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  • Brazil: un sublime saggio distopico, tuttora ineguagliato

    Brazil: un sublime saggio distopico, tuttora ineguagliato

    Sam Lawry è un tecnocrate onesto e sognatore quanto timido ed impacciato, che opera per il complicatissimo settore burocratico di una distopica società occidentale: ossessionato da un sogno ricorrente nel quale raggiunge, alato, la donna dei suoi sogni, un giorno finisce per riconoscerla in una conoscente…

    In breve. Considerato un capolavoro del genere sci-fi distopica (secondo Harlan Hallison si tratta addirittura del migliore in assoluto) si tratta effettivamente di un lavoro di eccellente fattura, che riprende toni e tematiche di “1984” (G. Orwell) ed è ambientato in uno scenario surreale, ricco degli aspetti bizzarri che i fan dei Monty Python riconosceranno immediatamente. La tragedia di un essere umano schiacciato dalle assurdità burocratiche moderne, che si tramuta in una feroce satira contro un certo tipo di modernità.

    Brazil” di Terry Gilliam è un surrogato – che non esiterei a definire epico – di tipiche situazioni di fantascienza distopica, ricchissima di simbolismi (che il regista sembra visibilmente aver amato alla follia), e che dai simbolismi stessi non si fa appesantire, come in altri film sarebbe facilmente potuto succedere. Proponendo un gioco duale e funambolico tra la realtà (sgradevole, noiosa e monotona) ed il sogno più liberatore che possa esistere, rende difficile comprendere cosa sia vero e cosa invece costruzione mentale. E nel fare questo Gilliam sembra essere stato molto attento a non cedere ad intellettualismi troppo astratti, confermando la natura “pop” del genere ed allegandovi messaggi profondi e molto mirati. Si mostra la vita di un uomo qualsiasi, un vero e proprio “numero” nel quale diventa ovvio identificarsi: una persona ricca di sfaccettature, sensibile e profondamente sognatrice, che si scontra con un mondo sordo, menefreghista e schiavo di burocrazie inutili e sfiancanti. “Brazil” rappresenta la lotta di un uomo prima di tutto contro se stesso, ed a testimoniarlo ci invia un gioco di parole intraducibile in italiano (i samurai contro cui Sam combatte evocano la frase “Sam, you’re I“) che rende decisamente più comprensibile alcune delle allucinazioni del protagonista.

    L’amore, visto in chiave “settantiana” come liberazione totale della bellezza e della purezza smarrita dall’uomo, assume caratteristiche “sovversive”, che non possono essere tollerate da un mondo repressivo e dominato da giocattoli tecnologici e chirurghi plastici senza scrupoli (il richiamo al mondo ipocrita del successivo Society non è neanche troppo azzardato). Per quanto il film possieda una stragrande maggioranza di elementi positivi, dunque, si rileva probabilmente un unico vero difetto nell’eccessiva lunghezza della pellicola, che finisce – pressapoco prima dell’ultima mezz’ora – per stancare un po’ lo spettatore meno paziente, lasciandolo pero’ in bilico ed imponendogli, di fatto, di vedere il tutto fino alla fine per forza di cose.

    Le enormi capacità comunicative ed artistiche di Gilliam, realizzate da momenti realmente bizzarri che evocano le divagazioni dei Monty Python, si esplicano in situazioni apertamente umoristiche e, senza preavviso, tragicamente realistiche e paranoiche. Molte delle tematiche, e parte delle conclusioni, sono accumunate al classico di Orwell “1984“, a cui il regista sembra essersi ispirato servendosi pero’, c’è da specificare, di un numero superiore di mezzi espressivi rispetto alla mediocre riduzione cinematografica del famoso romanzo.

    Memorabile l’interpretazione di De Niro, che compare nei panni del “libero professionista sovversivo” Tuttle, uno dei pochi alleati autenticamente umani del protagonista e focalizzato su alcune “micro-sequenze” realmente memorabili. Certamente alcune allusioni finiranno, al giorno d’oggi, per risultare inefficaci (le ossessioni da teledipendenza, ad esempio, erano state ampiamente sviscerate da Cronenberg qualche anno prima), anche se trovo impressionante rilevare come alcune trovate, come quella della macchina che fornisce volti e informazioni personali su qualsiasi cittadino, finisca per evocare l’omologazione presente all’interno dei moderni social network.

    Un film di grande valore artistico e con vari dettagli sorprendenti per un film dell’epoca: da vedere almeno una volta nella vita.

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    Quiz: riconosci questi film?

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  • La morte ha sorriso all’assassino: l’horror gotico di Massaccesi del 1973

    La morte ha sorriso all’assassino: l’horror gotico di Massaccesi del 1973

    L’algida Greta sopravvive ad un incidente in carrozza, e si fa ospitare da una coppia di coniugi. Ma chi è veramente?

    In breve. B-movie con alcuni punti di interesse, minato da un montaggio poco comprensibile ed uno script tirato troppo per le lunghe. Incuriosisce ancora oggi, forse, ma va contestualizzato all’epoca e ai mezzi, oltre che al regista (Joe D’Amato di Buio Omega).

    Noto con svariati titoli tra cui Death Smiles on a Murderer, viene prodotto da Franco Gaudenzi ed è noto per essere stato il primo film in cui D’Amato si firma come Aristide Massaccesi, sfruttando un budget di 150 milioni di lire dell’epoca (1973). La villa che compare nel girato è Villa Parisi a Frascati, location di innumerevoli b-movie dell’epoca ed in parte riconoscibile da alcune inquadrature. La locandina del film ritrae una sequenza specifica, in parte rivelatrice della trama quanto debitrice dei classici di Edgar Allan Poe, citato più volte in tutto il film.

    La morte ha sorriso all’assassino potrebbe evocare un giallo classico, almeno a partire dal titolo, ma assume piuttosto la forma di un horror gotico, in cui montaggio e regia provano ad evocare qualche suggestione surrealista. Uno stile complessivamente lento, inesorabile e che insiste sui primi piani ai protagonisti, ognuno dei quali sembra custodire un segreto: sorvolando sull’ovvio (questo approccio lo fa sembrare un po’ datato, visto oggi), si nota come buona parte del suo fascino sopravviva intatta, soprattutto per il modo decisamente curioso di iniziare la trama e svilupparla, così come per il susseguirsi frammentario, apparentemente illogico delle prime sequenze. La figura di Greta von Holstein è meravigliosamente orrorifica, evoca quasi una delle Madri argentiane ed è un archetipo di personaggio: manipola la storia, seduce, uccide, cambia aspetto.

    Certo il film presenta dei limiti sostanziali – soprattutto a livello visuale, spesso molto artigianale, ma anche narrativo – ma al tempo stesso colpisce per un paio di trovate interessanti: in primis la figura mortifera di Greta (candida, sensuale e spaventosa al tempo stesso), la suggestiva festa in maschera (grottesca e quasi felliniana, ispirata a La maschera della morte rossa di E. A. Poe), la sepoltura in casa (un tributo a Il barile di Amontillado e Il gatto nero), le fattezze di Walter (coi baffi che richiamano molto l’aspetto dello scrittore statunitense), e poi il finale a sorpresa – che può sembrare artefatto nella sua bizzarria, ma chiude comunque il cerchio. Se il livello attoriale è accettabile, permane un intreccio scritto interamente da Massacesi-Scandariato-Bernabei interessante solo come idea, di fatto troppo diluito in sequenze insistite, astratte e interminabili. Peraltro alcuni trovate non sono il massimo (la sequenza del gatto citata nella locandina, il montaggio alternato sul viso normale / cadaverico) e più in generale lo splatter non sembra sempre giustificato dalle circostanze. A confronto con Buio Omega, del resto, si intuisce come l’approccio più congeniale al regista resti quello di storie sviluppate in modo più moderno (e più morboso, peraltro).

    La critica più sostanziale può essere ricondotta a La morte ha sorriso all’assassino, del resto, oltre alla curiosa scelta di sfruttare un gigante come Klaus Kinski per un personaggio che sembra (e che poi non è) centrale nella storia, si lega alla ricostruzione temporale della vicenda, presentata in modo anti-causale e che – almeno fino a metà film – sembra incentrata su una surreale vicenda romantica, che deve qualcosa al Dracula di Bram Stoker e qualcos’altro al Frankenstein di Mary Shelley. La narrazione prende una piega differente e non sempre è agevole seguire, con il risultato che molti potrebbero non capire, e che molte delle sinossi che si trovano sul web, tra blog anche autorevoli e Wikipedia, sono in parte fuorvianti (addirittura quella di IMDB non sembra troppo azzeccata: di fatto scambia una sotto-trama per la trama principale). Non mancano ovviamente i riferimenti ai grandi classici appena citati, e Massacesi mostra di ispirarsi ai migliori luoghi comuni dell’orrore classico: necrofilia, claustrofobia, allucinazioni. Con un po’ più di unità narrativa sarebbe stato un grandissimo film: così è solo un film non banale (ovviamente), ma non abbastanza focalizzato per parlare di un vero e proprio cult.

  • Martyrs: l’horror viscerale e imprevedibile di Laugier

    Martyrs: l’horror viscerale e imprevedibile di Laugier

    Una bambina, in fuga da una fabbrica abbandonata, viene accolta in un orfanotrofio. Anni dopo, la vediamo da adulta irrompere in una casa, armata di fucile a pompa. Mentre l’amica di sempre si affretta a raggiungerla, una domanda assilla lo spettatore: per quale motivo la ragazza sta agendo così?

    In breve. Singolare storia thriller ad innesco multiplo, convulsa, imprevedibile, avvincente quanto ricca di momenti decisamente cruenti (non sarà facile guardarlo per intero). Il punto da focalizzare non è tanto l’osare, il trasgredire chissà quale tabù, quanto l’immettere in circolo un messaggio preciso e, a suo modo, ancora rivoluzionario. Il “gioco” di Laugier sembra essere quello di fare concetto sull’idea di martirio: A serbian film si è spinto anche oltre, ma qui non si scherza neanche.

    Non faccio parte dell’elite che scrive sui magazine e forma gran parte delle opinioni sui film; tantomeno mi piace cercare sottotesti quando non ce ne sono, anche se – senza una vera consapevolezza – della volte finisco per farlo lo stesso. Per queste ragioni vorrei improntare la mia recensione instradandola sui giusti binari da subito, dato che le cose da evidenziare in Martyrs sono tante, ed è molto facile divagare e perdersi in discorsi futili.

    Per analizzare il film mi sono basato su un’intervista a Laugier disponibile ancora oggi su Youtube, che parte da un’osservazione fondamentale: da Scream in poi, piaccia o meno, è nata una corrente di horror che (triste da riconoscere) sembra non credere più alle storie che racconta. A differenza dei classici dell’exploitation anni ’70, della corrente satanica e di poche, lodevoli eccezioni analoghe, la rappresentazione del terrore è diventata sempre più “popolare”, più legata a stereotipi di genere, fumettistici quanto a loro modo ammorbidenti, collocando spesso la narrazione su situazioni facili da prevedere, stereotipate, a prescindere. Il famoso caso in cui “si strizza l’occhio al pubblico” per accattivarsene i favori, e farlo al limite sentire più intelligente della media è tutto qui: ed è proprio ciò che Martyrs, senza dubbio, non è.

    Questo mi sembra il presupposto fondamentale per capire appieno lo spirito di “Martyrs“: in molti altri film si era fin troppo consapevoli che si trattasse di finzione e questo, secondo il regista, ha contribuito a smaliziare il pubblico e a renderlo (aggiungerei) particolarmente maleducato – nel senso di “non educato al Cinema“. La reazione a questo malessere, legato a problemi personali del regista, è stata la stesura di questa allucinante storia – e con risultati del tutto positivi.

    Martyrs“, a dispetto di chi ne ha criticato la violenza gratuita – manco fosse il più insulso dei naziploitation, è un horror molto complesso nel suo concepimento e, forse proprio per questo motivo, facile preda di banali critiche nazional-popolari, quanto a ben vedere affascinante. La recensione che segue potrebbe contenere, inevitabilmente, qualche micro-spoiler inevitabile, a cui ho badato, in una successiva revisione dell’articolo, a fare in modo che non fosse eccessivamente “compromettente” (nota di maggio 2022).

    Il regista francese Pascal Laugier, classe 1971 – che qualcuno ricorderà per “Saint Ange“, lavoro parzialmente sulla falsariga di The ward e Session 9 – è partito da uno scenario tipico nel cinema di genere (una storia di vendetta, un po’ alla Tarantino verrebbe da dire), per poi sviluppare la trama su altro, mediante una sequenza di colpi di scena uno più devastante dell’altro. E sa farlo, questo è innegabile. Il film possiede una capacità di inchiodare lo spettatore alla poltrona sfruttando situazioni sempre poco prevedibili, poco scontate, molto poco banali. E dire che la storia, al di là dei minuti iniziali, si sviluppa con un caso di “già vista” violenza casalinga apparentemente motivo, che finisce per fare da inquietante preavviso per il pubblico.

    Perchè Martyrs?

    Per martirio si intende, per definizione, il sacrificio della vita accettato in nome di una fede: un concetto che è risuonato minaccioso negli ultimi eventi che abbiamo vissuto a livello mondiale, dopo il collasso delle superpotenze polarizzate ed il consolidamento delle post verità personali. Laugier parla soprattutto del martirio accettato dai seguaci di una religione ma il discorso, ad oggi, potrebbe estendersi a qualsiasi credo politico, per dirla alla Zizek (o Lacan) un Grande Altro, foriero di perenne tensione morale e psicologica quanto, alla fine dei conti, identificabile con qualsiasi ideologia o principio ispiratore della propria vita.

    Dicevamo la complessità di Martyrs e questo, sia ben chiaro, deve essere messo in chiaro per evitare di descrivere ciò che il film non è: Laugier ha svolto un gran lavoro di ricerca etimologica sul martirio e sulle sue implicazioni di significato, a livello religioso come culturale. Per chi ama l’horror non dovrebbe essere neanche una novità, alla fine: per quanto si possa apprezzare ad esempio Cronenberg e la sua profondità concettuale, o anche solo “divertirsi” con mostri, serial killer o famiglie dedite al cannibalismo (anche qui il rischio banalizzazione è dietro l’angolo, come detto all’inizio), non sarà facile per il pubblico medio accettare un film come “Martyrs“. Che di una violenza considerevole non fa mistero, ma la usa sempre in modo funzionale al titolo: il martirio possiede una connotazione liberatoria, pura, angelica, tanto da renderlo realmente inquietante, come pochi altri titoli. Un qualcosa che riprende, a livello di linguaggio, la tradizione dell’orrore pulp e low-cost, quello che va bene a patto che sia realistico (Le colline hanno gli occhi, L’ultima casa a sinistra), prendendo le distanze dall’horror più scanzonato o “fumettaro”.

    Specialmente in tempi di crisi generalizzata come quelli che viviamo, il pubblico ha poca voglia di speculare e riflettere su ciò che ha visto – e tanta di cannibalizzare pellicole giusto per “fare numero”, per cui quando un film come questo ha qualcosa di serio da raccontare, è paradossale che il contenuto passi in secondo piano per parte del pubblico. Del resto la regia è solida, la sceneggiatura non fa una grinza e le interpretazioni sono tutte ineccepibili: Martyrs possiede un ritmo da film perfetto, ma per capire appieno quello che si è visto occorre pazientare un’ora e mezza, e a quel punto non sarà facile non distogliere lo sguardo. La violenza che sprigiona da circa la metà dei fotogrammi padroneggia e domina lo spettatore, mostrandogli sangue, umiliazioni e sottomissione psico-fisica che, come si scoprirà, sono dovute ad una vera e propria setta religiosa che finalizza la sofferenza del martirio, per l’appunto, alla ricerca dell’Aldilà e a spese delle povere vittime.

    Martyrs prende spunto (anche) da Clive Barker

    Se state pensando ad Hellraiser – il dolore per sublimare il piacere – siete quasi sulla giusta strada, in effetti, anche se qui le conseguenze sono spinte in modo molto più contemplativo, realistico e profondo di quanto non avvenga nel capolavoro di Barker. In tal senso i paragoni con Hostel di Roth sono fuori luogo (qualcuno ha equivocato in tal senso, in effetti) se non per la dinamica delle torture, aspetto secondario rispetto ai contenuti effettivi del film, che vanno al di là di una mera o compiaciuta pornografia dell’horror. Rimane forse come tratto comune tra queste ultime pellicole la sofferenza dell’uomo vista come un qualcosa di catartico, liberatorio e purificatore: l’asceta/vittima diventa un privilegiato, un essere superiore da idolatrare perchè del tutto immune al dolore, e sulla via della conoscenza. E se il mostro che hanno creato è così, è chiaro che sarà terribilmente più spaventoso di qualsiasi altro.

    Martyrs e il torture porn

    Ho letto che molti hanno scomodato il termine torture porn, espressione abusatissima fino a qualche anno fa in questo ambito, ma in questo caso la locuzione – per quello che vale – è assolutamente fuorviante ed inesatta: la violenza che subiscono le vittime di Martyrs non provoca piacere a nessuno, ma è comunque liberatoria, serve a far raggiungere uno status privilegiato (quello di martiri, ovviamente nella mente contorta degli aguzzini), e questo rende automatico riportare il discorso verso le varie forme di fanatismo (religioso ma anche, come dicevamo prima citando Lacan, politico e sociale).

    Altro colpo di genio, del resto, è il fatto di rappresentare una inquietante micro-società auto-organizzata, nella quale le giovani sono lentamente massacrate anche da altre donne, mediante violenza subdola ed arrivando a perdere progressivamente i propri tratti di femminilità. Una chiave di lettura che, a suo modo, richiama metamorfosi cronenbeghiane (per non dire kafkiane) ma anche il Potere brutale rappresentato dal celebre “Salò” di Pasolini, altro film molto apprezzato da diversi amanti dell’horror per quanto anch’esso propenso ad essere mal giudicato, per via di una forma che finisce per sovrastare la sostanza.

    Servono sicuramente anche film del genere, saggi di psico-horror o horror sociale che dir si voglia, e serve rivedere film del genere con uno spirito di ricerca: con più pellicole come Martyrs, probabilmente, non cambierebbero di una virgola le incomprensioni tra detrattori ed estimatori a priori ma – se non altro – la dignità del genere horror sarebbe sicuramente più preservata.

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  • La classe operaia va in paradiso: Elio Petri nelle fabbriche milanesi anni 70

    La classe operaia va in paradiso: Elio Petri nelle fabbriche milanesi anni 70

    Secondo il regista Jean-Marie Straub, La classe operaia va in paradiso fu la “pellicola infame”, da mandare al rogo senza mezzi termini. Sui “Quaderni piacentini”, il film venne accusato di un imprecisabile revisionismo da Goffredo Fofi. Ad oggi, molta gente si interroga ancora su quel che rimane della classe operaia, sul suo significato, assimilandola spesso e volentieri al lavoro degli sfruttati di ogni ordine e grado – o peggio, declassando la questione come vetusta, utopistica o superata.

    Il film di Petri, come spesso accadde nella sua filmografia, provocò divisioni politico-sociali laceranti, facendo perno su un registro neorelista: i personaggi sono tipi comuni, che potremmo aver conosciuto nella nostra vita, e che si battono – disillusi – per un obiettivo più che per un ideale. Al centro del film c’è la figura di un operaio vittima di un incidente sul lavoro, interpretato da Gian Maria Volontè, che si ammazza di lavoro a cottimo “per queste quattro lire vigliacche“, come dirà lui stesso in seguito.

    L’individuo è uguale ad una fabbrica… de merda!

    Lulù Massa è, in altri termini, un operaio conformista e sostenitore del lavoro a cottimo (formula che prevede di essere pagati non in base al tempo, bensì alla produttività), il che gli permette di tenere uno stile di vita al di sopra delle proprie aspettative. Nel frattempo, i gruppi extra-parlamentari, all’ingresso della fabbrica in cui lavora, contestano le modalità di lavoro in fabbrica, evidenziando contraddizioni di forma e di modi con i sindacati.

    Come spesso avviene nei film di Petri, l’ambientazione è radicata in una città ed un dialetto specifico, che qui è Milano (anche se la fabbrica si trovava a Novara, in realtà) mentre in La proprietà non è più un furto era Roma. La fabbrica è rappresentata come un ambiente alienante e prevaricante, con alcune inquietanti figure di cronometristi addetti a misurare i tempi di lavorazione dei singoli operai, e mettere pressione a quelli che non si adeguano. Inutile sottolineare che Lulù viene preso come modello esemplare di produttività dalla dirigenza, attirandosi l’odio di tutti gli altri colleghi.

    Diretto da Elio Petri e scritto dallo stesso assieme ad Ugo Pirro, La classe operaia va in paradiso è il dramma di un uomo solo, spinto a lavorare a ritmi infernali per via della situazione difficile che vive in casa, con una donna divorziata ed il figlio che si trova, suo malgrado, costretto a mantenere. Un uomo che cadenza la propria vita sul lavoro senza badare a null’altro, perdendo interesse anche per il sesso per via dei ritmi produttivi della fabbrica che lo sfiniscono. Non è un caso, a tale riguardo, che l’unico all’appello all’”amore” per gli operai sia quello che ne accompagna l’ingresso in fabbrica: trattate la vostra macchina con amore.

    Fino a che un giorno, maneggiando i soliti macchinari, si taglia un dito: la circostanza viene presa come caso limite per indire finalmente uno sciopero. E prendere finalmente consapevolezza del proprio precariato, ma il film non si limita a cullarsi nell’assunto bensì, realisticamente, lo porta alle ulteriori conseguenze.

    Si affianca a Lulù la figura premonitrice di Militina (“io sono diventato matto in fabbrica“), un ex compagno di lavoro attualmente rinchiuso in manicomio, che evoca da vicino il compagno dell’anarchico Bonifacio, che ha seguito la stessa sorte in Chi lavora è perduto. Militina dice la verità, sia pur in pochi momenti di lucidità, sulla condizione alienante degli operai e sull’avidità dei padroni: ed è il punto di partenza del cambiamento di Lulù. Che improvvisamente, da stakanovista puro, diventa un operaio ribelle; e nel farlo risulterà paradossalmente inviso sia ai colleghi (che fondamentalmente non gli danno troppo credito) che gruppi extraparlamentari (che considerano il suo incidente sul lavoro solo opportunisticamente) che ai padroni, che usano il suo licenziamento come “arma” per intimidire tutti gli altri.

    Dopo aver passato in rassegna vari simboli del consumismo (tra cui un libretto di azioni, vari utensili da cucina ed un zio Paperone gonfiabile), Lulù si chiude in casa, finchè non vanno direttamente i sindacalisti a trovarlo: sono riusciti a farlo riassumere. Per quanto si senta tirato indebitamente in ballo e sfruttato ad ogni livello, accetta di tornare al suo vecchio impiego. Nella scena finale, durante il lavoro in catena di montaggio racconta un sogno, in cui ha visto il Militina sfondare un muro a testate, il che assume valenza evidentemente simbolica. Ma gran parte del discorso, tuttavia, viene travisato o mal percepito dai compagni di lavoro, perchè i macchinari producono troppo rumore e la maggioranza delle sue parole non è nemmeno udibile agli altri.

    Lulù è un personaggio fuori da ogni schema: se all’inizio nega la propria condizione precaria, in seguito presenta un risveglio di coscienza, che si rivela tragicamente quasi del tutto inutile. Il problema sollevato dal film, a questo punto, non è tanto sulla falsariga di chi non partecipa alla lotta, semmai risiede nell’indifferenza dei padroni e, per estensione, delle istituzioni. E c’è naturalmente il suo personaggio, sballottato tra un iniziale conformismo (suo e della compagna) nell’imitare i modelli consumistici che li stanno distruggendo, a finire con una rivolta confusa, rabbiosa quanto sostanzialmente strumentalizzata da tutti gli altri. Valeva per la condizione operaia dell’epoca, ma potrebbe valere – per estensione – in molti altri ambiti lavorativi di oggi: il problema, forse, è anche la presenza di numerosi epigoni del primo Lulù, per i quali non esiste alcun problema e si deve solo lavurà. Oggi, magari, li avremmo chiamati con un termine molto di moda come “negazionisti“.

    E adesso, adesso cosa sono diventato? Lo studente dice che siamo come le macchine. Ecco, io sono come una puleggia, come un bullone. Ecco, io sono una vite. Io sono una cinta di trasmissione, io sono una pompa! E non c’ho più la forza di aggiustarla, la pompa, adesso! Io propongo subito di lasciare il lavoro. Tutti! E che non lascia il lavoro è un crumiro e un faccia de merda!