Salvatore

  • Studio 666: l’horror iconico (ed ironico) per soli metallari

    Studio 666: l’horror iconico (ed ironico) per soli metallari

    I FOO FIGHTERS si trasferiscono in una villa di Encino per provare a registrare il loro decimo album: la mancanza di ispirazione si tramuterà in una storia macabra dai toni splatter.

    Arriva in Italia il 23 giugno 2022 (e resta nelle sale fino al 29) il nuovo film scritto da Dave Grohl (Nirvana, Foo Fighters), Studio 666: un horror splatter dai toni ironici che racconta in chiave autobiografica la registrazione dell’album . Girato nel periodo più lungo della pandemia di Covid-19 per compensare alla mancanza di un tour, è un film dai toni celebrativi e autoironici pensato e concepito per i fan della band e per chiunque conosca la carriera dell’attivissimo musicista. Sebbene con diversi spunti riusciti, si lascia dimenticare appena qualche istante dopo l’uscita dalla sala, dando la sensazione di essere stato un intenso videoclip dell’orrore, o poco più.

    Abbiamo di fronte una comedy horror modello The babysitter, questa almeno è la sensazione che si avverte dalle prime sequenze, costellate di cameo che sembrano voler alleggerire il carico da horror serioso che, in modo nemmeno troppo velato, Studio 666 vorrebbe assumere in seguito. Il problema principale del film risiede proprio in questa ambivalenza di fondo: da un lato è un horror demenziale come miriadi ne sono usciti, dall’altro sembra voler diventare il racconto dei tormenti interiori di Grohl (cosa che ci poteva stare, ed avrebbe forse sorpreso più in positivo se fosse stata mantenuta come linea: una rockstar che medita inconsciamente di uccidere la propria band non era malvagia, come idea, tanto più se girata modello primo Peter Jackson). Di fatto, Studio 666  degenera nello splatter horror fine a se stesso, un po’ come da media delle produzioni USA un po’ modello Troma, con ritmi incalzanti, dialoghi essenziali, gore a non finire, qualche sprazzo surreale modello Nightmare ma soprattutto dimenticando per strada quello che stava raccontando.

    Un film in cui, in altri termini, le esagerazioni sono all’ordine del giorno e prefigurato il must, la necessità; per quanto i mezzi visuali siano superiori alla media, durante la visione ci si sente più che altro barcamenati da una narrazione incerta, difficile da decodificare. Si guarda il film, si ride o si sorride o si resta indifferenti (dipende dai casi), e non si è mai sicuri se sia un horror o una commedia, se il tono sia introspettivo o retrospettivo, se sia uno scherzo o se si faccia sul serio. Studio 666 è tutt’altro che noioso, per la verità, anzi vive di momenti autenticamente divertenti o intensi; tuttavia non assume mai un feeling chiaro, sembra dilatato all’infinito per quanto racconti una storia horror già vista mille volte (il che diventa l’ultimo dei problemi, ovviamente). Se non altro vedere i Foo Fighters suonare un pezzo doom di quasi un’ora, quasi tipo Sunn O))), rimane al netto di tutto un’esperienza suggestiva per qualsiasi fan del genere (e anche qui, solo per lui).

    Il tutto per quanto sia girato in maniera impeccabile, da horror vecchia scuola, di quelli fatti bene-bene: la primissima sequenza lo dimostra, così come i vari omicidi con le pugnalate modello Dario Argento, i demoni dagli occhi rossi alla Lamberto Bava(o anche The fog), le reminiscenze inequivocabili di Sam Raimi, la citazione de L’esorcista e i richiami al John Carpenter anni 80 e 90, regista che firma assieme al figlio Cody la colonna sonora del film. Anche i Foo Fighters come interpreti di se stessi sono ben caratterizzati, ma latita un po’ troppo il piano narrativo per poter apprezzare appieno l’idea.

    Probabilmente ha ragione Peter Bradshaw sul Guardian a scrivere che il film conferma una certa tendenza della horror comedy nel non saper essere nè spaventosa nè propriamente divertente, per quanto si lasci un po’ prendere la mano dalla critica definendo addirittura “sconcertante” che una commedia (o presunta tale) prenda ispirazione da fatti violenti avvenuti negli anni 90 (è plausibile che nel dirlo ritenga reale l’assunto della band maledetta, il che immagino farebbe molto ridere Grohl e il regista). In realtà che si crei una urban legend o un dubbio sulla realtà dei fatti raccontati fa parte delle ordinarie dinamiche degli horror moderni “fuori dalle righe”, almeno dai tempi di Cannibal Holocaust, ma questo – più che altro – è mera ordinarietà da un punto di vista filologico, e vale per tutti gli horror seriosi o finto-snuff, non certo per un film che, tra le altre cose, strizza l’occhio a lavori come Tenaciuos D di Liam Lynch (pur senza le stesse musiche spettacolari).

    È stato sicuramente divertente per la band auto-interpretarsi o immaginarsi calati all’interno di una trama horror anni ottanta che più topica non si potrebbe, ma il dubbio di fondo è che sia un film più divertito che divertente, che il modo narrativo non sia troppo intellegibile per il pubblico a cui è rivolto il film, che non è affatto scontato (specialmente negli ultimi anni) essere cultore dei cult del genere. Ed il rischio è quello di non cogliere, annoiarsi, rimanere perplessi, senza contare che tante sequenze risultano fiacche se non sai con precisione che quello che interpreta il fonico folgorato è il chitarrista degli Slayer (Kerry King), oppure che la vicina di casa della band è una delle più famose e dissacranti stand up comedian americane (Witney Cummings). Insomma, siamo sempre lì: Studio 666 non ha un’identità chiara e per quanto sia un film divertente (specie da vedere tra metallari) rischia di farsi dimenticare con la stessa frenesia con cui lo si guarda.

    La storia di Grohl, per altri versi è un archetipo horror a tutti gli effetti, che sembra estratto materialmente e con decisione dagli anni 80: la scenaggiatura viene affidata a Jeff Buhler e Rebecca Hughes, per cui il primo contribuisce alle note più horror mentre la seconda alle situazioni umoristiche. La componente splatter tende un po’ a strabordare e, di fatto, oscura quasi del tutto quella ironica, nonostante la presenza  di due interpreti molto popolari della stand up comedian (forse non troppo noti in Italia, ovvero Jeff Garlin e la Cummings). A poco servono gli stessi cameo musicali: Kerry King degli Slayer nella parte di un fonico maldestro, Lionel Ritchie che accusa grottescamente Grohl di plagio durante una scena onirica (forse una delle più riuscite del film), lo stesso John Carpenter (accompagnato dall’attore che ha interpretato la trilogia di video più recenti degli Slayer, ovvero Jason Trost e la benda sull’occhio che porta anche nella vita di ogni giorno, un po’ Frigga/Madeleine un po’ “Jena” Snake Plissken) che non poteva che interpretare il fonico incaricato di registrare la musica della band.

    L’unica certezza ed autentica nota positiva del film è la regia di BJ McDonnell, solida, sicura del fatto suo e ricca di omaggi agli horror amati da tutti: La casa, Venerdì 13 e compagnia. La prova attoriale dei Foo Fighters è inaspettatamente convincente, soprattutto quella di Grohl nell’interpretare l’archetipico personaggio kinghiano dalla personalità multipla. Studio 666 è imbevuto di atmosfere horror anni 80 fino all’eccesso, in una misura da risultare quasi stucchevole anche per il fan più sfegatato. Al netto di questo rimane un film gradevole quanto, alla fine dei conti, solo per fan della band e forse nemmeno per tutti, oltre che rivolto a qualsiasi fan del rock con un minimo sindacale di senso dell’umorismo. Con la nota a margine che potrebbe, nonostante le aspettative elevate, restare un po’ deluso dalla visione.

    Il film vede l’ultima partecipazione da attore del batterista Taylor Hawkins, scomparso nel marzo 2022 durante il tour della band a Bogotà.

    Studio 666 potrebbe essere a breve disponibile in streaming su Prime Video, per quanto ad oggi non sia ancora visionabile e l’Italia non rientri tra i paesi in cui c’è. Il disco contiene brani della band maledette (e fictional) DREAM WINDOW, che è stato anche pubblicato come LP completo su Spotify. Studio 666 è anche il nome di un misconosciuto horror indipendente del 2005, firmato dall’attore e produttore Corbin Timbrook, con cui non dovrebbe avere nulla a che fare.

  • The Northman: Il Dramma Rituale dell’Ultima Era Vichinga

    The Northman: Il Dramma Rituale dell’Ultima Era Vichinga

    La storia mitologica del giovane principe vichingo Amleth, in cerca di vendetta dopo l’omicidio del padre.

    In breve. Eggers dirige col consueto stile visionario, dimostrando di essere totalmente maturo, originale e pronto ad affiancarsi a nomi dei registi che contano, e conteranno molto, di qui agli anni a venire. The Northman è un poema epico vivido e ricco di simbolismi, che lascia il pubblico senza fiato.

    L’assonanza di The Northman con l’Amleto shakespeariano dovrebbe apparire in modo lampante fin dai primi minuti di visione, per quanto Eggers abbia operato in modo filologico: è risalito infatti ad un’opera originale di Saxo Grammaticus, la stessa da cui Il Bardo trasse uno dei propri capolavori, nel primo caso con un’ambientazione norrena o vichinga. Non, quindi, una versione norrena dell’opera di Shakespeare sul principe di Danimarca, vittima par excellence del proprio procrastinare, bensì un ritorno alle origini, alla mitologia norrena che aveva ispirato il misterioso autore, vissuto verso la metà del 1100, sulla cui biografia non si conosce neanche troppo.

    Secondo Eggers, The Northman rappresenterebbe una curiosa via di mezzo tra Andrej Rublëv di Tarkovskij e… Conan il Barbaro.

    Se l’Amleto è diventato uno stereotipo non semplicemente letterario, ma addirittura pop, del resto, lo si deve alle sue numerosissime re-interpretazioni teatrali (impossibile dimenticare quella crossmediale di Carmelo Bene), oltre ai noti adattamenti cinematografici di Franco Zeffirelli e di Laurence Olivier. Questo brevissimo excursus su una storia abbastanza tipica, in effetti, serve soltanto a far passare l’idea che Eggers abbia almeno per questa volta messo da parte gli stilemi horror, forse per provare a cavalcare una tematica apprezzata a livello mainstream, quella sulle imprese epiche del popolo norreno, anche grazie al successo di serie TV caposcuola come Vikings (2013). Al tempo stesso, la regia non rinnega le origini e anzi, non disdegna qualche momento cruento come da tradizione, sia pure con misura decisamente più contenuta rispetto alle opere precedenti.

    La ricostruzione dei rituali dell’epoca (inclusi due sacrifici umani) si è avvalsa di una ricerca filologica del regista, con l’unica eccezione del rituale di iniziazione di Amleth, definito “probabilmente il rituale più immaginario del film“. Si tratta di una perifrasi, in verità, dato che quella sequenza, dal sapore horror-grottesco, è girata con una certa dose di insospettabile ironia (non diciamo altro per non guastare la sorpresa a chi non avesse visto il film, ndr).

    The Northman avrebbe anche poco a che vedere con l’opera di culto di Shakespeare (che secondo alcune fonti, peraltro, potrebbe non aver mai letto Saxo Gramaticus), alla fine dei conti, se non fosse che narra del figlio di un principe, naturale erede al trono, in fuga dallo zio che gli ha fatto uccidere il padre al fine di governare assieme alla madre. L’Amleth eggersiano è un omone tutto d’un pezzo, con un cuore a pezzi e una sofferenza interiore mai risolta, che ricorda, soffre e combatte, evocando quasi un supereroe ante litteram, un mito in carne ed ossa che assume almeno tre aspetti differenti durante il corso della storia (corrispondenti a tre fasi narrative idealmente corrispondenti: la crescita, l’infiltrazione e la vendetta vera e propria). Come se non bastasse, è anche un personaggio onirico-psichedelico, dato che ha frequenti allucinazioni da sciamano sul proprio passato, varie premonizioni sul futuro e soprattutto una pregevole visione della sua ascesa al Valhalla, un maestoso fascio di luce che conduce, a bordo di un cavallo, fino ad Ásgarðr, mitico regno di Odino. Uno dei momenti visivamente più meritevoli di tutto il film, che rientra così a pieno titolo nell’opera tra la storia, il mito ed il fantasy puro.

    Il film si svolge nell’anno 914, durante il cosiddetto “landnámsöld“(letteralmente “l’età della presa della terra”), ovvero il primo insediamento dell’Islanda.

    Se l’ambientazione è norrena non manca, come da tradizione, il riferimento al folklore locale d’epoca, tanto che sono presenti vari canti e danze rituali in lingua originale sottotitolata, oltre ad alcune parti recitate in lingua dai protagonisti (Alexander Skarsgård e la consueta Anya Taylor-Joy), il tutto a costituire un’atmosfera decisamente suggestiva. La regia di Eggers è quella di sempre, in questo frangente: se bada molto al ritmo della narrazione, in alcuni momenti sembra perdersi dolcemente nella riscoperta e rievocazione del mito, mostrandoci con piglio quasi etno-antropologico la cultura e le tradizione di quel popolo. Se a questo di aggiunge una fotografia gelida e spettrale, con l’unica eccezione della battaglia finale (ambientata in un simil-inferno, ovvero nei pressi di un vulcano), si capisce bene che questo The Northman potrebbe essere, senza timori di esagerare, uno dei migliori film dell’anno. Il tutto a dispetto di una storia forse poco elaborata, sicuramente già vista – anche se è chiaro che se parliamo di un’opera originale di oltre 900 anni fa non ha neanche senso fare ragionamenti cronologici. Vale la pena citare anche il cast di lusso, che annovera  oltre ai succitati Nicole Kidman, Ethan Hawke, Willem Dafoe e Claes Bang.

    La storia di The Northman si basa su quella di Amleth, così come possiamo leggerla nella Gesta Danorum (Storia dei danesi) di Saxo Grammaticus, a sua volta discendente di varie tradizioni orali.

    Eggers è ormai una certezza, e garantisce una solida e accattivante regia, prevedibilmente ancorata alla compostezza gelida (gli scenari, i personaggi sulfurei, gli sguardi sinistri in camera fissa) che aveva determinato le sue opere precedenti – lo ricordiamo, di genere horror, ovvero The Vvitch e The Lighthouse: non sembra casuale, per inciso che la trilogia eggersiana abbia quel “The” a fattor comune, finchè qualcuno non saprà trovare una qualche attinenza concettuale tra i tre film. Parallelismi a parte, non sembra utile aver visto o conoscere il resto della filmografia di Eggers, classe 1983, proteso originariamente sull’universo dell’horror folklorico che qui ha scelto di declinare un’opera per il grande pubblico, accattivante, dotata del giusto grado di orrido e di gore, mai eccessiva nonostante la storia possa sembrare tirata un po’ troppo per le lunghe (ma questa è un’osservazione da spaccare il capello in quattro, valida giusto per gli amanti estremi della sintesi). In definitiva, un film da vedere immediatamente e gustare senza esitazione sul grande schermo.

    Eggers si è avvalso della collaborazione di vari storici dell’era vichinga, e ha svolto meticolose ricerche sul periodo, per rendere al meglio il clima, gli ambienti e gli oggetti dell’epoca. Tra i collaboratori troviamo anche il professor Neil Price, archeologo, che ha affermato che The Northmanpotrebbe essere il film ad ambientazione vichinga più accurato mai realizzato“.

    Cosa rappresenta l’albero di The Northman?

    A più riprese dentro il film vediamo un albero suggestivo e dai rami luminescenti, su cui parte del pubblico si è interrogata sulla valenza e sul significato. Come ha spiegato Eggers stesso, l’albero riconduce a qualche elemento legato a Yggdrasil, l’albero del mondo della mitologia norrena, ma soprattutto un’illustrazione reperita sulla nave di Oseberg, in cui è possibile vedere (caso raro per l’era vichinga) una struttura ad albero sui cui rami sono presenti vari corpi appesi. La sceneggiatura, concepita assieme allo scrittore Sjón, ha presumibilmente immaginato che si trattasse degli antenati di Amleth. L’albero genealogico della famiglia del protagonista, nel film, sembra “vivere” letteralmente all’interno del suo stesso corpo.

  • Ro.Go.Pa.G.: Frammenti di Desiderio e Decadenza

    Ro.Go.Pa.G.: Frammenti di Desiderio e Decadenza

    Film diviso in quattro episodi a se stanti, ognuno diretto da un diverso regista: Roberto Rossellini, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pasolini e Ugo Gregoretti.

    In breve. Un classico che rientra nella consolidata tradizione dei film a più registi e a episodi, dalla confermata attitudine socio-politico-satirica.

    4 cortometraggi incentrati su quattro argomenti diversi: sessualità, separazione, fame e consumismo.  A ben vedere, due coppie di opposti che finiscono per creare un immediato gioco di contrasti, tra la gioia apparente del sesso alla frustrazione per la conquista fino al dramma della gelosia e della separazione. E naturalmente le psicosi moderne, da quelle indotte dal consumismo a quelle di natura sociale. Se ci mettiamo la società del boom economico allora nascente (il film è del 1963), il contesto diventa fondamentale per inquadrare l’importanza del lavoro, esattamente così come viene presentato.

    Lavoro che, per inciso, nasce da un’idea dei produttori Angelo Rizzoli, Alfredo Bini e Alberto Barsanti che decidono di chiamare il progetto Ro.Go.Pa.G. dalle iniziali dei quattro registi coinvolti, dando ad ognuno massima libertà espressiva. In questi casi i risultati tendono ad essere altalenanti, proprio perchè manca un filo conduttore, cosa che in questo caso non succede anche perchè è relativamente agevole identificarne almeno uno (quello nichilistico, su tutti). Quattro storie contemporanee, moderne per l’epoca in cui uscirono, incentrate su una tematica sociale o politica precisa, e caratterizzate da un artista ormai rassegnato – e nichilisticamente sconfitto – dal conformismo imperante.

    Illibatezza (Rossellini)

    L’episodio di Rossellini è forse il più immediato dei quattro pur mostrando, per la verità, una tematica impegnativa: il celebre complesso di Edipo proposto da Sigmund Freud, qui concretizzato nella storia di un americano alcolizzato, che durante un viaggio di lavoro si invaghisce di una hostess italiana, iniziando a seguirla ovunque e comportandosi grottescamente come un bambino che reclama la figura materna. Sarà l’intervento di uno psichiatra a lenire le pene della ragazza, grazie alla brillante proposta di passare da un personaggio di mora dall’aria affidabile a femme fatale bionda, riconquistando il fidanzato geloso (un calabrese stereotipato che tende, tuttavia, a parlare in siciliano) e respingendo così definitivamente le asfissianti avance dell’americano. Un micro-episodio d’epoca su un boomer ante litteram, che inizia a stalkerare (diremmo oggi) la bella e giovane hostess Anna Maria, arrivando a raggiungerla nella sua stanza d’hotel di soppiatto, ed inscenando patetiche sceneggiate pur non farsi cacciare. L’effetto grottesco è garantito, soprattutto per la determinazione insospettabile della donna.

    È evidente la tematica dei tempi che stanno cambiando, delle persone radicate nella tradizione che avranno maggiori imbarazzi ad accettare il cambiamento di valori del prossima a venire Sessantotto, di una esplosiva emancipazione femminile e dell’avvento, nella società italiana, delle più classiche teorie psichiatriche e psicologiche, destinate – di lì a breve – a pervadere qualsiasi ambito.

    Il nuovo Mondo (Godard)

    Il corto di Godard è probabilmente il più filosofico e basato su sottintesi, e non è proprio immediato comprenderne il senso: lo stile narrativo si ispira alla più classica Nuovelle vague (la nuova onda del cinema francese, quella nata nel 1957), ma probabilmente c’è qualcosa anche da L’amante di Harold Pinter, una piece teatrale dell’assurdo uscita appena un anno prima (1962), nota quest’ultima per l’incipit che è passato allo storia: un marito chiede amorevolmente alla moglie “Viene il tuo amante, oggi?“, la moglie annuisce, la coppia discute l’evento come se fosse una cosa qualunque.

    Nulla di troppo diverso, in effetti, da ciò che succede tra il protagonista (di cui non sappiamo il nome) e Alexandra, una giovane donna innamorata e ricambiata dall’uomo. Viene poi mostrata la prima pagina di un quotidiano, che annuncia vari esperimenti atomici a 120.000 metri sotto la città: non erano trascorsi nemmeno venti anni dalla tragedia di Hiroshima e Nagasaki, per cui l’evento dovrebbe fare scalpore, provocare preoccupazione. Il problema è che sembra passare indifferente alla popolazione, nessuno ne parla: questo per quanto l’evento sembri aver innescato (mediante modalità non esplicitate) una mutazione profonda, non nei corpi ma nel comportamento umano.

    È il protagonista ad rendersene conto: da’ appuntamento ad Alexandra che, presumibilmente per la prima volta, non si presenta. Informatosi presso un vicino, va a trovarla in piscina, e la vede baciare e abbracciare una persona (che poi svelerà di non conoscere affatto). Alexandra diventa così scostante, illogica, sembra smarrirsi in un vaneggiamento perenne senza capo nè coda, da’ risposte contraddittorie ed afferma più volte al compagno “io ti ex-amo“, pur accettando di rimanere a dormire da lui quella sera.

    Convintosi di un collegamento indiretto con l’esperimento nucleare (e dell’annessa disumanizzazione), l’uomo scrivere le proprie memorie, nella speranza che qualcuno dei posteri possa capirne il senso. Il film termina dopo aver mostrato la penna del protagonista prendere appunti, non prima di aver mostrato a più riprese vari parigini che attraversano la scena ingerendo delle pillole.

    Le musiche sono i quartetti per archi di Ludwig van Beethoven (n. 7, 9, 10, 14 e 15), e l’apocalisse è servita.

    La ricotta (Pasolini)

    Una troupe sta girando, diretta da un regista dai modi caustici (interpretato da Orson Welles), una riedizione della Passione di Cristo in chiave artistico-concettuale. Ci troviamo nella campagna romana, ed emerge da subito la figura di Stracci, la comparsa che interpreta il ladrone buono nella scena della crocifissione. Pasolini rappresenta questo personaggio in modo simile allo Zanni portato sulle scene (e reso celebre) da Dario Fo: legato alla terra, dalle movenze grottesche, dedito ai travestimenti per avere doppia razione di cibo e, naturalmente, perennemente affamato. Dopo che il cane di una vanitosa attrice gli ha sottratto il cibo da lui gelosamente nascosto e accumulato, decide di venderlo all’insaputa della donna ad un giornalista di passaggio. C’è tempo per uno splendido siparietto tra il mediocre giornalista e il colto regista, con il primo che cerca di intervistarlo mediante domande banalotte ed il secondo che afferma la propria natura marxista, legge una poesia tratta da Mamma Roma (libro proprio di Pasolini, che l’uomo ovviamente non capisce), lo sminuisce e lo insulta con eleganza. E si arriva poi al clou della storia: Stracci viene scoperto nella grotta in cui sta accumulando il cibo, viene deriso dalla troupe ed invitato a mangiare pantagruelicamente. Col risultato che avrà un malore proprio mentre impersona il ladrone e si trova sulla croce, impossibilitato a pronunciare la battuta finale mentre il regista ne constata gelidamente la morte.

    È difficile discutere ogni singolo aspetto di questo piccolo capolavoro di Pier Paolo Pasolini, intellettuale a tutto tondo che subì un vero e proprio boicottaggio, per questo corto, e si arrivò ad una condanna censoria per vilipendio alla religione. Si ebbe poi un’amnistia, ma nel frattempo il regista aveva già fatto delle modifiche definitive all’audio e alle scena. Aveva, ad esempio, dovuto cambiare la frase finale da “crepare… è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione” a un più innocuo (e forse non meno significativo, in un certo senso) “non aveva altro modo per ricordarci che anche lui era vivo“, e certe sequenze considerate inopportune vennero tagliate (la versione su Amazon Video del film sembra essere, in teoria, quella senza tagli).

    La ragione della censura, del resto, sembra oggi difficilmente riconducibile a vilipendio, anche perchè se si fosse applicato questo criterio uniformemente, più della metà degli horror successivi non sarebbero mai circolati in Italia. Il problema de La ricotta è probabilmente nella sua valenza politica diretta e senza filtri, nel suo saper usare la Satira portando il sacro a livello del profano (la maschera tragicomica di Stracci, lo spogliarello dell’attrice che interpreta la Maddalena), nelle pose plastiche degli attori sotto la croce per cui sbagliano a mandare la musica e, come se non bastasse, scoppiano tutti a ridere durante le riprese, nella sua brutale constatazione inerenti divisioni sociali sempre più nette, nel dialogo (mai abbastanza citato) tra i due attori che interpretano i ladroni, in cui quello che afferma di essere tentato di bestemmiare viene frenato dall’altro, che poi lo biasima per essere un “morto di fame” che resta, nonostante tutto, dalla parte dei padroni.

    La questione è complessa da affrontare, e ci limiteremo a scrivere che c’è una questione di irrisolti politici da sempre, a riguardo, oltre a molteplici imbarazzi e lacune che sono culminate, purtroppo, con la morte prematura del regista (nel 1975) e miriadi di teorie, ipotesi più o meno credibili e presunti complotti su come siano andate realmente le cose.

    Il pollo ruspante (Gregoretti)

    Da un lato, un sociologo ospita un convegno assieme a vari “pezzi grossi” della società (ingegneri, dirigenti, presidenti, politici), usando un laringofono per parlare – il che gli conferisce un’inquietante voce robotica. Racconta delle ultime scoperte in ambito psicologico e sociologico sull’induzione all’acquisto da parte dei consumatori. Dall’altro, vediamo un padre che firma più di venti cambiali pur di avere una TV di ultima generazione: i suoi figli sanno le pubblicità a memoria e la moglie è perennemente frustrata. I due coniugi inseguono affannosamente il Consumo: valutano di comprare un terreno che già sanno di non potersi permettere, vogliono già cambiare la televisione dopo averne comprata un’altra di recente, acquistano miriadi di prodotti inutili in autogrill, si conformano ai modi dei fast food millantando di conoscere (da cui il titolo) la differenza tra polli di allevamento e polli ruspanti. Finalmente si distaccano da quel modello malsano di finto benessere, in una doccia fredda di consapevolezza, e pensano di poter vivere diversamente. Ma è troppo tardi: Togni si distrae alla guida ripensando ai terreni perduti e muore, presumibilmente con tutta la famiglia, in un frontale.

    Si tratta dell’episodio forse più politico e sovversivo in assoluto, con un Ugo Tognazzi sempre in splendida forma, per un cortometraggio sulla perfetta falsariga di quelli visti ne I mostri oppure in Signore, signori, buonanotte.

  • Control: il film di Anton Corbjin su Ian Curtis

    Control: il film di Anton Corbjin su Ian Curtis

    Control è un biopic musicale, girato almeno un decennio prima che partisse il trend dei tempi più recenti (Lord of chaos, The dirt, Bohemian Rhapsody), in cui il titolo fa riferimento a She’s lost control, il brano dei Joy Division con cui Ian Curtis racconta della crisi epilettica di una sua conoscente, prefigurando il male esistenziale che lo avrebbe attanagliato di lì a breve.

    Control è un biopic sui Joy Division ma è soprattutto incentrato sulla figura di Curtis, figura di culto della scena dark e anima tormentata per eccellenza: diviso tra mille contraddizioni, dedito con abnegazione alla band che amava, colto, amante del  cinema e del punk, lacerato tra due amori che sembrano egualmente impossibili. Ne viene fuori un ritratto da anti-eroe sublime quanto sofferto. Un personaggio nel quale, soprattutto da fan della band, sarà impossibile non identificarsi,  e che trasmette un convulso flusso di coscienza (affidato al suo personaggio che, in molti casi, scrive i propri pensieri), intervallato tra stati depressivi ed epilettici che lo accompagnarono per tutta la vita. La perdita del controllo sarà anche ciò che ne determinerà la prematura scomparsa, per suicidio, a soli ventitrè anni. Secondo il film Curtis concluse la propria esistenza guardando La ballata di Stroszek di Werner Herzog e ascoltando l’album The Idiot di Iggy Pop.

    Concepito inizialmente come una trama da sviluppare in flashback, si stabilì  durante le riprese di seguire linearmente la vita del cantante dei Joy Division, dalle origini fino alla caduta. Scelta saggia, perchè in questa veste il film assume quasi il tono di un documentario romanzato, senza cedere alla tentazione di introdurre elementi falsificati o teatraleggianti tipici di certi biopic, così come dettagli autoindulgenti o trasgressione fine a se stessa. Una scelta saggia, che restituisce l’immagine di uno degi musicisti più influenti di tutti i tempi – che avrebbe meritato più spazio e copertura mediatica fin dall’inizio (e lo scriviamo convintamente e senza retorica). Un film che ci lascia con una sequenza da brividi, quella finale, che racconta la fine della vita di Curtis con la stessa grazia, disperazione ed introversione che lo caratterizzarono (oltre che sulle note della splendida Atmosphere).

    Control è il sorprendente debutto alla regia di Anton Corbjin, fotografo e regista olandese divenuto celebre per questo film e molto noto, peraltro, come regista di videoclip (Metallica, Nirvana, Depeche Mode tra gli altri). Girato inizialmente a colori e poi virato sul bianco e nero per conferirgli un tono più cupo, che il regista paragonò a quello ottenibile con il Super-8 in 35mm. Riley, scelto come protagonista nei panni di Ian Curtis, non era nuovo alle esperienze prettamente musicali, essendo stato leader dei 10.000 Things (con cui pubblicò anche un album, etichetta Polydor, nel 2005). Stando all’attrice che interpreta la moglie di Curtis (Samantha Morton), per fare questo film il regista si indebitò fino all’osso, arrivando a mettere in pegno la propria casa. Scommessa vinta, a quanto sembra,dato che il film incassò 8.9 milioni di dollari al botteghino.

    La poesia che viene recitata nel film prima del primo live dei Joy Division, per la cronaca, è di John Cooper Clarke, poeta inglese molto connesso con la scena punk dell’epoca. Per interpretare la parte del chitarrista della band Bernard Sumner, inoltre, James Anthony Pearson imparò realmente a suonare la chitarra in circa due mesi.

    Il film è interessante per lo sviluppo lineare, mai inutilmente appesantito a livello narrativo (e anzi condito da una vaga forma di humour sarcastico, quanto imprevedibile, in alcuni passaggi), e per la scelta di ricostruire episodi realmente avvenuti nella biografia della band: la prima apparizione con Tony Wilson, ad esempio, nel programma Granada Reports, che viene riprodotta piuttosto fedelmente rispetto all’originale, per quanto il brano eseguito nel programma sia Transmission mentre quello suonato nel film sia, invece, Shadowplay.

    Grande importanza è giustamente relegata, inoltre, alla figura di Annik Honoré, la giornalista belga in relazione sentimentale con Curtis, storicamente molto legata alla sua fama e scomparsa nel 2014. Il brano Love Will Tear Us Apart nel film, peraltro, viene associato al dolore di Curtis perchè sente di non amare più la moglie, ma sembra è altrettanto plausibile che sia stata ispirata alla Honorè.

  • Frenzy di Hitchcock: mostra subito il volto del killer, ed è un capolavoro del genere

    Frenzy di Hitchcock: mostra subito il volto del killer, ed è un capolavoro del genere

    Un assassino seriale uccide varie donne a Londra strangolandole con una cravatta: per una serie di circostanze casuali, la polizia sospetta dell’uomo sbagliato…

    In breve: un buon film, il penultimo, del maestro del brivido, caratterizzato da un perfetto equilibro tra componenti violente (esplicite come non mai per il regista), virtuosismi di camera, elementi di puro intrattenimento e quel tocco di immancabile humor nero. Da vedere senza esitazione.

    Primo film girato nel Regno Unito dai tempi de L’uomo che sapeva troppo (1956), e filmato nei pressi di Covent Garden a Londra, è noto per essere uno dei lavori più spaventosi ed estremizzati del regista inglese: è un film incentrato interamente sull’operato di un serial killer, che peraltro si vede subito in volto ed i cui dettagli raramente vengono risparmiati. A rendere accattivante la trama vi è una serie di equivoci, di circostanze casuali che porteranno le autorità – tra il serio e l’ironico – a sospettare ostinatamente di un innocente.

    Si racconta che la figlia del regista, Patricia, impedì di vedere Frenzy ai propri figli per diversi anni: rispetto alla media dei film del padre, in effetti, qui si osa molto di più che in passato. E forse sta in questo il suo reale valore aggiunto: del resto, pur rimanendo ancorato agli elementi stilistici che caratterizzano le sue precedenti opere (Frenzy è il suo penultimo film), è pur sempre l’unico lavoro di Hitchcock vietato ai minori di 18 anni nel paese d’origine – lo stesso paese che, per inciso, fece stilare la lista dei video nasty negli anni 80.

    Nonostante non sia il capolavoro del regista, è un film dotato di notevole forza espressiva, ed in cui sembra notarsi apertamente l’entusiasmo del buon Alfred nel poter filmare liberamente, nel dare massimo sfogo alla propria creatività e nell’arricchire il film di virtuosismi visivi, inquadrature inattese e personaggi praticamente perfetti. Non mancano le scene di nudo, per la cronaca, cosa decisamente inusuale per il suo stile relativamente sobrio, e questo a dispetto della mancanza delle solite dive dei film precedenti: mostrano le proprie grazie la Leigh-Hunt (la sequenza della sua morte è un mix delirante di sesso, violenza e tensione: praticamente perfetta), la Massey (non appena si alza dal letto) e la povera ultima vittima del killer. La capacità di contestualizzare queste sequenze – senza farle sembrare gratuite, rischio elevatissimo in questi casi – da parte del maestro è sublime: nessuna scena è fuori posto, ogni personaggio viene dipinto come se fosse un quadro e, forse soprattutto, sono i movimenti di camera a sottolineare il senso di molte scene. Basti pensare al lungo piano-sequenza con la camera che si allontana all’improvviso dalla scena del delitto – facendolo solo intuire, oppure alla camera che ruota sopra il protagonista che sappiamo essere innocente dopo che, ingiustamente, è stato messo in cella.

    Da un punto di vista prettamente narrativo, “Frenzy” (che significa “delirio”) è tratto dal libro Goodbye Piccadilly, Farewell Leicester Square di Arthur La Bern (non facilissimo da reperire, almeno da quanto ho visto), ed è stato caratterizzato da numerosi espedienti di interesse: su tutti, il focus di certe sequenze sull’alimentazione, dalla frutta di ogni tipo alla cucina francese, quest’ultima molto elegantemente sbeffeggiata.

    Tra le curiosità, il trailer di Frenzy viene presentato dal regista nel consueto stile, composto ed inconfondibile, mentre il suo corpo galleggia, impassibile, nello stesso fiume in cui sarà trovata la prima vittima.