Salvatore

  • Profondo rosso: recensione in 1099 parole (con foto dei luoghi)

    Profondo rosso: recensione in 1099 parole (con foto dei luoghi)

    Il capolavoro di Dario Argento, forse la migliore sintesi di tutti i suoi ingredienti orrorifici e di suspance.

    In breve: il capolavoro del giallo-horror, la sua espressione più nota al grande pubblico. Un successo internazionale che consacra Argento come mago dell’orrore e della suspance.

    Magia. Il solo modo per definire oggi “Profondo rosso“, pur rischiando di sconfinare nella più stereotipata e vuota retorica: un capolavoro senza tempo, la summa della perfezione del cinema thriller, che si contamina con l’horror senza dimenticare, come invece accade oggi, le sue radici puramente giallistiche. Ancora adesso osannato dai fan del genere (e non solo) e da parte della critica cosiddetta seria, ivi compresi gli spettatori più smaliziati che ogni volta si divertono ad evidenziare le incongruenze e le ingenuità dei cosiddetti b-movie. Profondo rosso, pur essendo assimilato ad un certo sottogenere horror che non faceva dei budget elevati il proprio punto di forza, non dovrebbe nemmeno rientrare nella categoria essendo, per sua definizione, forma e sostanza, fuori norma.

    Ma qui non si puo’ scomodare la serie B per nessuno motivo: si rischia di fare un torto enorme a quello che diventerà, da questo momento in poi, il guru del cinema “di paura” nostrano. Ancora devo conoscere una persona che osi – è proprio il caso di dirlo – trovare un aspetto discutibile o fatto male in questo autentico masterpiece del terrore: il fiore all’occhiello di Dario Argento, senza dubbio la sua opera più amata e più ricca di sequenza indimenticabili.

    Da un lato viene rappresentata la normale ordinarietà di un musicista jazz (Marcus/Hammings), di una giornalista attratta da lui (Gianna/Daria Nicolodi), di un commissario di polizia che indaga su una morte misteriosa e di qualche altro personaggio apparentemente qualsiasi: dall’altra la sofferenza del debole musicista Carlo, l’identità di un assassino crudele (uno dei più inquietanti mai realizzati nel cinema, a mio modesto parere), l’incontro casuale con il Male della medium (Helga/Macha Merìl) che lo identifica e ne rimane traumatizzata (oltre che uccisa). Altri marchi di fabbri caratterizzanti il giallo: personaggi che pervengono alla verità componendo frammenti di ricordi. Vittime che vengono colpite a morte spaccando, tipicamente, infissi delle finestre.

    Tra le scene di culto: la rassegna di armi del maniaco in primissimo piano su una stoffa rossa, la morte attraverso le schegge di una finestra, la decapitazione con una collana impigliata nell’ascensore, i denti di una vittima sfracellati sullo spigolo di un camino, un pupazzo a molla che preannuncia l’arrivo del maniaco, i sadici colpi di machete sul corpo di una donna, l’ustione con successivo annegamento nella vasca da bagno. Un campionario dell’orrore che culmina con la lucertola trafitta da uno spillo, il disegno murato nella “casa del bambino urlante“, lo specchio “rivelatore” della verità (anche in chiave psicoanalitica: per scoprire la verità dobbiamo guardare dentro noi stessi, anche a costo di rivelazioni dolorose o sgradevoli), una testa spappolata sotto la ruota di una Lancia Beta Cupè, un corpo trascinato da un autocarro Fiat 643: in altre parole il film in toto, nel suo incedere chirurgico, crudele ed incalzante, per la bellezza di due ore di incredibile Cinema.

    Profondo rosso” si sviluppa come una spira velenosa, un serpente affascinante e pauroso al tempo stesso, che avvolge lo spettatore da più parti facendo scattare un gioco di sospetti, di parole non dette, di confessioni mancate, di insospettabili complici intervallati da esecuzioni macabre, violentissime e mai come adesso “artistiche”. Il killer protagonista conduce i personaggi, in parte consapevoli ma comunque schiavi di un Male subdolo ed incosciente, come un mastro burattinaio, creando i presupposti per uno dei più geniali doppi finali mai concepiti dal regista romano. E questi ultimi, fino ad oggi, sono il suo marchio di fabbrica, il motivo per cui Argento è  da considerarsi anche solo di poco superiore, quantomeno in passato, a tutti i suoi diretti concorrenti (Fulci e Lenzi in primis, ma ovviamente si tratta di confronti solo “di facciata” che non vogliono sminuire nessuno).

    Se avete vissuto sulla Luna fino ad oggi e non avete mai visto Profondo rosso (che mi guardo bene dallo spoilerare, nonostante ci sia un’edizione in DVD che brucia il finale addirittura sulla foto di copertina), basta una capatina nel più vicino negozio o videoteca per rimediare e redimervi dal peccato. Se invece avete già visto Profondo Rosso, adesso vi sembrerà di sentire la colonna sonora dei Goblin: la, la, la, lalala…

    10 curiosità sul film

    Esterni girati a Torino

    Nonostante la storia sia ambientata formalmente a Roma, gran parte degli esterni furono girati a Torino. La scena iniziale nel teatro avvenne presso il sss, mentre gli esterni poco prima del primo omicidio sono nell’attuale piazza CLN, Comitato di Liberazione Nazionale (che all’epoca non aveva un nome, e fu sede delle SS durante la seconda guerra mondiale).

    Eccovi alcune foto recenti di piazza CLN (TO).

    Guanti e primi piani

    I primi piani sono all’ordine del giorno in questo film, tanto da risultare come marchio di fabbrica della regia. Le mani dell’assassino mentre indossa dei guanti sono state eseguite da Dario Argento in persona.

    La sequenza a piazza CLN

    Nella scena ambientata nell’attuale piazza CLN a Torino il personaggio interpretato da David Hemmings esce da un bar di notte per incontrare l’amico pianista: il bar è stato realizzato sulla base del famoso dipinto I nottambuli di Edward Hopper.

    Scene tagliate (e recuperate)

    Dopo gli 11 secondi di restauro effettuati nel 1993 per conto della Redemption, il DVD Platinum ha ripristinato la breve scena del combattimento tra due cani precedentemente scomparsa. La famosa scena della lucertola trafitta da uno spillo è tagliata malamente in alcune versioni. Nella maggioranza delle versioni internazionali le scene sono presenti (immagini tratte da movie-censorship.com)

    Ispirazione

    Stando a quanto dichiarato dallo sceneggiatore Bernardino Zapponi l’ispirazione per la realizzazione degli omicidi è stata guidata dal concepire le maniere più dolorose per procurarsi delle ferite. Il presupposto era che il dolore dovuto ad un urto accidentale con un mobile o una scottatura da acqua bollente fosse più familiare con il pubblico rispetto al classico colpo di arma da fuoco.

    …Suspiria 2

    A causa del grande successo in Giappone di Suspiria del 1977, Profondo rosso uscì col titolo Suspiria 2, per quanto tra i due film non ci sia alcun collegamento.

    I brividi di angoscia

    In Francia il film è uscito col titolo “Les Frissons de l’angoisse”, letteralmente “I brividi d’angoscia”.

    Lo store di Profondo rosso

    In via dei Gracchi a Roma (fermata metro più vicina: Lepanto) esiste il Profondo Rosso Store, il negozio ufficiale di Dario Argento (eccolo su Google Maps). Il regista vi organizza a volte eventi in loco e incontri con i fan.

  • Dillinger è morto: tra sociologia, autorialità e politica

    Dillinger è morto: tra sociologia, autorialità e politica

    Un uomo torna a casa ed inizia a prepararsi la cena: cercando gli ingredienti trova una vecchia pistola arrugginita, che inizia a ripulire e rimontare con cura.

    In breve. Sintetico, enigmatico, semplice nell’impianto quanto ricco di simbolismi e metafore. Una delle espressioni forse più significative di cinema d’autore italiano, in cui succede molto meno di quanto la durata suggerisca ed in cui, soprattutto, ci si concentra sui messaggi socio-politici da lanciare allo spettatore.

    Distribuito per la prima volta al Modern Museum of Art di New York nel 1970, Dillinger è morto è un’opera complessa da analizzare quando semplice nel suo svolgimento: si racconta la serata-tipo di un designer industriale – elegante raffinato ed amante dell’arte – e del suo rapporto con le donne. Un rapporto che, dopo aver visto il film, sembra vivere di pura contemplazione e di assenza quasi totale di contatto fisico con le stesse. All’epoca si parlò di vera e propria political art, visto che l’intero film sembra essere una metafora della società moderna, della schiavitù e del senso di oppressione che induce sugli individui. All’inizio, infatti, vengono apertamente citate le teorie di Herbert Marcuse, a cui il protagonista sembra essere interessato (le maschere antigas come filtro dell’individuo dai veleni moderni, le quali pero’ inducono, come effetto collaterale, ad una macabra omologazione).

    Durante il film, in momenti imprecisabili, sembra avvenire una vera e propria regressione infantile di Glauco, che inizia a giocare con i piccoli dettagli della sua casa (gli oggetti che trova nel cassetto, i pezzi della pistola trattati come fossero ingredienti della sua cena, le immagini proiettate delle donne con cui presumibilmente ha avuto una relazione): il tutto mentre la compagna sussurra pochissime parole, per poi cadere in un sonno profondo. Non finisce qui: arriva anche la domestica di Glauco, con cui sembrerebbe avere una relazione fredda e formale – che poi, inaspettatamente, si consuma in un gioco erotico voyeuristico quanto fiacco (la sequenza con il miele spalmato sul corpo della donna). Nel mentre, Glauco prepara meticolosamente la propria cena e, cercando gli ingredienti, si imbatte in una vecchia pistola incartata in un quotidiano che annuncia in prima pagina la morte del gangster Dillinger.

    Ad una prima analisi, trattandosi di un lavoro complesso (per non dire enigmatico), si potrebbe affermare che Dillinger è morto fu un film disposto più ai pareri favorevoli della critica che ai gusti del pubblico. Critica che, ad oggi, a differenza al passato, probabilmente finirebbe per stroncarlo senza appello, data la pesante presenza di metafore di natura artistico e letteraria, quasi sempre difficili da decifrare quanto emblematiche (ad esempio il protagonista ammicca ad un quadro futurista poco prima di sparare alla moglie).

    Del resto Ferreri (noto soprattutto per la regia del cult La grande abbuffata) possedeva questa natura provocatoria, intellettuale e controcorrente, che lo rendevano non propenso a farsi amare incondizionatamente da chiunque. Il tutto grazie alle sue trame claustrofobiche, rallentate e fortemente teatrali (si indugia sui gesti degli attori molto più di quanto avverrebbe nel cinema espressionista, per intenderci) ed in cui è facile, ancora oggi, smarrire il focus durante la visione. Nonostante questo, il film presenta un aspetto pregevole ed è recitato con grande intensità – soprattutto da Piccoli, abile nel rendere il proprio personaggio indecifrabile, affascinante ma anche inquietante.

    Se si volesse trovare un difetto nel film, osannato come capolavoro un po’ da chiunque (col sospetto che questi ultimi abbiano semplicemente la presunzione di averlo capito), diremmo che certi passaggi rischiano di essere poco comprensibili – per non parlare di una potenziale autoindulgenza del regista (un rischio inevitabile, per resto, quando si girano film sperimentali). Questo avviene soprattutto del finale, in cui il protagonista salpa per Haiti facendosi accettare come cuoco dalla proprietaria dello yacht (Carole André): probabilmente a simbolo di un’avvenuta fuga dalla gabbia in cui si trovava.

    Come in un saggio filosofico o sociologico, il regista (autore anche di soggetto e sceneggiatura, in questa sede) firma un’opera in cui volutamente non succede quasi nulla, per mostrare la decadenza e l’impotenza di un borghese medio che si ritrova, suo malgrado, perso in mille giochi futili: una preparazione interminabile della cena, l’osservazione passiva di corpi femminili con i quali non sa, non può o non riesce ad interagire più di tanto, il montaggio ossessivo e paziente di una vecchia pistola (una Bodeo modello 1889 di tipo A), la visione compulsiva di filmini amatoriali (forse delle proprie vacanze in Spagna) e di bizzarri giochi mimici con le mani (curati dall’artista dell’animazione Maria Perego, nota per aver inventato assieme al marito Federico Caldura il personaggio di Topo Gigio).

    Da notare, poi, l’insistenza delle riprese sul colore rosso: il protagonista indossa un camice da cucina di questo colore, la corrida a cui assiste nel filmino è nota per il telo rosso, c’è anche il rosso su cui virano i fotogrammi nel finale, senza dimenticare l’onnipresente pistola che viene colorata con vernice rossa a pois bianchi. Del resto, nella vera storia del gangster Dillinger, la donna che contribuì a farlo trovare (Ana Cumpănaș) fu nota come Woman in red, un nome scelto dalla polizia americana perchè fosse facile da distinguere grazie al colore del vestito. È facile immaginare che, per la critica dell’epoca, questa ossessiva ripetizione cromatica si prestasse ad interpretazioni prettamente politiche quanto prevedibili (il film è uscito un anno dopo il ’68), e sulle quali il pubblico trovasse (si spera!) spunti di riflessione.
    La moglie di Glauco è interpretata dall’ex groupie dei Rolling Stones Anita Pallenberg, interprete di molti altri film del periodo e nota soprattutto per la sua relazione con Keith Richards. Il film è disponibile in DVD Criterion e in streaming su RaiPlay.
  • La casa del tappeto giallo è un fulgido esempio di giallo all’italiana

    La casa del tappeto giallo è un fulgido esempio di giallo all’italiana

    Sulla falsariga di quanto si vedrà (con risultati decisamente più convincenti) nell’altro semi-sconosciuto La morte avrà i suoi occhi, “La casa del tappeto giallo” (produzione R.P.A. Cinematografica, RAI e SACIS dei primi anni ottanta) indaga psicologicamente sul vissuto dei personaggi, in particolare della protagonista Franca, ossessionata dalla figura del patrigno ed in crisi coniugale col marito. Una terza figura si frappone all’improvviso tra i due, esasperando le difficoltà della donna…

    In breve. Singolare thriller italiano a basso costo, anche di discreta qualità e davvero interessante per certe trovate: non è abbastanza valorizzato dalle interpretazioni e da un’ambientazione troppo poveristica, per cui rischia di annoiare l’appassionato di cinema mainstream, e di confinarsi come oggetto di culto per pochi eletti.

    Tratto da un dramma teatrale di Carlo Selleri (“Teatro a domicilio“), bisogna premettere che ne eredita parte dell’impostazione scenica dato che, al posto di un palcoscenico, è ambientato in un singolo appartamento. Un singolo locale fatto di stanze separate piuttosto rigidamente tra loro, quasi ad evocare l’impianto scenico che potremmo vedere in un dramma, dal vivo, dalla diretta voce dei protagonisti. Questo aiuta fin da subito a costruire un’atmosfera fortemente claustrofobica, che si ispira chiaramente ai fasti del giallo all’italiana (La Dama Rossa uccide sette volte, Giornata nera per l’ariete, Quattro mosche di velluto grigio), con cui “La casa del tappeto giallo” eredita vari punti: i personaggi ambivalenti, gli omicidi efferati, i colpi di scena continui, il doppio finale. Probabilmente, pero’, il genere era già in declino in quegli anni, e forse anche per questo il risultato si fa apprezzare solo fino ad un certo punto: il film di Lizzani riesce a sorprendere soltanto in parte, e probabilmente il suo sottotesto (che è di natura finemente psicologica) si fa apprezzare solo dal pubblico più esigente.

    Un po’ poco per chi divora film di genere ogni giorno senza badare a certi sottosignificati, che magari andrebbero relegati più a documentari di psichiatria che a thriller: idea originale, comunque, a cui va dato atto di aver posto, forse involontariamente, per la prima volta certe idee su uno schermo. E se le spiegazioni labirintiche riescono a piacere e devono, anzi, far parte di questo tipo narrazione, in queste circostanze sembrano vagamente artificiose e fin troppo elaborate, specialmente negli ultimi dieci minuti in cui vi è una vera e propria “gara” al finale a sorpresa (le rivelazioni che ho contato sono almeno quattro, e forse già la terza rischia di stancare). Curioso, poi, il fatto che il film conti solo quattro personaggi attivi (più una comparsata), uscendone comunque in maniera dignitosa.

    Ad ogni modo, se la prima parte del film si carica di presupposti accattivanti, con lo sconosciuto che entra in casa ed inizia ad esercitare la propria pressione psicologica sulla protagonista – ed è qui che evoca tremendamente, secondo me, il duello “mentale” visto ne La morte avrà i suoi occhi, molto simile nei presupposti a questo, per quanto “La casa del tappeto giallo” sia uscito cinque anni prima! – realizzando un buon film che, per carità, non sarà il Funny Games italiano – sarebbe troppo pensarlo – ma è comunque accattivante, fuori dal coro e tarato al punto giusto anche oggi. Il tutto, pur riconoscendone pacificamente i limiti di budget e di recitazione, cosa non da poco in un lavoro di questo tipo, ma tant’è.

  • Grotesque: Shiraishi e il suo splatter insostenibile

    Grotesque: Shiraishi e il suo splatter insostenibile

    Un chirurgo dagli istinti perversi (oltre che estremamente violenti) rapisce un’innocua coppietta allo scopo di seviziarla senza pietà…

    In breve. La trama è più o meno un pretesto: proporre nel 2009 la non-storia di un folle chirurgo amante del sangue e del sesso, di fatto, rischia di ricalcare i più scialbi clichè del genere: il risultato finale prodotto dal regista Kôji Shiraishi (lo stesso di Noroi – The curse – tutta un’altra storia, per la verità) non è completamente da buttare, ma possiede difetti grossolani e sconfina parecchio nella monotonìa e nella violenza fine a sè stessa. Da guardare con (molta) cautela e considerare, a mio avviso, un esperimento malriuscito – o se preferite, un’occasione persa.

    “Eccitami con la tua voglia di sopravvivere.”

    Grottesco: letteralmente indica qualcosa di “insolitamente deforme e innaturale, bizzarro, inspiegabile e caricaturale al punto tale da andare contro il senso comune, innescando una comicità allibita“. Questa definizione rischia di far sembrare questo monocorde delirio visivo di Shiraishi ciò che non è: ciò che rimane allo spettatore dopo la visione, nella maggioranza dei casi, sarà un senso di scialbo nichilismo oppure – in molti casi – di vuoto disgusto. Un film vietato in Inghilterra, stroncato a mani basse dalla maggioranza della critica e che, effettivamente, non racconta nulla di memorabile: senza contare che, inoltre, l’intento sottilmente sotteso alla storia (contrapporre la solitudine lacerante e psicotica del maniaco al feeling dolce e bambinesco di una coppia al primo appuntamento) è stata un’occasione clamorosamente persa.  Roba per cui, a conti fatti, tanto vale riscoprire Takashi Miike, l’artefice di altrettanto brutali ma ben più feroci e incisivi saggi sull’argomento (Audition).

    Da un lato, quindi, quel titolo si addice brutalmente al tipo di film che viene riprodotto, anche se poi – a ben vedere – c’è poco di caricaturale, mentre fin troppo delle crudissime sequenze sconfina nella pornografia horror (come da definizione: raffigurazione esplicita): non che ci sia qualcosa di immorale in questo a prescindere, per quanto compiacersi della violenza (e del sesso) rappresentato rischi di banalizzare la questione, riducendo il tutto ad un film per voyeur sadicamente incalliti (e non certo per amanti di adrenalina, emozioni forti o simbolismi politico-sociali).

    Anzi, aggiungerei che per ridere di una pellicola del genere (con l’unica eccezione della folle conclusione della mattanza, quella sì tanto grottesca da rivaleggiare con la testa “volante” di Zombi 3) bisognerà avere un innato gusto per l’exploitation più crudele mai realizzata. Quello che si vede all’interno del film, incentrato interamente sulle sevizie ad una giovane coppia da parte di un “mad doctor” piuttosto “scoppiato” (oltre che affetto da perversioni sessuali davvero terrificanti), nonostante la parvenza “fracassona” è poca roba: l’horror non è violenza gratuita, nè gusto di mostrare il non-mostrabile tanto per fare scalpore, e questo va tenuto presente soprattutto se conoscete poco (o nulla) il genere. La componente porn surclassa alla fine quella torture (che è pur massicciamente presente), e riduce i corpi dei due neo-amanti a due carcasse inermi, mutilate, seviziate ed umiliate in tutti i modi possibili senza un vero motivo: ecce homo, questo è Grotesque, ed è inutile rigirare diversamente la questione. È chiaro che un film del genere rappresenta un caso piuttosto limite (anche se non certo l’unico) di gore continuo, incessante e – nel caso specifico – apertamente fine a se stesso: l’effetto grottesco, paradossalmente, rischia pero’ di perdersi del tutto, con l’ovvia reazione di sdegno da parte di critica e pubblico che lasceranno – secondo me in 8 casi su 10 – disgustati la sala. Eppure, condensando la pellicola ad esempio in un cortometraggio –  e risparmiandosi scene piuttosto inutili e “di cassetta” come la solita motosega da chirurgo (!) e la terribile sequenza di forced masturbation – sarebbe potuto risultare un film più valido ed incisivo: cosa che “Grotesque“, a conti fatti, non riesce ad essere.

  • Uccelli d’Italia: quando gli Squallor girarono un film

    Uccelli d’Italia: quando gli Squallor girarono un film

    Uno dei due cult cinematografici degli Squallor: commedia ad episodi con assurdità demenziali all’ennesima potenza per un genere che, nel 1984, aveva ancora tanto da raccontare. La regia è di Ciro Ippolito, lo stesso che realizzò lo spin-off di fantascienza noto come Alien 2.

    Il trash è consapevole di se stesso: troviamo le scenette tipiche dell’italiano medio riportate in chiave umoristica e non-sense (ma anche, c’è da dire, con grande intelligenza e parsimonia). In questo film i quattro geniacci della musica italiana (Bigazzi, Pace, Savio e Cerruti), spesso in compagnia a bellissime attrici (Sabrina Siani, o la fulciana Cinzia de Ponti) prestano i propri volti a scene irriverenti, fuori dalle righe, inconcepibili da raccontare, quasi sempre legate al demenziale più cristallino oltre che infarcito di siparietti pazzeschi e, proprio per questo motivo, assolutamente spassosi.

    Tutto è demenziale in “Uccelli d’Italia“, e tutto è dotato di uno humor pazzesco e piuttosto inedito per l’epoca, a cominciare dal titolo che fa riferimento all’inno nazionale “Fratelli d’Italia” (ma che secondo alcuni sarebbe anche la parodia di “Uccelli di rovo“, una miniserie iconica di metà anni Ottanta diretta da Daryl Duke). Ma attenzione, questo non deve far pensare a quella comicità gratuita a cui potremmo essere abituati oggi (la stessa che Maccio Capatonda ha fatto varie volte oggetto di meta-umorismo), fatta di vuoti tormentoni dei quali ridere in modo fine a se stesso.

    Ippolito e gli Squallor aggrediscono i luoghi comuni dell’epoca, il perbenismo (ben prima che diventasse patrimonio culturale dei troll della politica e dei social) e – direi soprattutto – sfidano la censura con la propria irriverenza. Come fa ad esempio Daniele Pace quando pronuncia la parola “eiaculare” la bellezza di dieci volte di fila, perchè sì. Uno schiaffone alla cultura mediocre (e rigorosamente democristiana) dell’epoca che, di sicuro, nel suo piccolo non passò inosservata, e che fu in fondo la forma di ribellione insofferente per cui gli Squallor stessi nacquero, vissero e spirarono qualche anno dopo.

    Uccelli d’Italia, con la sua iconica capacità di dire tutto senza dire nulla, di esagerare senza andare mai al punto, di diventire senza raccontare quasi nulla, è altresì abile a costruire atmosfere seriose (molto spesso da telenovela anni 80, in cui il modello era naturalmente Uccelli di rovo), per poi smantellarle con la spontaneità delle barzellette di Pierino o, se preferite, con l’immediatezza di battute al fulmicotone che oggi passano relativamente indifferenti ma che, per l’epoca, furono avanti e anche di molto.

    Non bisogna dimenticare che dietro questo film vi è il lavoro artistico di Bigazzi, Savio, Cerruti e Pace, attivi per circa 40 anni in una band seminale che nel frattempo è diventata di culto, artefice di ciò che tanti altri gruppi successivi avrebbero banalizzato come “rock demenziale”, e che avrebbe ispirato orde di artisti estasiati da quegli ascolti – era meglio quando c’erano gli Squallor, in effetti. E sono giusto i non-sense esasperati degli artisti che crearono “38 luglio”, “Cornutone” e “Tutto il morto minuto per minuto”, diretti dal regista di Alien 2 – Sulla terra, a prendere quasi completamente la scena e ad occuparla con insensatezze che lasciano lo spettatore sbigottito, costretto a ridere. Immersi in una colonna sonora in parte degli stessi Squallor (ad esempio “A chi lo do’ stasera“, che venne reinterpretata con testo leggermente diverso da Nadia Cassini), in parte dei Village People – che conferiscono, questi ultimi, al film quell’atmosfera così ottantiana – non mancano tanti riferimenti a tormentoni e serie TV che ancora oggi fanno il loro effetto: su tutti l’intermezzo fisso tra un episodio e l’altro, che da “Italia Unoooo” diventa inesorabilmente “Italia culoooo“. Senza dimenticare che “Anche i ricchioni piangono” (anche qui, se parlassimo di politicamente corretto non ne usciremmo più) e soprattutto <<“Osvaldo non sarà più tuo”, un dramma tra due donne ed un mezzo culo in 185 puntate>>.

    Particolarmente riusciti rimangono l’episodio iniziale, con il prete che illustra chiaramente le proprie intenzioni nei confronti dell’amante clandestina, la storia di Bigazzi – scrittore in crisi creativa – tormentato da moglie e figli che decide di risolvere la questione con una bomba a mano (!) e, forse soprattutto, una coppia che rientra a casa, lui è appena tornato da un viaggio, lei chiede insistentemente “Cosa mi hai portato da Parigi?“, e dopo uno strip-tease totalmente inutile ai fini della storia l’uomo tira fuori dalla giacca … una provola (!). Mini-film a sè stanti, quindi, perennemente in bilico da demenziale e comicità assurda, con alcune volutissime sbavature come il momento in cui Pace (che interpreta un morto di recente) scoppia dal ridere per via dei riferimenti di Cerruti, vestito da vedova, al capitone ed al celebre “e mo chi mi chiava ammè“.

    Un film sincero e spassoso, da tempo uscito in DVD assieme al degno compagno “Arrapaho“, che si lascia guardare con piacere anche oggi, nonostante alcuni momenti alquanto spiazzanti, ma solo perchè i riferimenti non sempre si riescono ad intuire (come avviene molto facilmente, invece, con la parodia dei Visitors, altro cult d’epoca). Probabilmente sulla scia di “Uccelli d’Italia” con qualche mezzo in più sarebbe potuta nascere una sorta di Troma all’italiana (il feeling c’è tutto); del resto sappiamo tutti come venga visto un certo cinema dalle nostre parti, per cui probabilmente va benissimo già quello che abbiamo.