Salvatore

  • Nero criminale di Pete Walker è il thriller settantiano semi-dimenticato

    Nero criminale di Pete Walker è il thriller settantiano semi-dimenticato

    Edmund e Dorothy Yates sono una coppia condannata a 15 anni di manicomio: trascorso questo periodo, rientrano a casa ed apparentemente riprendono una vita normale. La figlia e la figliastra, rispettivamente, rientreranno presto a contatto con loro…

    In breve. Un cupo thriller settantiano in crescendo, che vira verso l’exploitation fino ad una conclusione grottesca e delirante; abbastanza sottovalutato da pubblico e critica, contiene spunti interessanti ed è, per certi versi, considerabile un cult.

    Questo film di Pete Walker, regista inglese di b-movie prevalentemente horror, si pone sulla scia dei thriller sugli psicopatici che uscirono all’epoca: basterebbe citare Il mostro della strada di campagna, uscito qualche anno prima, con cui questo lavoro presenta qualche affinità. Se ne caso del film di Fuest si poteva parlare di pre-slasher, in questo di Walker gli omicidi servono a porre il problema sociale del reintegro nella società dei malati di mente.

    Rinunciando all’etica del politically correct, Walker mostra la storia di una coppia condannata per cannibalismo, che vive internata in un manicomio quindici anni per poi essere rimessa in libertà: la coppia ha una figlia naturale che non li conosce, ed una figliastra che se ne prende cura e fa di tutto per nasconderglieli. Per quanto si scoprirà, Dorothy Yates in realtà non è mai guarita; il marito, mite ed apparentemente sano ma preda di incontrollabile devozione coniugale, continua a coprirne le efferatezze; la figliastra è vittima, nonostante tutto, dei propri legami affettivi e coniugali. Ci sarebbe abbastanza perchè un film del genere scatenasse il putiferio in termini di discussioni, eventuali accuse di reazionarietà (il messaggio del film sembra chiaro: il reintegro dei malati è inutile e dannoso) e richieste di censura e messa al bando; cosa che non sembra essere successa, probabilmente perchè si sono sempre evidenziati i limiti della produzione, che è da onesto b-movie e non particolarmente sorprendente sul piano degli effetti speciali o della narrazione/ritmo. Se uscisse oggi, un film come Nero criminale provocherebbe polemiche taglienti e distruttive a cominciare dall’ambiguità brutale della traduzione del titolo (dal sapore vagamente razzista, per quanto puramente accidentale).

    Eppure “Nero criminale” rimane un film di discreta qualità, pur nei suoi limiti di genere, che sa presentare una lucida discussione sul tema, sfruttando il linguaggio dell’horror ed una narrazione gradevole, con buone interpretazioni ed una punta di biasimo, inevitabile, nei confronti delle istituzioni. Non c’è dubbio che dai personaggi di questo film, a cominciare dall’inquietante madre-criminale nonchè veggente – che sembrerebbe, stranamente per un film del genere, possedere reali poteri sovrannaturali – esca fuori un quadro pessimista sull’uomo e sulla sua natura. Lo dimostra l’episodio dello psichiatra, il personaggio in cui il pubblico tenderà ad identificarsi e che ne uscirà piuttosto male.

    Le due figlie della coppia possiedono polarità opposta e funzionano grandemente: la prima sembra accomodante, vuole voler evitare il discorso e vivere in un comodo conformismo, puntando ad una propria vita “normale”. La seconda è puramente antisociale, difficile e dall’attitudine violenta, che scoprirà casualmente un’insano feeling con i genitori che la sorella le aveva tenuto, di fatto, nascosti. Non si vedrà granchè a livello di sangue, è bene specificarlo: questo nonostante le tematiche exploitation e nonostante, soprattutto, si capisca quasi sempre quello che sta succedendo: Walker dosa con cura le scene di violenza, e questo contribuisce a creare un clima di terrore a volte accennato e forse più intenso di quello esplicito. Inutile sottolineare, poi, che sia Craven (che usò spesso l’horror come rappresentazione dei mali sociali e della criminalità) che soprattutto Hooper (con la sua famiglia cannibale e le ormai celebri cene grottesche e cannibaliche) si possano trovare forti punti di contatto con queste tematiche.

    Nero criminale è in definitiva un buon film di genere anni 70, annoverabile tra i b-movie d’epoca e, per questo, con tutti i limiti ed i difetti di questo tipo di produzioni; uscito in un periodo in cui il genere era al proprio apice, del resto, sarà facile trovare titoli anche decisamente più incisivi ma questo, a mio avviso, merita comunque un occhio. Se l’horror non sempre è riuscito a dispensare messaggi significativi alla società, limitandosi a curare al più l’aspetto prettamente narrativo, “Nero criminale” rappresenta una notevole eccezione a questa regola, e si presenza come un film da riscoprire. Con occhio critico, s’intende, ma pur sempre da riscoprire.

  • Signore, signori, buonanotte è il film grottesco di Comencini, Loy, Magni, Monicelli e Scola

    Signore, signori, buonanotte è il film grottesco di Comencini, Loy, Magni, Monicelli e Scola

    In breve. Film a regia collettiva uscito nel bel mezzo degli anni ’70 italiani, in grado di rappresentare una delle più feroci ed efficaci satire cinematografiche contro il Potere, la politica corrotta (prima che diventasse una moda populista), la TV ed i media in generale. Grande e poco noto film che meriterebbe una rivaluazione immediata, anche in vista della sua incredibile modernità e per le trovate degne dei Monty Python.

    Signore e signori, buonanotte porta in sè la rassegnazione e la rabbia di un’intero movimento culturale, quello dei film di genere e d’autore italiano, rappresentato in questa sede da un vero e proprio collettivo registico (il film è presentato a nome de La cooperativa 15 maggio) in grado di confezionare un film avulso da qualsiasi logica commerciale, orgogliosamente anarchico e puramente satirico nei suoi intenti. E quanto esce fuori dal film racconta uno spaccato dell’epoca molto preciso, in cui traspare una certa connotazione ideologica di sinistra ma, al di là di questo, viene raccontato un insieme di storie notevolissime, incisive ed originali. La satira, si sa, e come sostenuto da Daniele Luttazzi, è innanzitutto un giudizio su chi la fa: questo vale sempre, e deve tenerci in guardia e farcela distinguere dallo sfottò, dalla comicità facile e da qualsiasi banale o feroce presa in giro. Ad oggi, soprattutto sul web, la satira è spesso il paravento di una comicità aggressiva e spesso deprimente, che si bulla del proprio ritenersi satira (a torto, peraltro).

    Quella di Comencini, Loy, Magni, Monicelli e Scola è satira nel senso più letterario del termine, e contiene trovate spassose e surreali, quasi insolite per il cinema nostrano: la foto di pericolosi manifestanti di sinistra mostrata nel 3TG che sono soltanto ragazzini delle elementari con cartelli “abaso i dopi turni“, il rapimento di un famoso dirigente italiano svelato come una messainscena, l’intervista ad un politico che ammette di rispettare la legge (del più forte). Il resto è un susseguirsi di episodi altalenanti e legati all’attualità dell’epoca, come l’insegnante di inglese che si spoglia in diretta ed introduce le azioni di un’agente della CIA, il poveretto aggredito dai fascisti a cui chiedono se sia per caso venuto a costituirsi, alcuni poliziotti che credono di scoprire una bomba ed arrivano a farsi un auto-attentato pur di dimostrare che è vero, per poi passare agli episodi forse migliori del film: Da malata a convalescente (quattro politici napoletani che si chiamano allo stesso modo, parlano per frasi fatte e finisco per mangiare un enorme torrone che rappresenta la città), L’ispettore Tuttumpezzo (parodia del poliziotto irreprensibile che finisce per fare il cameriere nell’alta società) e soprattutto Il Disgraziometro (un grottesco telequiz con Villaggio conduttore, su cui non potrà non venire in mente lo sketch Blackmail dei Monty Python).

    L’unico vero difetto del film, in effetti, sono alcune lungaggini forse evitabili all’interno della pellicole, che tendono a conferire meno ritmo di quanto richiederebbe il contesto. Per sua natura, ad ogni modo, certi episodi – soprattutto Santo Soglio – si capiscono e si gustano appieno solo conoscendo la realtà delle cronache d’epoca, ricche di insinuazioni verso autorità corrotte, macchinazioni governative e sfruttamento incondizionato dei più deboli. Cast decisamente di livello per questo lavoro, soprattutto molto eterogeno (da Adolfo Celi a Ugo Tognazzi, da Nino Manfredi a Vittorio Gassman passando per Paolo Villaggio e Marcello Mastroianni), tutti caratteristi molto dotati ed in grado di conferire registri differenti alla recitazione, passando con facilità dal grottesco al drammatico o al parodico-satirico: questo vale soprattutto per Villaggio, legato all’immaginario fantozziano ma che qui si supera tra il succitato conduttore del disgraziometro (con riferimenti parodistici a Mike Bongiorno) e nella bella interpretazione del prof. Ludwig Joseph Smith, l’accademico che propone in diretta TV di mangiare bambini per vincere la fame nel mondo, sulla scia della nota satira di Jonathan Swift, Una modesta proposta.

    Questo film resta comunque, tra episodi molto efficaci ed altri meno, un saggio sul grottesco come pochi ne sono usciti nel nostro paese, e che si potrebbe in parte paragonare ai celebri episodi de I (nuovi) mostri di Risi: la differenza, qui, sta nella forma più diluita dell’intreccio, presentato come micro-episodi collegati da un grottesco telegiornalista. Ed è qui che si notano riferimenti, ammiccamenti e feroci critiche al peggio della società italiana, con il piglio quasi non sense dei Monty Python (per certi versi) e con la precisione millimetrica dei singoli attacchi, condotta sempre contro bersagli meritevoli – ma questo, naturalmente, rischia di essere quasi sempre soggettivo.

  • Il demonio: il film anni 60 di Brunello Rondi sulla possessione

    Il demonio: il film anni 60 di Brunello Rondi sulla possessione

    Lucania: Purificazione (nomen omen) è posseduta da un amore non corrisposto per un compaesano, già promesso da tempo ad un’altra donna. I suoi comportamenti troppo passionali la porteranno ad essere vista con diffidenza, fino a subire veri e propri abusi…

    In breve. Un piccolo gioiello del cinema “demoniaco”, ricco di sfumature e dettagli antropologici, arrivato sugli schermi molto prima che il genere prendesse una piega monotematica (e spesso, purtroppo, alla pura ricerca di effettacci). Un film girato con piglio documentaristico, privo di eccessi ed apprezzabilissimo ancora oggi.

    Il demonio è un film del 1963 atipico, oltre che in anticipo sui tempi: è uno dei primissimi esempi di cinema con riferimenti demoniaci espliciti, genere che prese definitivamente piede solo con “L’esorcista” e “The omen“. Vale la pena di ricordare, fin da subito, la notizia di cronaca a cui Friedkin sembra essersi ispirato: un quattordicenne che, si racconta, venne liberato dal demonio mediante un esorcismo (“a 14-year-old Mount Rainier boy has been freed by a Catholic priest of possession by the devil, Catholic sources reported yesterday” raccontava il Washington Post nel 1949).

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    In questo lavoro di Rondi, ambientato nella Lucania più oscura e bigotta che si possa immaginare, emerge la bellezza sfregiata di Purificazione (Purì o Purif, in molte parti del film) contrapposta ai paesani rozzi, quale singolare simbolo dell’emarginazione del diverso. Una donna sola con la colpa di essere innamorata di un uomo già promesso, e di essere processata per questo dalla folla inferocita che mai, del resto, è entrata in empatia con lei.

    A differenza di altri film incentrati sul sovrannaturale, sulla propaganda religiosa o sullo splatter in quanto tale, emerge piuttosto la medesima, potente, critica sociale che potremmo esprimere oggi leggendo l’articolo, un po’ ingenuo, appena citato. Articolo che spiega, tra l’altro, la mia generale diffidenza nei confronti di questo sottogenere di horror, che cade (spesso, non sempre per fortuna) nell’errore di sembrare veicolato a messaggi catechizzanti – per non dire peggio. Errore che, a mio avviso, “Il demonio” non commette affatto, visto che il regista è particolarmente attento a ciò che mostra.

    Se questi presupposti ne fanno un film più “politico” (e più significativo) di altri banali e ripetitivi epigoni del genere, numerosi sono i riferimenti etnologici che lo rendono significativo. La cerimonia per scacciare la pioggia, ad esempio, oppure la celebrazione di un antico matrimonio o, più in generale, un curioso mix di religione e superstizione che il registra mostra nel dettaglio. Il lavoro si basa, del resto, sulle ricerche del professor De Martino dell’Università di Cagliari, e questo elemento di approfondimento vive in misura maggiore di qualsiasi altro horror, tanto da far pensare ad un vero e proprio documentario. Del resto ridurre Il demonio ad un mero lavoro di genere sarebbe pesantemente riduttivo, anche perchè manca la spettacolarizzazione dell’orrore tipica di questi casi.

    L’unica sequenza potentemente demoniaca, del resto, è avanti di oltre dieci anni rispetto a ciò che vedremo in seguito: il tentativo di esorcismo in cui la protagonista cammina con la spider walk resa celebre da Friedkin (ma questo film esce molto prima de “L’esorcista”; parte della scena è questa), senza contare che successivamente inizia a parlare col prete in una lingua ignota. Paradossalmente, se vogliamo, il focus dell’azione è più concentrato sulla rappresentazione del contesto, sulle tradizioni vive, sui popolani dalla gogna facile o sulla famiglia ambigua della protagonista che, di fatto, sull’elemento demoniaco in sè. Il riferimento all’esorcismo (racchiuso in poche, essenziali ed efficacissime sequenze) non serve solo a far spaventare (cosa che, a mio avviso, il citatissimo lavoro di Friedkin prova a fare fino alla nausea): le pratiche anti-demoniache sono rappresentate quasi razionalmente, quale segno di una frustrazione latente e come forma di abusi fisici e mentali, per non parlare del fatto che la protagonista è una donna avvenente (i paesani che la demonizzano sono gli stessi che vorrebbero, spesso, abusare di lei). In uno scenario del genere, pertanto, chiedersi se Purificazione sia realmente posseduta, affetta da una malattia o solo esasperata diventa una questione quasi di poco conto.

    Il saper miscelare più generi di Brunello Rondi (dramma, gotico, documentario) è forse il più consistente punto di forza del film. Possiamo solo immaginare l’ennesima violenza, l’ennesimo misfatto confessato, l’ennesimo stupro commesso ai danni di una protagonista vittima di se stessa, della propria passione e, magari, di qualche disturbo mentale. Di contro, una comunità ottusa che vive di superstizione e culti di facciata, che non capisce e non può, per definizione, capire. La sequenza della confessione in pubblico dell’intero paese, in cui vengono riconosciuti sia un furto che un caso di incesto, è la stessa in cui l’esasperazione di Purì arriva al culmine della teatralità, richiamando a più riprese le migliori sequenze di “Non si sevizia un paperino” (Fulci deve probabilmente più di qualcosa a questo film).

    Al tempo stesso la sua avvenenza (per la cronaca, la Lavi girò anche La frusta e il corpo) la fa diventare un facile capro espiatorio delle frustrazioni e delle ipocrisie di una società arcaica e brutale. Quella che doveva essere solo frustrazione per un amore non corrisposto si trasforma in un’attitudine antisociale, che alimenta le ostilità degli abitanti e si tinge, peraltro, di qualche cenno allucinatorio (Purì che crede di parlare con il ragazzino che morirà qualche momento dopo).

    A poco varranno i tentativi di redenzione esplicati dalla protagonista, che anzi precipiterà in un vero e proprio incubo dalle dimensioni crescenti, che culmina in un finale tragico (e anche piuttosto amaro). Una modalità narrativa non nuova, quella della donna sola e perseguitata in un ambiente gretto e (almeno in parte) maschilista, anch’essa splendidamente espressa da Lucio Fulci qualche anno dopo (“è lei a maciara, ha fatto ‘o malocchio su ‘e ccase nostre“, dice qui uno dei personaggi) e, in tempi più recenti, ad esempio da Dogville di Lars Von Trier (anche lì i paesani mal sopportano la presenza della protagonista, e ne abusano a più riprese).

    Un grande film da rivedere e riscoprire senza esitazione, adatto anche a chi non amasse prettamente l’horror e le sue tematiche.

  • Il rosso segno della follia: Mario Bava sovverte i canoni del genere

    Il rosso segno della follia: Mario Bava sovverte i canoni del genere

    Il responsabile di un atelier di moda, apparentemente elegante e rispettabile (John Harrington), è in realtà un folle serial killer che uccide a colpi di mannaia le proprie vittime…

    In due parole. Un giallo all’italiana condito di elementi gotico-sovrannaturali, che riesce a colpire lo spettatore pur sovvertendo uno dei cardini del genere (l’assassino viene rivelato dopo neanche due minuti). Una buona dose di humor nero ed il tocco di classe del grande regista completano il quadro.

    Qualcuno sta camminando in punta di piedi nel mio cervello...”

    Un’accetta per la luna di miele” – circolato anche con il titolo italiano “Il rosso segno della follia” rappresenta una sorta di studio d’atmosfera sul giallo nostrano, che nel periodo sarà estremamente prolifico ed efficace. Tuttavia qui, a differenza dei grandi cult in cui l’assassino viene rivelato solo alla fine – quando non negli ultimi fotogrammi – Bava si prende il lusso (a ragion veduta) di divagare sul tema, mostrando la vicenda dal punto di vista del responsabile dei delitti, soggettivizzando a tal punto l’intreccio che, ad esempio, il meccanismo per provare ad incastrarlo è ignoto fino alla fine a lui come a noi. Numerose – e di rilievo – quindi le differenze rispetto ai classici del genere, ed è questo che – a conti fatti – rende di grande interesse la pellicola ancora oggi: John Harrington è dichiaratamente un maniaco, un po’ come un Henry ante-litteram, solo un po’ più avvolto in una poetica prettamente gotica, oltre che da ossessioni infantili (il carillon) che sono alla base dei suoi comportamenti.

    Dopo aver visto il film sarà impossibile, del resto, non riportare alla mente quel Profondo rosso che tanto deve, come tutto il cinema di Argento alla fine, proprio al maestro Mario Bava; e questo naturalmente fa parte del gioco di ispirazioni, citazioni e ricordi visivi che hanno fatto il cinema di genere tutto, il quale da sempre vive di rielaborazioni continue (peraltro non sempre apertamente tributate). “Il rosso segno della follia“, senza eccedere in gore e sangue, anzi calibrando con efficacia il ritmo di una storia costruita su personaggi ben studiati e magnetici (ad esempio Dagmar Lassander, affascinante quanto sicura di sè), rappresenta forse uno dei migliori – e meno noti – film di Mario Bava.

  • Nascosto nel buio: contiene una delle migliori interpretazioni di Robert De Niro

    Nascosto nel buio: contiene una delle migliori interpretazioni di Robert De Niro

    Uno psicologo (Robert De Niro) assiste al suicidio della moglie; sconvolto dal dolore decide di far cambiare aria alla piccola figlia (Dakota Fanning), e si trasferisce in una zona apparentemente tranquilla. E’ a questo punto che farà sentire la sua presenza Charlie, un misterioso personaggio di cui non è chiara la natura (un amico immaginario?) che sconvolgerà ulteriormente le loro esistenze …

    In breve. Un thriller “commerciale” piuttosto nella norma, che vive di situazioni canonizzate nel cinema di questo tipo (e di questi anni), e che spaventa più che altro per i colpi di scena senza preavviso. Neanche troppo pauroso nè eccessivamente violento, può essere un buon modo per approcciare al genere per chi è poco avvezzo al sangue (ed alle trame contorte). De Niro superbo come sempre, Dakota Fanning perfetta come archetipo di “bambina inquietante”.

    Poco da raccontare su questo discreto film di Polson: buona padronanza della macchina da presa, pochi e ben definiti personaggi, qualche situazione un po’ “televisiva” ed il giusto livello di intrighi e sospetti. Una citazione ad uno dei classici horror più riusciti di sempre – surprise! ho rimosso una delle immagini in basso perchè altrimenti … – rende  delizioso il “piatto”, ed è davvero impossibile dire quale si tratti senza fare un minimo di spoiler involontario: a dirla tutta, la citazione sembra sostanzialmente involontaria, ma gli spettatori più attenti non mancheranno di coglierla.

    Per quello che posso intuire da onesto profano in materia, gli spettatori psicologi avranno di che discutere dopo aver visto “Nascosto nel buio“, in relazione al tema dell’impossibilità per la ragione di cogliere tutti gli aspetti del vissuto. Da vedere senza esitazione, anche se qualche sbavatura qui e là rende la trama – col senno di poi – abbastanza prevedibile. Per chi conosce a memoria “Tenebre”, “Identità” o “La tarantola dal ventre nero”, “Nascosto nel buio” rimane molto fumo e poco arrosto; per tutti gli altri sarà un gradevole brivido di circa un’ora e mezza, con tanto di doppio finale – o “un finale e mezzo” – a sorpresa.