesso onirico ed in bilico tra immaginario e realtà vediamo come uno schermo possa diventare oggetto del desiderio, senza che i corpi si tocchino tra loro ed esplicitando, al tempo stesso, il loro rispettivo toccarsi. La “Nuova Carne” in grado di interagire con la macchina e ampiamente teorizzata nel film passava, probabilmente, anche da qui.

    Recensione del film

    Cam

    Partendo indirettamente dai presupposti di Cronenberg in Videodrome questo film sembra chiedersi cosa succederebbe se le identità virtuali di un nickname in una videochat e quelle reali  della persona che si immedesima in un personaggio si sdoppiassero. La camgirl protagonista inscena di tutto, incluso un finto suicidio – snuff applauditissimo dai fan, e pone una sessualità nuova all’attenzione del pubblico, in cui ognuno finisce per fare da sè concedendo all’altro il “lusso” di mostrarsi.

    Recensione del film

    Malena

    La protagonista (Monica Bellucci) è oggetto di ripetute fantasie erotiche da parte di altri personaggi, trovandosi ad essere la donna più bella del paese di neanche trent’anno. Il tredicenne Renato Amoroso sviluppa una vera e propria ossessione nei suoi confronti, e per soddisfare le proprie fantasie arriva a  rubarle gli slip, usarli come feticcio e poi rimetterli a posto (ci sarebbe qualche parola da spendere sul fatto che venga scoperto dai genitori nel farlo, a partire dalla rottura del tabù). Non solo: Malena cede alla necessità (che poi è anche una fantasia comune) di concedersi ad uomini potenti, mentre Renato la immagina nelle vesti più diverse mentre continua a masturbarsi pensando a lei (Jane di Tarzan, Cleopatra, la fidanzata di un gangster, una pin-up e addirittura la Madonna).

    Eyes Wide Shut

    Le fantasie erotiche in questo ultimo lavoro di Stanley Kubrick sono quasi tutte di parola, nel senso che vengono raccontate – anzitutto – dai personaggi e poi provate a concretizzare. Ed è proprio la confessione in sè a dare il via all’intreccio, culminando in una forte gelosia – che potrebbe ricollegarsi, almeno in parte, all’immaginario di Possession.

    Gli “occhi ben chiusi” del titolo sono quasi certamenti quelli della sessualità repressa: dopo aver fumato marijuana (e presumibilmente prima di consumare un rapporto) Alice (Nicole Kidman) racconta al marito Bill (Tom Cruise, che poco prima aveva riaffermato la propria fedeltà) una fantasia sessuale che aveva avuto: essere posseduta da un giovane ufficiale di marina, per poi abbandonarlo e fuggire con lui. La fantasia di per sè può sembrare stantìa, ma il sesso basato su rapporti di potere e coercizione anche sottintesa è, secondo ad esempio lo psicologo Michael Bader, estremamente comune come fantasia erotica tra le donne.

    Blue velvet

    Velluto blu di David Lynch è un film intricato e complicatissimo, in cui la sessualità rappresenta solo una delle molteplici dimensioni che caratterizzano l’opera. In questo caso la fantasia sessuale dominante è quella di Frank, un personaggio spregevole che inala un gas prima di dedicarsi a pratiche voyeur – ovvero obbligare la co-protagonista, Dorothy, ad assumere diverse pose, manipolandone la volontà. Il velluto blu del titolo è il tratto distintivo del feroce criminale che ne fa uso per imbavagliare o soffocare le vittime dei suoi soprusi, strappandolo dal vestito della cantante.

    Crash

    Anticipando la tendenza polimorfa della sessualità moderna, in cui molti precedenti limiti sono sfumati o aboliti, Crash è una perla considerevole in fatto di fantasie sessuali: quelle descritte minuziosamente dall’omonimo romanzo di Ballard, nello specifico, e che – per certi versi – già in forma scritta evocano immagini erotiche tratte dallo studio di uno psicoanalista.

    L’oggetto del feticismo è legato sia alla diffusione di foto snuff di autentici incidenti (che sono usati, assieme ai video degli stessi, come fossero pornografia), sia all’uso dell’automobile in sè, in particolare nella forma di eccitazione dovuta allo sfiorare la morte. Un gioco pericoloso, ovviamente, quello della sessualità annessa ad eventuali incidenti stradali, che venne demonizzata da buona parte della critica (curiosamente in modo asettico e aprioristico, che erano le modalità con cui il film sembra “naturale”).

    Approfondimento: il sesso è ancora tabù (?)

    Se ancora oggi, di fatto, stiamo a discutere sull’effettiva presenza di desiderio sessuale nelle donne o  sulla contemporaneità dell’orgasmo come espressione del feeling di coppia (entrambi da annoverare nei falsi miti sulla sessualità), è chiaro che non sarà banale affrontare l’argomento. Mentre predisponevo il materiale per questo micro-saggio che ho voluto pubblicare nel blog, riguardavo vecchi e nuovi film e leggendo un po’ di libri a tema; ad un certo punto mi ha colpito come possa essere difficile raccontare una qualsiasi fantasia erotica senza banalizzarla.

    È un problema enorme, a ben vedere, per un articolo che si prefigge di raccontare le 9 migliori fantasie erotiche mai viste al cinema, e merita una breve digressione per inquadrare meglio il discorso. La soggettività della scelta, ovviamente, fa parte della definizione stessa di fantasia – e della difficoltà nel far “matchare” i gusti propri con quelli di altri partner, in molti casi.

    Raccontare una fantasia erotica rischia quasi sempre di svilirla

    Sembra quasi che il solo metterla per iscritto ne possa ridurre l’impatto, rischiando di renderla una scena da fumetto di serie Z mentre, di contro, un eccessivo livello di dettaglio la faceva diventare volgare e auto-indulgente. Ho trovato questo tabù inconscio quantomeno curioso da approfondire, oltre che necessario da premettere ad una trattazione del genere.

    Tra eros e comico, un velo di Maya da non svelare

    Riassumo brevemente le mie considerazioni in poche altre righe; in primo luogo, mi pare che nel raccontare fantasie erotiche a qualsiasi livello succeda la stessa cosa che avviene quando si prova a spiegare una battuta comica. La battuta X, infatti, fa ridere solo se ascoltata in diretta, meglio ancora se è la prima volta che la sentiamo e se ci sono altri a goderne con noi. Per una fantasia erotica Y avviene quasi lo stesso: funziona sentirla in diretta e contestualizzata, molto meno se un amico ce la racconta in un contesto avulso. Vale anche la pena di evocare il motto attribuito a Woody Allen: il sesso è stata la cosa più divertente che ho fatto senza ridere. Nel descrivere le scene sarò molto auto-indulgente, e naturalmente invito anche voi a fare lo stesso.

    Se viviamo in una società edonista, i tabù provengono tutti dall’inconscio

    In secondo luogo mi viene in mente la distinzione lacaniana tra Immaginario, Simbolico e Reale: a ben vedere una fantasia vive essenzialmente nella dimensione immaginaria, possiede significati che possono attingere al simbolico ed è tanto “migliore” per quanto provi ad essere ancorata al mondo reale (e vale la pena di appuntare che la concretizzazione di fantasie erotiche finisce spesso per essere deludente nella realtà).

    Lacan stesso, come spiegato dallo splendido saggio di Zizek uscito qualche anno fa, aveva intelligentemente evocato una situazione sociale invertita: siamo infatti passati da una società è portatrice di divieti e l’inconscio di pulsioni sregolate, ribaltata nell’assunto che sia la società a essere edonista e sregolata, mentre è l’inconscio che regola. Di fatto, quindi, le pulsioni erotiche fantasiose sono legate alla realtà come all’inconscio di ognuno di noi, molto spesso con una logica invertita.

    Le fantasie erotiche leniscono i sensi di colpa

    Il saggio di Michael Bader Eccitazione (Raffaello Cortina Editore, 2002) può aiutare a portare avanti il discorso, a questo punto: in esso l’autore (psicologo e psicoanalista di Los Angeles) elenca e dettaglia varie fantasie erotiche di ex pazienti, identificandone le cause più comuni: molte di esse sono un sostanziale antidoto ai sensi di colpa più diffusi, incluse le fantasie di stupro, il voyeurismo, il feticismo e le fantasie attive e passive. La descrizione di queste fantasie è puntuale, all’interno del libro (ovviamente tutte anonime e senza attribuzioni specifiche), e fanno impressione per la loro vividezza, alla quale ho provato nel mio piccolo ad ispirarmi.

    Bader, di fatto, sembra sostenere che non esistano fantasie sessuali propriamente turpi o da biasimare di per sè (cosa diversa e distinta da quello che si fa nella realtà, ovviamente).

    Di fatto, in molti paziente Bader ha anche identificato un curioso capovolgimento di fronte: gli uomini e le donne più aggressive sul lavoro o con i figli cedevano più facilmente a fantasie masochiste o passive, così come i più solitari e frustrati sessualmente sognavano segretamente relazioni con mistress e padroni per provare a deresponsabilizzarsi. Si arriva ad una conclusione interessante, clamorosa e fonte di ulteriori spunti: se un uomo ammette di avere pure fantasie su una lolita, ad esempio, non dovrebbe essere accusato automaticamente di pedofilia – per lo stesso motivo per cui non si dovrebbe biasimare di incoerenza una femminista militante che abbia fantasie di sottomissione ad un uomo potente.

    Sesso “spietato”

    Vale la pena di evocare, a questo punto, il concetto di spietatezza sessuale introdotto nel libro, la quale – nonostante il nome inquietante – smentisce l’idea dell’eccessivo altruismo dei singoli, di una tenerezza generica che spesso fa da schermo a tabù e credenze patogene di vario genere – il tutto in nome di un “calcolo” personalistico del piacere proprio, prima che di quello altrui, al fine di recuperare una sessualità completa ed armoniosa per entrambi i partner.

    Di fatto, nella società moderna questi concetti tendono ad essere relegati a misconosciuti libri di psicologia, e caratterizzano una sorta di velo di Maya che è considerato quantomeno inopportuno e spiazzante svelare da parte della società.

    Photo by Gaelle Marcel on Unsplash

  • La furia iconoclasta del politicamente corretto (anche nel cinema)

    La furia iconoclasta del politicamente corretto (anche nel cinema)

    Ormai tutti parlano di politicamente corretto, si tratta di argomenti che finiscono spesso su Google Trends e ciò avviene in circostanze quantomeno bizzarre, a mio modo di vedere. Da faro guida della sinistra storica, infatti, l’evocazione del politicamente corretto è finita per mutare geneticamente, tanto da diventare mero argomento di polemiche sterili (prevalentemente da social, e quasi al pari di cose tipo “dittatura sanitaria“), che portano la discussione tipicamente “da nessuna parte” e, in qualche modo, se ne vantano pure.

    Alla base della difesa del politicamente corretto, in molti casi, vi è spesso un atteggiamento iconoclasta, di anelata distruzione di ciò in cui una società moderna non potrebbe più sopportare, e questo naturalmente si è tradotto in più casi nel chiedere il ban di film politicamente come niente-popo-dimeno-che… Grease. Grease! Avessero detto Wes Craven avrei forse capito di più, spero che nessuno dica mai una cosa del genere e vale la pena, a questo punto, indagare sulla questione in modo approfondito. Per quale motivo la difesa del politicamente corretto deve per forza di cosa passare per la distruzione di qualcosa, nello specifico di un qualsiasi film che ha come unica colpa il voler porre una questione in modo non convenzionale?

    Photo by Michael Marais on Unsplash

    Cinema e “correttezza”: un binomio difficile da sempre

    Ed è chiaro che in questo contesto il cinema non poteva esimersi da quella medesima furia distruttrice, che – intendiamoci da subito – a volte è addirittura sana, ripensando ad esempio a Nietzsche ed al suo pluri-citato Chi deve essere un creatore non fa che distruggere. Si può distruggere per ricostruire, insomma, ed è anche normale che certe simbologie e modi di pensare cedano il passo ai tempi che corrono.

    Il problema, tuttavia, è che dietro la furia iconoclasta del XXI secolo, quella che ha chiesto la censura a vita di Morituris o (per citare un esempio più popolare) ha fatto abbattere la statua di Colombo ed imbrattare quella di Montanelli, non è perfettamente chiaro cosa ci sia dietro a livello di implicazioni. Non sono così sicuro, insomma, che sia un distruggere per ricostruire, ma che piuttosto sia una distruggere per “poi si vedrà“, o peggio ancora “non ci poniamo neanche il problema del poi“.

    Politicamente corretto è in genere un atteggiamento legato, per definizione, ad una condotta o comportamento improntato al pieno rispetto dell’identità politica, etnica, religiosa, sessuale, sociale, ecc. di altri soggetti. Di per sè, in effetti, per una persona che si ispiri a valori politici progressisti dovrebbe essere sostanzialmente normale, ma soprattutto non può nè dovrebbe diventare un manganello da ostentare e usare a sproposito contro chi non la pensa come noi.

    Che cos’è davvero il politicamente corretto

    Di per sè sarebbe un concetto sacro ed inviolabile per chiunque, a meno che uno non sia di idee particolarmente radicali. Di fatto, è un qualcosa che finisce paradossalmente per farsi odiare da chiunque o quasi, anzi è spesso un parafulmine contro il quale prendersela a morte nelle discussioni più spinose, perchè questi buonismi, signora mia, ci hanno stufato davvero, visto che siamo brave persone che pagano le tasse (oddio, quasi sempre).

    Ormai non abbiamo idea di cosa sia il politicamente corretto, ad oggi, ma siamo anche dell’idea di doverlo difendere ma (arrivo al punto che mi sta a cuore), al tempo stesso, non può nè deve ridursi ad una questione di mero principio lava-coscienza, come purtroppo è diventato per alcuni.

    Il cinema, la censura e il politically correct

    Sul discorso generale sul politically correct, senza imbrigliarci in discorsi che rischierebbero di consumarsi su se stessi senza dire nulla – questo coerentemente coi tempi di post-verità che viviamo, nostro malgrado, per i quali ognuno ha la propria verità e se osi mettere in discussione quella altrui sei comunque un povero scemo – lo stesso concetto paritario alla sua base ha finito per assumere spesso una valenza differente da qualche tempo fa: è sempre stato un mantra intoccabile, il politicamente corretto, e guai a chi osava violarlo. Ad oggi ha finito per essere banalizzato con concetti tipo “buonismo”, che poi è una versione da bambini educati di certi immarcescibili modi di dire sull’amore per l’analità o sui culi propri ed altrui.

    Il cinema, ad esempio, ha violato il politicamente corretto il più occasioni, spesso con intenzioni differenti da quelle che gli venivano attribuite dalla critica: coinvolgendo non solo cineasti effettivamente ambigui (e ce ne sono tanti, anche se poi è difficile anche citarli: non sia mai che lamentino la mancanza di politicamente corretto da parte nostra…) ma anche altri intelligentemente provocatori, forse a volte un po’ troppo esoterici e (quasi sempre, direi) obiettivamente innocenti. Certe letture della critica sono sempre state un po’ naive, un po’ superficiali o agghiaccianti: se un cineasta mostra violenza, per intenderci, per certe critica è automaticamente a favore della violenza – e per favore non ditelo a Kubrick, Carpenter, Romero, Cronenberg e compagnia.

    La lotta sterile per politically correct

    C’è una lotta lecita per il politicamente corretto, ma in questa fase non la metteremo in discussione: vorrei focalizzarmi su quella di facciata, che di per sè sarebbe anche roba di poco conto se non fosse che, in molti casi, arriva ad evocare la censura delle opere “sgradite”, il che a mio modo di vedere è semplicemente grottesco.

    Penso ad esempio a La città delle donne di Fellini, boicottato dalle stesse femministe che avevano partecipato al lavoro, che rimane un film di cui, se oggi si accorgessero nuovamente della sua esistenza, sarebbe un delirio di polemiche e, anche lì, osanna della censura sulla falsariga di “quando c’era lui” (“lui” ovviamente è un censore qualsiasi, ed è in parte incredibile come molta gente dal pensiero progressista evochi la censura in queste circostanze). Penso a Film d’amore e d’anarchia, un film che mette in discussione il martirio a scopo politico e che, non mi meraviglierebbe per l’epoca, potrebbe essere teoricamente tacciato di conservatorismo o di non fare gli interessi da ‘a sinistra che tutti amano ma poi, almeno in Italia, nessuno vota. Si veda anche Il maestro e margherita, altro film epocale sull’iconoclastia ed il conformismo anche dove non ce lo aspetteremmo, che è stato effettivamente accusato di scarso politically correct.

    Non sottovalutiamo la catarsi

    Il punto è che se da un lato certi tabù non possono essere violati come se nulla fosse, ed in questo ci guardiamo bene dall’assecondare certo pubblico snobistico e/o egoista, il quale accetta di vedere sullo schermo qualsiasi cosa per il gusto dell’estrema fiction (esempio classico: amanti di film snuff o presunti tali), resta anche vero che è una questione di linguaggio: se certi film non avessero violato certi tabù non avremmo forse neanche assistito – voglio essere ottimista per una volta – all’evoluzione della società come la conosciamo oggi.

    Aver visto certi film anche “sgradevoli”, di fatto, se da un lato ha suscitato reazioni scomposte ad esempio in nome della possibilità di emulazione da parte dei “gggiovani“, ha fatto anche in modo di ottenere un effetto catartico su tante altre persone, tant’è che nessuno cita mai la catarsi a proposito di certo cinema e anzi, sembra quasi che la parola sia stata dimenticata dai più.

    Iconoclasta: Critico, spregiudicato e irriverente, di principi e credenze comuni; spinto o motivato da un’indiscriminata polemica distruttiva.

    Catarsi (intesa come redenzione o purificazione) che ha un molteplice significato: nell’antica Grecia era considerato un vero e proprio rito magico di purificazione dell’anima, inteso a mondare il corpo e l’anima da ogni contaminazione. Nella psicologia corrisponde ad un processo di sostanziale liberazione da esperienze drammatiche o conflittuali, derivanti dall’individuazione delle autentiche responsabilità e conseguente rimozione del senso di colpa. Della serie: andare oltre il senso di colpa che attanaglia il genere umano, di lovecraftiana memoria, e seguire un po’ il processo di accettazione e rinascita dello sceriffo Ed Tom Bell in Non è un paese per vecchi. La sensazione generale è che nei discorsi legati al politicamente corretto si tenda a difendere il “fortino” a prescindere, e (quantomeno in relazione ad opere audio-visive) la catarsi la gente non sappia nemmeno cosa diavolo sia (e non voglia neanche saperlo).

    Politicamente corretto e cinema anni 70

    Sono stati giusto gli anni 70 a produrre un gran numero di film politically uncorrect, in effetti, e vale la pena soffermarsi su qualche esempio a riguardo.

    Gran parte del poliziottesco anni ’70, ad esempio, era accusato di conservatorismo, se non addirittura di fascismo: contestualizzando all’epoca dei figli dei fiori e delle comuni peace & love, forse, c’era da aspettarsi che piacessero più film modello Il serpente di fuoco che non Milano odia. Ma quelle critiche al genere risultano francamente esagerate, lette oggi, anche perchè la realtà ci ha insegnato cosa significa davvero virare verso lidi di repressione e conservatorismo (si vedano le mattanze del G8 nel 2001, o certa gestione semplicistica e sbrigativa delle vicende di ordine pubblico legate al Covid-19), tutte cose che nemmeno il regista più reazionario e amante del sadismo avrebbe mai immaginato.

    Senza dimenticare che poi, di fatto, tutto quel cinema poliziottesco faceva riferimento a situazioni rigorosamente romanzate, che si ispiravano al cinema d’azione USA (che certo non era proprio di sinistra) e che facevano sensazione soprattutto perchè erano vicine a noi, e non c’era alcun Clint Eastwood o nessun Jack, fuck o go-go-go che ne denotassero chiaramente la fiction. In due parole: quei film facevano paura, continuano a farne tuttora ed è forse da questo che derivavano gran parte delle accuse. Su questo non c’è considerazione consolatoria che possa reggere in alcun modo evocarne la censura, che è un modo sbrigativo (anche qui) per le autorità per risolvere questioni spinose, come la realtà di certi stati ci ha insegnato.

    Non si sevizia un politicamente corretto

    Avrei potuto citare molti, moltissimi film ed analizzarne le scene cardine accusate di “scarso politicamente corretto”: ne sarebbe venuto fuori un ebook, a quel punto, per cui ho preferito concentrarmi su quella della “maciara” pestata dai paesani in Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci. Di per sè la scena è tremenda, impressionante e profondamente orrorifica: Florinda Bolkan interpreta la maga-veggente del paese, usata come capro espiatorio per via della misteriosa scomparsa di alcuni bambini (per i quali si adombra la possibilità di un serial killer pedofilo). Da un certo punto di vista si potrebbe obiettare l’esistenza di una rappresentazione realistica di una violenza di gruppo su una donna, cosa che peraltro certe cronache ci hanno purtroppo raccontato.

    Ma qui il punto è duplice, e – anche se dovrebbe essere scontato – vale la pena ricordarlo per punti:

    1. giudicare dalla singola scena senza aver visto il film è una cattiva idea in genere, perchè ci priva del contesto. Il contesto è fondamentale, e per inquadrare bene il discorso pensiamo ad un episodio deprecabile in un telegiornale, ad esempio: un conto è vederlo in un TG commentato da un giornalista, decisamente un altro è trovare il filmato in un sito underground senza commento e con l’audio in presa diretta.
    2. non è difficile identificare i paesani picchiatori come l’elemento malvagio della storia, visto che sono quasi sempre sospettosi e a caccia di un colpevole senza processo; in una parola, è il populismo di provincia il “cattivo” della vicenda, ed è questo che apre a notevoli letture sulla falsariga, ad esempio, di Cane di paglia;
    3. l’abuso di politicamente corretto è “perdonabile”, anche secondo i canoni oltranzisti dell’iconoclastia classica, proprio perchè il messaggio di fondo si fonda sul punto precedente;
    4. il fatto che Fulci abbia costruito la sequenza in questi termini deve essere contestualizzato alla storia ed alle sensazioni catartiche, per l’appunto, che vuole suscitare nel pubblico (esempio: pensare a quanto sia tremenda la violenza, soprattutto se rappresentata in modo realistico come avviene qui);
    5. la presenza di Quei giorni assieme a te della Vanoni costruire un chiaro-scuro in cui la violenza delle immagini finisce per da contraltare alla dolcezza della musica e delle parole (tanto più che la canzone parla di un’amante abbandonata per via dell’egoismo del partner: cosa che vediamo anche nel film, quando la donna chiede aiuto e le macchine, pur vedendola, passano oltre nell’indifferenzac)
    6. il fatto che un film mostri una cosa del genere non vuol dire certamente, a questo punto, che inneggi ad una situazione del genere, perchè altrimenti varrebbe anche per i telegiornali che mostrano sequenze al limite dello snuff – all’ora di pranzo, peraltro.

     

    Bisogna anche ricordare che in molti casi le polemiche sul sessismo, ad esempio, nascono da contesti abbastanza anomali, quasi costruiti a tavolino: la polemica su Grease di qualche tempo fa, ad esempio, nasceva letteralmente da un tweet di uno/una sconosciuto/a che ha fatto “diventare notizia”, se ricordo bene, il Daily Mirror. La realtà delle testate web nell’era della post verità è questa: bisogna scrivere, sempre e comunque, e lo faremo, anche a costo di inventare notizie di sana pianta. Ricordiamocelo, la prossima volta che esce fuori una notizia del genere, magari. Il problema del sessismo ovviamente c’è, ma portarlo avanti per via di un singolo film – evocandone la distruzione o la censura – è, di fatto, un modo molto scadente per affrontare il problema (e serve, peraltro, solo ad ingrassare le casse dei siti che su queste notizie ci campano, in qualche modo).

    E se vale il discorso che abbiamo appena affrontato, a questo punto, possiamo abolire il senso di colpa e l’evocazione della distruzione dell’opera anche per la pluri-citata scena di Amore mio, aiutami di Alberto Sordi, anche qui oggetto di polemiche sempre sulla stessa instancabile falsariga.