Salvatore

  • A dangerous method: il film su Freud e Jung firmato David Cronenberg

    A dangerous method: il film su Freud e Jung firmato David Cronenberg

    La storia dell’incontro tra Carl Jung e Sigmund Freud fa ufficialmente nascere la psicoanalisi, e mette in evidenza una relazione controversa tra il primo e una sua paziente – la futura psicoanalista Sabina Spirlein.

    In breve. La nascita della psicoanalisi secondo David Cronenberg, secondo la sua consueta poetica tragico-razionalista, qui ad uno dei suoi zenith espressivi (almeno nella fase recente della sua produzione).

    A dangerous method di David Cronenberg si basa sul romanzo quasi omonimo di John Carr, A Most Dangerous Method, incentrandosi sul tema della controversa relazione tra Carl Gustav Jung e Sabina Spielrein. Il tutto fa da filtro, in qualche modo, perchè si possa delinare la storia della psicoanalisi in tre possibili declinazioni: quella scientifica di Freud, quella più visionaria e misticheggiante di Jung, quella intimamente rivoluzionaria della Spielrein.

    La medesima storia che viene delineata da un altro classico, peraltro, ovvero il Diario di una segreta simmetria di Aldo Carotenuto, e tra i quali si frappone la fredda lucidità scientifica di Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi. Sarebbe limitativo ridurre a questo triangolo la visione del film di Cronenberg, che ritaglia una quantità di pellicola relegandola a delinare la figura di Otto Gross, storicamente critico nei confronti di Freud e “demone tentatore” nel suggerire a Jung di assecondare i propri stessi desideri sessuali repressi.

    La narrazione delinea due piani differenti: da un lato ciò che istituzionalmente le quattro figure rappresentano (si potrebbe pensare a razionalismo, misticismo, innovazione e trasgressione), dall’altro ciò che i personaggi sono nella realtà (repressi, introversi, traumatizzati dall’infanzia, nichilisti o pragmatici). Su questa ambivalenza si fonda gran parte della psicoanalisi, del resto, oltre a porre uno dei dilemmi morali più controversi (e tabù, se vogliamo), ovvero una relazione sessuale tra due persone “incastonate” in ruoli, per loro natura, subordinati (sarebbe lo stesso se la relazione fosse tra allievo e insegnante, ad esempio). Nell’idea di Cronenberg tale relazione sembra non potersi che sviluppare a livello sado-masochista, per quanto poi la relazione tra la Spirlein e Jung sia mostrata in questi termini più che altro per i vissuti traumatici della donna, in relazione alla violenza coercitiva e gli abusi sessuali da parte del padre di lei.

    Quel ricordo traumatico sembra aver costituito le basi della sua stessa sessualità, ed in questo la storia sembra ricondursi alle teorie espresse dallo psicologo contemporaneo Michael Bader nel suo saggio Eccitazione, secondo il quale le nostra fantasie sessuali non qualificano nè possono catturare l’essenza di una persona, ma sono spesso costruite e contrapposte ad un trauma infantile regresso. Non è strano, in altri termini, che una femminista abbia fantasie di dominazione passiva nei confronti di un uomo potente, o che un manager sicuro di sè si ecciti facendo lo slave, proprio perchè si tratta di immagini mentali che fanno trasudare un probabile vissuto traumatico (genitori autoritari, ad esempio) a cui, in qualche modo, si prova a risolvere costruendo sicurezza. E dato che – conclude Bader – senza sicurezza non sembra realmente possibile esprimere la propria sessualità, appare chiaro come la relazione oggetto del film fosse in qualche modo ineluttabile.

    Del resto, tornando al film, Jung appare felicemente sposato con una donna mite, affidabile e riservata negli atteggiamenti, ma lo vediamo coltivare un’attrazione inconfessabile per una paziente schizofrenica: attrazione che troverà sbocco in una relazione tra padrone sadico e paziente sottomessa, alla luce delle informazioni che la stessa ha riconosciuto durante la propria terapia.

    Rapportato ai tempi una cosa del genere era (e rimane ancora oggi) inconcepibile, chiaro oggetto di gossip nella migliore delle ipotesi: il problema che fa emergere il regista è che rischia pure di minare la credibilità della psicoanalisi stessa (tanto che la storia della relazione è uscita fuori, a quanto pare, solo postuma, mediante il carteggio ricostruito nel libro di Carotenuto). La ricostruzione cronenberghiana è in questo frangente semplicemente perfetta, proprio perchè mostra un dramma irrisolvibile: per quanto uno psichiatra possa fare appello alla propria etica professionale, infatti, l’amore e il sesso sono soprattutto istinto, ed è come se il film suggerisse che da certi sentimenti erotici tempestosi non si possa sempre evitare di essere travolti (su questo bisognerebbe scrivere un romanzo, probabilmente, o affidarsi ai riferimenti bibliografici su transfert e contro transfert).

    Che A dangerous method sia un film banale, a questo punto, dovrebbe essere chiaro che è l’esatto opposto, per quanto lo stile narrativo sia tutt’altro che inaccessibile o da film d’essai. Ancora oggi gran parte dei dilemmi posti rimangono, per quello che vale, profondamente dibattuti – o del tutto irrisolti.

    Cronenberg prova a mettere ordine tra le varie componenti, senza schierarsi esplicitamente con nessuno dei soggetti, per quanto si ravvisi una piccola empatìa verso Otto Gross, l’elemento di rottura tipico delle storie del regista canadese, interpretato da un mefistofelico Vincent Cassel.

    Nella valutazione complessiva dell’opera non si possa prescindere dall’aspetto bibiliofilo (come anche da una conoscenza, anche solo scolastica, del mondo della psicoanalisi), accettando alcune parti chiaramente romanzate rispetto alla storia reale. Ovviamente un film si può guardare  senza avere conoscenze specialistiche, e rimarrà comunque la parvenza di una tragedia in tre atti. Nel primo si prova  a costruire qualcosa, nel secondo si cede alle passioni umane e nel terzo, in un climax ascendente, si arriva a temere che un singolo episodio possa distruggere completamente l’intera scienza.

    È questo il focus che sembra interessare il regista, che resta in grado di mostrare il proprio punto di vista senza orpelli inutili e, soprattutto, raccontando una storia drammatica quanto coinvolgente della più classica delle passioni impossibili. Nello specifico la passione medico-paziente appare inaccettabile (e inevitabile, nello specifico) perchè da un lato le pressioni sociali diventano prima o poi insostenibili per il professionista, mentre dall’altro la paziente rimane nella propria posizione di richiedere aiuto e, di fatto, la sua vita sarà segnata per sempre da quel “primo amore”.

    Per una volta il Cronenberg razionalista di altri film cede il passo ad uno più narrativo, più vicino al pubblico generalista e – non per questo – meno valido. Del resto, non è affatto la prima volta che il regista affronta un argomento prettamente clinico, per quanto ovviamente siamo lontani dagli orrori biologici di Rabid, Brood o – dire soprattutto – Inseparabili, dove era presente un dilemma etico di natura quasi analoga.

    E se in molti hanno pensato a A dangerous method come ad un film incentrato sulla nascita della psicoanalisi è, certamente, una lettura ammissibile, ma credo che sia anche limitativa. Esso infatti non solo esalta le doti dei tre personaggi storici (il razionalismo di Freud, il misticismo propositivo di Jung, la devozione e lo scrupolo scientifico della Spielrein), ma ne propone anche un ritratto umano, con tutti i limiti, mostrando che di fronte ad un tabù c’è poco a cui potersi opporre. Un tabù generale che riguarda la risoluzione e l’opportunità dei rapporti dettati dalla gerarchia, che far deflagare liberamente come suggerito da Gross (peraltro di fede anarchica, a quanto ne sappiamo) rischia di far deflagare una autentica bomba sociale.

    Se il regista canadese ci ha abituato alla rappresentazione più esplicita e orrorifica di queste tematiche, bisogna specificare che A dangerous method fa parte della sua produzione più recente, quella che risulta essere avulsa dal cyberpunk e dalla derivazione body-horror. Non per questo, ovviamente, il film perde il proprio potenziale narrativo, soprattutto nella rappresentazione dell’amore impossibile Jung-Spielrein, da paziente ad amante in un’oscillazione insostenibile e discontinua, fino a degenerare nel più crudele degli amori impossibili (forse dai tempi de La mosca che Cronenberg non proponeva un romanticismo disperato talmente vivido).

    Premesso che la totalità dei riferimenti intimi tra gli amanti Jung e Speilrein sono, ovviamente, di natura speculativa – come Cronenberg stesso specificò alla stampa all’epoca dell’uscita del film – è interessante notare come la narrazione della sessualità repressa del personaggio femminile riguardi un trauma infantile, che poi si traduce in una fantasia sessuale incentrata su quel tema. In questo va anche sottolineata la prova attoriale magistrale di Keira Knightley, che interpreta il delirio del proprio personaggio frapponendo varie pause, respiro ansioso e parole frammentate nel proprio discorso. Cosa che, peraltro, continuerà a fare ogni volta che entrerà nel discorso un qualche riferimento alla sessualità, da lei vissuta in modo ansioso e che solo con Jung riusciva a liberare (da qui il legame nuovamente ansiogeno che ne risulterà in seguito).

    Nello specifico, è proprio la trascrizione della prima seduta tra la Spielrein (all’epoca in cui soffriva di crisi schizofreniche) e Jung (all’epoca devoto sostenitore del metodo freudiano) a descrivere precisamente una sia fantasia erotica (con i tratti di un incubo, per molti versi). Vale la pena riportarla per intero – la traduzione di alcuni passaggi è orientativa, proprio per via dello stile recitativo adottato – perchè serve, a mio avviso, già da sola a spiegare gran parte del senso del film.

    Può spiegarmi perchè le sue notti sono così difficili?

    Ho paura.

    Di cosa?

    C’è qualcosa nella stanza. Qualcosa come… un gatto, solo che può parlare. Entra nel letto assieme a me. L’altra notte ha iniziato a sussurrarmi qualcosa nell’orecchio. Non riuscivo a sentire. Ma poi.. lo sentivo … l’ho sentito contro la mia schiena. Qualcosa di viscido, come una specie di mollusco, che si muoveva sulla mia schiena. Ma poi quando mi sono girata non c’era più niente.

    Si muoveva sulla sua schiena?

    Sì.

    Era nuda?

    Sì.

    Si stava masturbando?

    Sì.

    Mi racconti della prima volta in cui ricorda di essere stata picchiata da suo padre.

    Suppongo che sia stato quando avevo quattro anni. Per sbaglio ho rotto un piatto, e lui mi ha detto di andare nello stanzino e di togliermi i vestiti e poi… è arrivato lui. E mi ha sculacciata. Ed ero così spaventata che mi sono bagnata, e lui mi colpiva ancora. E allora io…

    Quella prima volta… come si sentiva riguardo a quello che stava succedendo?

    Mi piaceva.

    Può ripetere per favore? Non ho sentito bene.

    Mi piaceva. Mi eccitava.

    E continua a farlo?

    Sì! Sì! E allora ogni volta che mi diceva di andare nello stanzino cominciavo ad essere bagnata. Quando andava dai miei fratelli … solo… li minacciava… mi bastava quello. Dovevo andare sotto, dovevo stendermi e toccarmi. Più tardi a scuola, qualsiasi cosa… l’avrebbe scatenata, qualsiasi… qualsiasi tipo di… umiliazione. Ho cercato qualsiasi… umiliazione. Anche qui quando tu… colpisci il mio… il mio cappotto con il tuo bastone. Dovevo tornare subito, ero così… emozionato. Non c’è… non c’è speranza per me. Sono abietta… e… oscena e… sporca! Devo… non devo mai essere lasciata uscire di qui!

  • L’arcano incantatore: l’horror di classe di Pupi Avati

    L’arcano incantatore: l’horror di classe di Pupi Avati

    Un giovane seminarista perseguitato dalla chiesa fa un patto col diavolo per salvarsi: viene così inviato da un misterioso individuo, a suo tempo scomunicato per aver divulgato e studiato vari libri all’indice. L’atmosfera si rende subito sinistra, mentre il protagonista si lascia travolgere dagli eventi…

    In breve. Gotico all’italiana con lo stile, inconfondibile, di Pupi Avati, ed innumerevoli suggestioni argentiane: forse uno dei più incisivi e meglio realizzati horror del periodo.

    Se dovessimo indicare un horror italiano di quelli da rimpiangere nostalgicamente, sicuramente questo singolare gotico di Pupi Avati avrebbe la sua parte di rilievo. Superiore alla media delle produzioni del periodo, in un momento in cui il periodo d’oro di Argento e Fulci stava declinando o era, di fatto, già in declino, L’arcano incantatore riprende apertamente il meglio delle produzioni gotiche all’italiana (per intenderci Bava, Margheriti e compagnia) e ne tira fuori un prodotto originale, seppur (a voler trovare dei difetti per forza) con qualche pecca recitativa (a mio avviso perdonabile, nel contesto narrativo in cui ci si colloca).

    Certo Avati dimostra di saperci fare con il genere, proponendo un crescendo narrativo che è quasi interamente un flashback e che, nonostante possa apparire vagamente “telefonato” allo spettatore più avvezzo al genere, fa la sua figura più che dignitosa oggi. La figura del protagonista (uno Stefano Dionisi già visto in Non ho sonno, ad esempio) si erge nella propria duplice veste di perseguitato e colto seminarista, capace di suscitare empatia nel pubblico nonostane la sua sorta appaia segnata fin dall’inizio. Il patto che ha stipulato per provare a salvarsi la vita è un accordo col maligno, che certamente ha fatto i propri conti e che mostrerà progressivamente una rete di inganni. Per Avati, questo contesto sovrannaturale sembra ideale sia per costruire atmosfere lugubri nella nostra terra (siamo in Umbria, in particolare), sia per sottintendere una critica alla chiesa dell’epoca, peraltro senza calcare troppo la mano su questo aspetto ma limitandosi (si fa per dire) a fare un buon horror all’italiana. Generazioni successive di registi horror finiranno per prendere spunto da questo film, che potrebbe piacere anche al grande pubblico dei non prettamente appassionati del genere.

    Come suggerito da alcuni, del resto, L’arcano incantatore media, in un certo senso, i migliori aspetti dai precedenti La casa dalle finestre che ridono (soprattutto nel sinistro finale e nella sua ambiguità sorprendente) e dell’insuperabile Zeder (soprattutto nelle atmosfere, ma anche nei riferimenti, abbastanza celati, al ritorno dalla morte). Avati ci sa fare e colpisce nel segno, con un pieno di echi argentiani (il protagonista ossessionato dalla sua stessa storia, su tutti) che a ben vedere derivano più propriamente dalla tradizione gotica di Mario Bava.

  • Melancholia: il dramma della depressione secondo Von Trier

    Melancholia: il dramma della depressione secondo Von Trier

    Il pianeta Melancholia minaccia di avvicinarsi alla Terra; nel frattempo, Justine sta celebrando il proprio matrimonio…

    In breve. Incursione del regista nel genere apocalittico, ovviamente a modo proprio: si parte dal ricevimento del matrimonio della protagonista, e si prosegue la narrazione sui più cupi toni. Sullo sfondo, un pianeta che minaccia di andare in collisione e distruggere la Terra. Rientra nel genere del “più discusso che visto“, soprattutto per via delle dichiarazioni controverse di Von Trier che lo fecero espellere da Cannes.

    Un film ingiustamente sottovalutato per via della concomitanza con le dichiarazioni shockanti del regista a Cannes, che gli valsero l’espulsione dal festival; questo ha finito per mettere in ombra la sostanza del lavoro, per cui certa critica (ad esempio Maltese) è arrivata a farlo passare con disprezzo per apologia di nazismo, evitando accuratamente di menzionarne i meriti (la forza del personaggio protagonista, la narrazione apocalittica stravolta rispetto alla tradizione, il riferimento a Shakespeare), e dando un’immagine sostanzialmente fuorviante del tutto, maltrattato neanche fosse realmente aderente al cinema del Terzo Reich.

    Ovvio che le frasi del regista pro-nazismo (in risposta provocatoria ad una domanda sulle sue origini tedesche) sono state problematiche ed imbarazzanti, ma resta il fatto che i film vanno visti e vanno giudicati per quello che sono, non sulla scia di dichiarazioni di contorno – per quanto controverse (e poco chiarite in seguito) siano state. Il rischio, infatti, è quello di farsi strumentalizzare una virgola ed oscurare il restante 99%, caso tipico, peraltro, di molti degli artisti più meritevoli.

    Se è vero che il cinema di propaganda rappresentava realtà artefatte al fine di mantenere alto l’umore della folla, quest’opera di Von Trier fa l’esatto contrario: immerge senza pietà il pubblico negli spaventosi fantasmi della depressione, canalizzandoli come un pianeta portatore di distruzione. Un male che è risaputamente difficile da raccontare, e che il regista decide di accompagnare con l’esposizione, ben nota, della sua consueta filosofia nichilista: è questo a rendere forse “indigesto” questo Melancholia che, come valore assoluto, resta un film pregevole e di grande livello. Il regista decide di narrare la storia mediante discorsi prevalentemente indiretti, facendo affidamento sulla mimica della Dunst e su relazioni tra i personaggi sempre ambigue e bivalenti: può piacere o meno, ma dal punto di vista artistico la scelta è impeccabile.

    La narrazione lavoro molto sugli accenni, sui riferimenti detto/non detto, soprattutto attraverso l’interpretazione magistrale della protagonista, per cui il pianeta Melancholia, in inesorabile avvicinamento alla Terra (probabilmente ispirato al pianeta ipotetico Nibiru), diventa un simbolo puro di ineluttabile autodistruzione. Cosa ancora più significativa, il finale viene subito mostrato al pubblico, con la sequenza di Melancholia che ingloba il nostro pianeta e scatena l’Apocalisse, anticipando un finale che poteva essere clamoroso (ed obbligando il pubblico a concentrarsi sul resto del film). In quest’ottica, l’interesse di Justine per l’astronomia da un lato, e la cieca fiducia nella scienza del cognato dall’altro, assumono una valenza tragica e grottesca al tempo stesso, ed andrebbero letti esclusivamente in quest’ottica.

    Melancholia simboleggia la più crudele depressione (la stessa vissuta in prima persona dal regista, all’epoca) nella figura controversa di Justine, sposa solo apparentemente felice, che senza una reale ragione si farà sopraffare da un malessere nichilista giusto il giorno del suo matrimonio. Lo stesso personaggio che, quasi incredibilmente, saprà mantenere la calma più assoluta pur consapevole della fine imminente, emulando così il comportamento tipico degli affetti da depressione. Personaggio di grande spessore, peraltro, poichè ispirato all’Ofelia di Shakespeare così come rappresentata nel dipinto di Millais (e che nel film possiamo vedere rievocata all’inizio). Non siamo ai livelli sublimi delle conflittualità espresse in Antichrist, per intenderci, e questo film soffre di qualche problema di ritmo (tutto, nello svolgimento, è rallentato fino all’inverosimile): perdonabile, tutto sommato, se si considera quale pregevole incursione – solita fotografia spettacolare, per inciso – di Von Trier nel genere apocalittico puro, passata purtroppo inosservata da molti, oltre che snobbata per via dei problemi sopra menzionati.

    Ho molta paura di quello schifo di pianeta.

    Quello schifo di pianeta? Quel meraviglioso pianeta vorrai dire. Prima era nero, adesso è blu, copre Antares…

  • Frontiers: un horror politico riuscito solo a metà

    Frontiers: un horror politico riuscito solo a metà

    A Parigi scoppia il caos in seguito all’annunciata elezione di un canditato di estrema destra: nel frattempo un gruppo di ragazzi sta fuggendo da una tentata rapina, al fine di trovare scampo fuori città. Troveranno presto il posto sbagliato in cui fermarsi…

    In breve. Una prova di horror francese valida, a ben vedere, più nella forma che nella sostanza. Lo spettatore è avvolto da una spirale di tensione e crudeltà, in trepidante attesa di una liberazione che assume, nelle intenzioni del regista, più di un significato. Strizza l’occhio a Non aprite quella porta, ma il capolavoro di Hooper resta ineguagliato in larga parte, mentre i sottotesti infilati in questa storia finiscono per appesantire in modo artificioso la trama.

    La caratteristica più singolare di questa pellicola di Gens, probabilmente, risiede nel suo volersi mostrare politicamente schierata: sulla carta, almeno, di tratta di demonizzare la follia nazista, in particolare simboleggiandola attraverso la violenza di un gruppo di psicopatici. Nella pratica pero’, al di là delle facili euforie che vivranni alcuni spettatori, il risultato rischia di far sollevare più di un sopracciglio: ambientando le vicende in uno scenario tanto realistico quanto caotico, il regista delinea la storia di un gruppo di disperati improvvisati rapinatori, oppressi da problemi sociali e personali di vario tipo (provengono dalle banlieue parigine). L’inizio del film, di fatto, ricorda infatti più un film da cineforum che un horror tradizionale: e, in effetti, lo scollegamento tra premesse e conseguenze appare forzoso dopo circa mezz’ora, in tutta la sua interezza.

    Senza voler virare su spoiler che brucino le sorprese che “Frontiers” riserva, è importante sapere che le dinamiche sono non tanto quelle del torture-porn – un termine che è stato usato talmente a vanvera da non significare più nulla – quanto quelle del rapporto “preda-predatore”. Se si trattasse solo di questo, in verità, sarebbe l’ennesimo rehash de “Non aprite quella porta“, con i cattivi che attendono in modo estenuante l’arrivo della vittima, nella consapevolezza di essere inattaccabili e onnipotenti. Sai che novità: ma questo, secondo Gens, si presta già di suo ad interpretazioni politico-sociali, tanto che il gruppo di folli viene schematizzato come una famiglia tradizionalista e dalla morale distorta, in grottesco contrasto con i metodi poco ortodossi che utilizzano per massacrare esseri umani. Ma è davvero tutto qui?

    Nell’analisi non dobbiamo perdere di vista un altro aspetto: siamo pur sempre in un horror, il ritmo avverte dei “buchi” clamorosi soprattutto nella prima fase, si attende fin troppo il momento della mattanza (e della rivalsa) e c’è un po’ il rischio, a mio parere, che lo spettatore si ritrovi con troppa carne al fuoco da dover gestire e vedere. Dopo una seconda visione di questo film, in effetti, mi è venuto spontaneo chiedermi se per caso la lettura socio-politica del film non sia altro che – udite, udite – un’enorme ed inutile forzatura. Del resto le due parti di  “Frontiers – Ai confini dell’inferno” – la fuga da un lato, e l’arrivo in “zona maniaci” dall’altro – sembrano essere apertamente scollegate tra loro, creando una discrepanza che – mutatis mutandis – avevo riscontrato in modo similare anche ne “Il profumo della signora in nero“.

    Rappresentare dei “parenti” stretti di Leatherface e compagnia e renderli filo-nazisti poteva essere accattivante, eppure il modello di “famiglia ariana” ostentato mal si concilia, ad esempio, con la stessa immissione in famiglia di una ragazza sconosciuta (!) incinta di un uomo che non è il marito (!), senza contare che Karina Testa è pure di origine algerina. Arianesimo? È facile farsi trascinare da facili entusiasmi in queste circostanze (il film è stato osannato abbastanza incondizionatamente dalla critica), nè non ho intenzione di sminuire gratuitamente una pellicola che, sia chiaro, possiede almeno un paio di sequenze che valgono il prezzo del film.

    Bisogna pero’ riconoscere che azzardi del genere, spinti a far assumere una valenza al film che difficilmente avrebbe mai avuto, fanno forse più male che altro. Il finale riesce a consolare lo spettatore pignolo nel suo un epico crescendo splatter, mostrando comunque una faccia dell’horror che rischia di assumere una valenza quasi pomposa. La sintesi è quindi che Gens possa aver, nonostante le buone intenzioni, parzialmente mancato il bersaglio, e questo per quanto l’impianto complessivo del lavoro regga, e soprattutto sappia intrattenere.

    Una pellicola dominata da un cupo pessimismo di fondo, dunque, con una Karina Testa in un’interpretazione degna di una scream queen di altri tempi (di questo possiamo dare atto senza remore, a mio avviso). È anche vero che Frontiers, in modo più debole di A Serbian Film, sottintende un sottotesto politico (im)preciso che, a confronto della pellicola citata, sarebbe stato invece essenziale per valorizzare il film stesso (se definito meglio). La famiglia governata dall’inquietante Padre, che ricorda pesantemente il gerarca de “Il maratoneta” e ne ricalca le crudeltà all’ennesima potenza, in certi casi rischia di sembrare involontariamente caricaturale. Un archetipo di villain che spaventa con tutti i limiti del caso, e che rimane un personaggio discretamente costruito così come l’immancabile e sadica “femme fatale” modello “La casa dei 1000 corpi“.

    In conclusione questo è il tipico film che saprà variegare le opinioni del pubblico e questo, probabilmente, è il suo miglior pregio. E se è vero che in media stat virtus, probabilmente si tratta di un discreto horror che, con qualche elemento riassemblato, sarebbe stato molto, ma molto più incisivo.

  • Il signore del male: potrebbe essere uno dei migliori film di John Carpenter di sempre

    Il signore del male: potrebbe essere uno dei migliori film di John Carpenter di sempre

    Pellicola apocalittica della celebre Trilogia del regista americano, probabilmente uno dei migliori in assoluto della sua filmografia.

    Noi abbiamo venduto il nostro prodotto… un enorme inganno, questa era la verità, è stata tenuta nascosta fino adesso

    Un professore di fisica (Howard Birack, interpretato da Victor Wong) seleziona un gruppo di studenti per analizzare il contenuto di una teca, custodita segretamente dalla Setta del Silenzio all’interno di una chiesa; un gas verdognolo che manifesta inaspettate proprietà biologiche. Il gruppo si recherà sul posto per analizzare la situazione, ma qualcosa nell’aria sta cambiando: in particolare  decine di persone sembrano fissare ininterrottamente la luna, in posizione molto vicina al sole…

    Carpenter sa come raccontare una storia, e lo dimostra dall’inizio quando, in pochissime sequenze, riesce a descrivere l’attrazione di Brian verso Catherine. Il tema del film riguarda una sorta di rivelazione, sia in senso terreno che extra-sensoriale, ed ha l’obiettivo di mostrare – in modo orrorifico – la natura fallace della religione e, al tempo stesso, gli aspetti spaventosi legati alla Verità che la chiesa cattolica avrebbe tenuto nascosta per due millenni. Prendendo in prestito una sorta di teoria complottista Carpenter tiene in sospeso lo spettatore con grande maestria, mostrando un plot per certi versi prevedibile ma, per altri, decisamente incalzante e coinvolgente (soprattutto nel finale).

    Partendo dalla passione del regista per la fisica quantistisca, e prendendosi qualche licenza “poetica”, ciò che viene mostrato è incentrato da un lato sul paradosso del gatto di Schrödinger (citato all’inizio nei discorsi degli studenti), e dall’altro sulla dualità onda-particella e materia/anti-materia. Se le entità sovrannaturali sono “fatte” in qualche modo di materia, ed ammettendo che le anti-particelle non trovino posto nell’universo osservabile, si puo’ dedurre che esista una sorta di anti-Dio che aspetta soltanto di emergere tramite un mezzo (uno specchio).

    Cristo… viene per combatterci, era un essere di origini extraterrestri, ma avevo l’aspetto di un uomo…

    Licenze poetiche? Luoghi comuni abusati da b-movie? Scempiaggini scientifiche costruite ad arte? Poco importa: il film è ben costruito, e vive di una propria solida credibilità. Riprendendo il leitmotiv dell’assedio di un gruppo di persone da parte di un gruppo di barboni posseduti dalla “cosa”, “Il signore del male” fa provenire il male dall’esterno, come nella tradizione del pantheon lovecraftiano nel quale gli uomini, a dispetto del proprio conclamato scetticismo, diventano vittime sacrificali di una crudeltà assoluta che si scatenerà contro di loro. E, come sempre nel regista e nell’autore americano, senza un vero e precisato motivo, se non quel vago “senso di colpa” indefinibile che attanagliava lo scrittore di Providence nel narrare “Nyarlathotep“.

    Senza contare “Il seme della follia”, si tratta probabilmente del film più “filosofico” e “lovecraftiano” in senso stretto di John Carpenter. Un altro aspetto molto importante è legato ai sogni: mediante essi le entità comunicano con gli inquilini dell’edificio (dal futuro) ricorrendo ad una premonizione che ricorda il filmato pre-registrato di una videocassetta.

    Innumerevoli, in effetti, i riferimenti e le citazioni che si possono cogliere nel film, tra cui – per fare un esempio – quello al Dario Argento di “Inferno” nella scena in cui il barbone uccide con la lama di una forbice uno degli studenti, assediato da un numero impressionante di enormi insetti. Tale scena richiama quella in cui l’antiquario Kazanian viene assalito da una miriade di topi a Central Park, ed un venditore di hot-dog accorre esclusivamente per colpirlo a morte. Se questo non vi basta, Carpenter gioca con le dinamiche survival dei film di zombie, forse per la prima ed unical volta nella propria carriera, e ad un certo punto Ann Yen (Lisa, colei che cerca di interpretare il libro che spiega la Verità nascosta) scrive monotonamente al computer ricordando le movenze di Jack Torrance/Nicholson in Shining!

    Il signore del male” dunque, con i suoi pregi di espressività ed intreccio, e con qualche difetto di banalizzazione scientifica che non piacerà ai fisici di professione ed agli amanti di Hollywood, è, a mio parere, un cult pienamente apprezzabile anche oggi. Tra gli interpreti, un poco espressivo Jameson Parker, un Lisa Blount intensa e convincente (scomparsa nel 2010), un immenso Donald Pleasance nella parte del prete; special guest, Alice Cooper.