Salvatore

  • 31: Rob Zombi reinventa lo slasher, ancora una volta

    31: Rob Zombi reinventa lo slasher, ancora una volta

    USA, Halloween 1978: cinque persone vengono rapite da un gruppo di sconosciuti per partecipare ad un sadico gioco di sopravvivenza.

    In breve. Trama un po’ scarna e sulla falsariga dei suoi precedenti di inizio 2000; piuttosto violento, ricco di colpi di scena e di personaggi deformi, folli e caricaturali. Un horror che riprende il “già visto” pur facendo riferimento ad un immaginario del tutto inedito: da vedere.

    I presupposti di questo nuovo film di Rob Zombi sono se non altro curiosi, in quanto basati sulla singolare statistica che ad Halloween scompaiono più persone di qualsiasi altro giorno dell’anno: girato in soli 20 giorni, sembra un film all’insegna del “flusso di coscienza” del regista, in grado di catapultare protagonisti borderline dell’America anni ’70 in un inferno senza via d’uscita apparente. Nel farlo propone una sequela di villain da fumetto horror, tutti accomunati da un “head” nel nome (Doom-Head, Sex-Head, Sick Head e così via) e dal provenire dallo staff di un circo.

    Non è la prima volta che Zombi caratterizza i suoi personaggi in questi termini, ed è impossibile non notare il suo, ormai inconfondibile, stile di regia: solido, nitido, brutale e attento ai dettagli. Si tratta anche di un film finanziato in crowdfunding, per cui le aspettative di massima libertà artistica sono in effetti rispettate: chi non ha apprezzato il film, d’altro canto, non ha potuto che notarne la sostanziale somiglianza con i lavori precedenti, cosa vera ma, a mio avviso, nel caso specifico non un vero e proprio aspetto negativo. A fare la differenza rispetto a molti horror contemporanei, e anche di molto, c’è la componente attoriale: molto curata, infatti, la scelta degli interpreti e le rispettive interpretazioni, sempre decisamente teatrali e sopra le righe. Come di consueto, e a differenza del sulfureo Le streghe di Salem, punta quasi esclusivamente sulle dinamiche slasher (Non aprite quella porta), concentrandosi su un immaginario del tutto proprio e senza alcun riferimento a culture, leggende urbane o altro. Un inferno personale nel quale tre individui (vestiti grottescamente da vetusti signori dell’800 imparruccati) scommettono sulla morte delle vittime contattando dei killer, in un panottico dell’orrore che saprà appassionare nella misura in cui saremo disposti a cedere alle sue lusinghe. Nel farlo, non risparmia dettagli sanguinolenti e, anzi, sembra insistere sulla componente violenta più del consueto, con trovate a sorpresa che faranno rabbrividire.

    Zombi evoca un feeling già noto nei suoi precedenti La casa dei mille corpi e La casa del diavolo per ricostruire un’atmosfera settantiana, tanto exploitation da sembrare quasi da snuff, cosparsa di spirito hippy e ben caratterizzata, fin dai primi fotogrammi, dai consueti personaggi grotteschi. Non è nulla di clamoroso, probabilmente, ma l’approccio è quantomeno molto azzeccato, per quanto determinati riferimenti passeranno soltanto per i più accaniti fan del genere (vari classici che passano sulle TV inquadrate, il genere naziploitation per il personaggio Sick Head, una citazione molto specifica del Rocky Horror Picture Show). Se il vero colpo di classe del film è il finale – che chiude la storia con un doppio finale, che rimane comunque parzialmente aperto – il labirinto squallido, le vittime trattate come marionette e le sadiche trappole che li aspettano non sono certo una novità, a partire da Cube di Vincenzo Natali (1997) fino ad esempi più evoluti come The experiment del 2001 (e senza contare che un analogo Sick Head si era già visto nel sottovalutato Eaters).

    Del resto si tratta di uno di quei film da cui dovresti sapere bene cosa aspettarti, e che devi gustarti nella loro essenza senza farti troppe domande, e – per noialtri – chiudendo un occhio sul doppiaggio italiano (la traduzione di certe espressioni gergali e delle canzoncine perde un po’ di efficacia). Zombi sembra volersi liberare di qualsiasi pretesa contestualizzante o ideologica (almeno in apparenza, anche se apre citando Kafka con l’aforisma A first sign of the beginning of understanding is the wish to die), e si limita a regalare al suo pubblico una perla di horror moderno ricco di ritmo, citazioni, interpretazioni di buon livello ed alcuni punti volutamente non chiariti: su tutti, il reale ruolo dei tre feroci aguzzini – forse fuori dal tempo, sempre esistiti, quasi una sorta di demoni – Father Murder, Sister Serpent e Sister Dragon, che a quanto pare colpiscono ad ogni Halloween. Figure grottesche che hanno scommesso sulle vite delle vittime, ed è tutto quello che sappiamo: viene in mente a riguardo, per chi lo avesse visto, uno dei corti di The ABC’s of Death 2.

    Se Zombi ha insegnato qualcosa al suo pubblico, in questi anni, è proprio che un buon horror non deve per forza spiegare tutto, e può ritenersi godibile (e ancora più spaventoso) anche lasciando qualche ombra oculatamente sparsa.

  • Thriller – en grym film: dove nacque l’ispirazione per Kill Bill

    Thriller – en grym film: dove nacque l’ispirazione per Kill Bill

    Una giovane donna subisce un pesante trauma nell’infanzia, che la rende completamente muta: anni dopo, viene rapita da uno sfruttatore di prostitute e ne rimane schiava per diverso tempo, finchè non inizia a preparare la propria vendetta…

    In breve. Pluri-osannato – ed in parte iper-valutato – da Tarantino, che si ispirò al personaggio di Frigga per costruire Elle Driver nel  suo Kill Bill, è uno dei più famosi sexploitation mai realizzati, archetipo di film rape’n revenge a cui moltissimo deve I spit on your grave di M. Zarchi.

    Se è vero che il cinema di Tarantino si è sempre detto ispirarsi a quello di genere italiano dei tempi d’oro, Thriller di Fridolinski dovrebbe essere citato praticamente in automatico: visto oggi, appare come una versione primordiale di Kill Bill e, anzi, la pellicola del regista americano a confronto appare quasi sbiadita, in parte ripulita ed adeguata a canoni più “ragionevoli”.

    Thriller – en grym film è un film sporco, sudicio e crudele in ogni singola sequenza, per il quale il personaggio di Frigga/Madeleine crea immediata empatia nel pubblico. Riesce a mantenere l’attenzione viva ancora oggi, e non risente neanche troppo – secondo me incredibilmente – dell’età che lo caratterizza. È vero, comunque, che film del genere sono piuttosto rari e che, per questo, è altrettanto facile (e secondo me Tarantino lo fa) sopravvalutarne l’impatto. Di fatto è un film senza eguali, un porno-thriller come nessuno avrebbe osato.

    Il sesso – doloroso, violento e tutt’altro che allegro – che si vede in Thriller – en grym film, presente in forma di pornografia solo nella versione uncut (Thriller: A Cruel Picture), e non in quella “perbenista” dal titolo Thriller: They Call Her One-Eye, sarebbe addirittura funzionale, se non fosse che quelle sequenze (tre minuti extra, non di più) ne esasperano l’aspetto voyeur, dato che diventano esplicite e fini a se stesse come in un qualsiasi porno. Questo, secondo me, rende Thriller – oltre che sanamente nichilista – leggermente fiacco e, se vogliamo, meno credibile di quanto sarebbe stato privato di quelle sequenze (girate da una coppia di sex-performer girovaghi che si prestarono a controfigura).

    Del resto, sembra che Fridolinski (nome d’arte del Bo Arne Vibenius, aiuto regia di Bergman per il suo “Persona“) abbia voluto shockare il proprio pubblico in modo programmatico, realizzando un film sostanzialmente commerciale – ma al tempo stesso privo del perbenismo del settore che conosciamo a menadito. In un certo senso, a conti fatti, l’idea di affiancare sesso esplicito a violenza “ad orologeria” (in una storia soffocante, claustrofobica e tutt’altro che stupidotta, come si potrebbe temere) è almeno in parte vincente, proprio perchè non ti aspetteresti mai una cosa del genere.

    Questa scelta, almeno nella versione senza tagli (la versione doppiata in italiano è perduta, salvo ritrovamenti e riedizioni che, secondo me, prima o poi si vedranno), mantiene vivo l’interesse dello spettatore fino alla fine. Interesse che, a dire il vero, non si sarebbe smarrito: Thriller è accattivante, diretto, ben interpretato (forse l’unico vagamente sottotono è l’antagonista Heinz Hopf, mentre la Lindberg è sublime) e con una storia davvero ben congegnata.

    Thriller – en grym film è, almeno in questa scelta, fuori da qualsiasi canone, ed è questo al tempo stesso il suo principale punto di forza e vulnerabilità. Resta un buon film soprattutto per il ritmo, per i particolarissimi slow motion – girati con una videocamera in uso presso l’esercito, a 500 fotogrammi al secondo – e per il personaggio di Frigga/Madelein, simbolo di innocenza martoriata e di età adulta raggiunta, suo malgrado, in un mondo di abusi, violenza e cinismo, e della quale invochiamo ansiosamente la vendetta.

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  • Maniac: l’horror di Lusting delinea uno dei migliori serial killer del cinema

    Maniac: l’horror di Lusting delinea uno dei migliori serial killer del cinema

    Frank Zito (Joe Spinell) è un cittadino newyorkese dalle tendenze psicopatiche: avvicina donne di varia estrazione sociale e le uccide brutalmente. Potrà la frequentazione della bella fotografa Anna (Caroline Munro) cambiare per sempre le sue tendenze  omicide?

    In breve. Dal regista di Maniac cop un thriller cupo e vagamente poveristico nell’impianto, con recitazione non eccelsa ed effetti interessanti solo a sprazzi, senza contare che venne girato con un budget limitatissimo. Nonostante ciò, “Maniac” è un thriller seminale che possiede pregi innegabili: l’originalità del plot, un paio di sequenze di culto e il fatto che ha posto le base di una infinita scia di slasher con protagonista l’assassino misogino dal passato problematico.

    Maniac” è uno dei tanti slasher ottantiani, nascosti nel sottobosco cinematografico, che possiede il merito (con tutti i limiti del caso) di evocare più di qualche gradevole sorpresa per gli appassionati. I limiti in questione sono gli stessi che certa critica, entusiastica a prescindere (per non dire a-critica), ha evitato a volte di sottolineare, nascondendo i difetti del film sotto il più classico degli zerbini: Maniac è un cult, e come tale andrebbe teoricamente considerato esente da difetti. Il che, oltre ad essere inesatto, significa raccontare in malo modo un piccolo film artigianale, costato comunque solo 48.000 dollari e dotato di un’espressività senza eguali, almeno per l’epoca. Seguendo la falsariga dei precedenti thriller exploitativi dotati di feroci assassini/violentatori di giovani fanciulle – citiamo randomicamente: Il mostro della strada di campagna, L’ultima casa a sinistra, I spit on your grave – il film scorre sullo schermo con toni fin da subito tesissimi, inquietanti quanto accattivanti.

    La storia è incentrata quasi del tutto sulla mente di uno psicopatico protagonista, il che potrebbe avere qualche somiglianza con il cult brasiliano del 1964 A mezzanotte possiederò la tua anima, con cui Maniac condivide se non altro il tipo di storia ed il ritmo, per quanto sia legato ad un piano apparentemente più materialistico. Nel raccontare la storia di Frank, psicopatico dalla parvenza inquietante –  affine allo stereotipo di un tipo insicuro con le donne, dall’aspetto anonimo, solitario e non proprio in forma che diventa, con la violenza che esercita, il gemello cattivo di se stesso – la regia di Lusting realizza un film lurido, delirante e (ovviamente) carico della più degenerata violenza. Nonostante presupposti del genere rendano il tutto mera exploitation, la trama regge dignitosamente, a dispetto di una forma visuale non troppo nitida – dovuta ai limiti di budget, sebbene con qualche piccolo effetto visivo superiore alla media. Le scene cruente, con tutti i limiti delle pugnalate teatrali e dei litri di sangue visibilmente finto, sono un qualcosa che finiranno per far divertire/spaventare gli appassionati e ridere tutti gli altri: i soliti duplici piaceri da b-movie, alla fine.

    La doppia personalità che convive in Frank possiede un che di trascendente, e lo rende capace di massacrare donne e sparare fucilate a freddo (una delle sue vittime sarà un personaggio interpretato dall’effettista Tom Savini) quanto di lasciarsi andare a insospettabili galanterie con la donna da cui è attratto (la Munro), regalandole un orsacchiotto ed invitandola ad una romantica cena. Un chiaroscuro inquietante che convince pienamente solo per via del contesto e dell’età del film, dato che rimarrà come archetipica per molti altri lavori successivi (e per un remake più recente, tra l’altro).

    Alcune sequenze di “Maniac” appaiono un po’ prevedibili per il pubblico moderno, tipo la “cronaca della morte annunciata” dell’infermiera bionda, che per qualche incomprensibile ragione preferisce, a fine lavoro, andarsene in giro in solitaria su una strada desolata invece di accettare un passaggio dalla collega. Un vero colpo di genio, tanto più se effettuato sessanta secondi dopo aver letto la notizia del serial killer che sta massacrando donne. In fondo li perdoniamo: stavano “solo” girando un horror negli anni 80.

    Presente inoltre qualche breve momento di riflessione, che serve a spezzare sequenze che – in circostanze differenti – sarebbero diventate un po’ noiose. “Maniac” soffre di qualche problema di ritmo, nonostante la sua durata di soli 83 minuti, nonostante il crescendo finale. Interessante, poi, l’analisi della fobia della solitudine da parte del protagonista, e qualche suggestione filosofico-esistenzialista tirata un po’ con le pinze (“Non c’è modo per cui tu possa possedere qualcuno per sempre, anche con una fotografia: non c’è modo“: panta rei, insomma).  Tenendo conto che si tratta di uno dei primissimi film ottantiani a realizzare completamente quello che sarebbe diventato un vero e proprio genere – lo slasher a tinte erotiche – c’è comunque da togliersi il cappello e apprezzare, se si vuole, il risultato per quello che è e per il periodo in cui uscì.

    Azzeccatissima la minimale colonna sonora elettronica di Jay Chattaway, uno degli elementi più in risalto di una pellicola datata, non troppo brillante nella dinamica e che vive i momenti migliori nel delirante ed inaspettato finale (degno di un racconto di Poe o Lovecraft). Un film imperdibile per i cultori dei vari Venerdì 13 e Henry pioggia di sangue, con il quale “Maniac” presenta svariati punti di contatto, a cominciare dalla prospettiva ossessivamente incentrata sulla mentalità del protagonista. Al di là del valore storico, pertanto, credo si tratti di un poco più che discreto b-movie che potrebbe, a conti fatti, risultare una piacevole sorpresa per qualche spettatore.

  • Ho visto 3 volte “Dagon – La mutazione del male”, e non riesco a farmelo piacere sul serio

    Ho visto 3 volte “Dagon – La mutazione del male”, e non riesco a farmelo piacere sul serio

    Un gruppo di amici in vacanza su uno yacht si schianta su alcuni scogli ed arriva in uno strano paese di pescatori, Inboca. Presto scopriranno le reali origini degli abitanti del posto…

    In due parole. Ispirandosi al celebre racconto lovecraftiano “La maschera di Innsmouth” – che diventa “Inboca” – Gordon ne tira fuori una (a suo modo) notevole rielaborazione in chiave cinematografica, sfruttando al meglio gli stereotipi ed i topos caratteristici di questo genere di letteratura. Molto deriva anche da un altro classico dello scrittore quale “Dagon“, ovviamente, ed il risultato si lascia guardare con grande naturalezza. Il problema è, semmai, che il film non sorprende più e sembra ricalcare stereotipi abusati o comunque visti e rivisti.

    “Non avrei mai voluto vedere quella scena…”

    Ispirandosi ai due succitati racconti dello scrittore di Providence, si può dire che Stuart Gordon sia riuscito, una volta tanto, a rendere la letteratura lovecraftiana da straordinaria ad ordinaria: tale è la spontaneità, in effetti, che attraversa l’intera pellicola – oltre alla trattazione mai forzata o troppo letterale – che il pubblico si dovrebbe lasciar guidare in modo piuttosto ovvio all’interno di essa. Forse troppo normale, tutto sommato, considerando le atmosfere lovecraftiane che ben poco si adattano, alla fine, un po’ a qualsiasi riduzione cinematografica (il termine “riduzione” non è casuale, in queste circostanze).

    È bene tenere presente due aspetti: non siamo al top della rappresentazione del sottogenere (che avviene, ad esempio, in capolavori come “Il seme della follia” o “La cosa” di John Carpenter) e non dobbiamo dimenticare che Gordon è pur sempre l’artefice di una trasposizione di un altro classico della letteratura horror quale “Il pozzo e il pendolo” piuttosto arbitraria e, obiettivamente, neanche troppo azzeccata. Nei limiti della cinematografia del regista, dunque, che ha conosciuto probabilmente un unico vero picco con “Re-animator” (altro racconto lovecraftiano rappresentato molto liberamente), “Dagon – La mutazione del male” è un horror di discreto livello, con alcuni momenti di buona tensione ed una ricostruzione delle atmosfere lovecraftiane più che degna.

    Si tratta ovviamente di un b-movie che da’ molta importanza all’involucro dei mostri mutanti e poca, come spesso accade, alla sostanza del solitario di Providence, ma valutando il film in quanto tale si resta soddisfatti anche se, a dirla tutta, non proprio entusiasti. L’odore di umido-marcio arriva a permeare la pellicola fin dalle prime sequenze, giocando nel contempo sul consueto (ed azzeccatissimo) senso di “antico incubo diventato realtà” che non tarderà a disvelarsi.

    Un film fuori dalle righe per il periodo stesso in cui è uscito – gli anni 80 erano finiti da un pezzo – e, proprio per questo, da gustare ancora oggi. Dagon, a suo modo, non può essere annoverato tra i film propriamente brutti, anzi; presenta spunti di originalità che hanno, al limite, il difetto di rimanere tali. Il film non sorprende mai, ed è questo il suo limite più sostanziale: per un lavoro come quello di Lovecraft e, soprattutto, a confronto di film come From Beyond, sempre di Gordon, ci aspettavamo forse qualcosa di più.

  • Nymph()maniac: l’ipersessualità al femminile, secondo Lars Von Trier

    Nymph()maniac: l’ipersessualità al femminile, secondo Lars Von Trier

    Il pensionato Seligman trova Joe, sanguinante e semisvenuta, in un vicolo vicino casa propria: la donna accetta di andare a casa dell’uomo per raccontargli come sia finita lì.

    In breve. Interminabile excursus sull’erotismo e le sue ossessioni, raccontato dal punto di vista di una ninfomane: c’è spazio per considerazioni varie sul genere umano, sui suoi rapporti e sui rispettivi (e spesso discutibili) comportamenti. Per un pubblico adulto, e soprattutto non superficiale.

    Lanciato con un chiarissimo (per chi conosce il regista, quantomeno) “Forget about love“, Nymphomaniac è un trattato nichilista e spassionato sull’erotismo, forse tra i film più controversi del regista danese (e che, per questo, probabilmente sarà davvero capito e rivalutato solo tra qualche secolo anno). Del resto, già conosciamo le sue folli – nel senso migliore del termine – incursioni di genere, oltre alla sua innata capacità – o forse esigenza – di trovare un aspetto “scandalizzante” (ovviamente dal punto di vista dei soliti tromboni) in quasi ogni sua opera.

    Anche in quelle apparentemente più innocenti, come Dogville, figurarsi ora: il dualismo morte ed erotismo è il vero protagonista. Corpi che inizialmente scoprono la sessualità, prima con entusiasmo, poi con massimo ardore e in seguito, inevitabilmente, arrivando a consumare un’agonia straziante, mentre il corpo si logora, si contorce e si ferisce. L’amore ha poco a che fare con questo processo che evoca la dipendenza da una droga, e questo è chiaro soprattutto se conosciamo la tendenza cinica e beffarda del regista nei confronti dei facili sentimentalismi.

    In Nymph()maniac Von Trier racconta la storia di Joe, un’anti-eroina archetipica per un film del regista danese poichè, per sua stessa ammissione, non ha alcuna intenzione di salvarsi (rinuncia all’ambulanza fin dalle prime scene, ed evoca alcuni tratti della Justine di Melancholia). Il film racconta, con un montaggio anti-causale o seguendo lo stream of consciousness della protagonista, la storia della sua vita: la scoperta di essere ninfomane, le prime esperienza con il sesso, l’apice dell’erotismo, la sperimentazione di varie perversioni, l’inizio del degrado (e qui termina la prima parte del film), la crisi dei sentimenti, il declino, l’attrazione morbosa verso il sadismo (le sequenze più crude sono probabilmente qui), la successiva rinascita, il trauma inaspettato poco dopo.

    Un viaggio interminabile, quindi, per un film di quasi 5 ore di durata, che sembrano addiritture poche, tutto sommato, rispetto a quanto e come viene raccontato. Nymphomaniac si troverà, come molti altri film di Von Trier, nelle condizioni ideali di visione avendo l’accortezza (se si può) di non leggere nulla a riguardo, prima di guardarlo.

    L’incontro di Joe incontro con Seligman – archetipo maschile di colto, pacato ed un po’ tontolone “maschio medio” – diventa da un lato seduta psicoanalitica vera e propria (per la gioia degli esperti in materia, of course: a più riprese Von Trier sembrerebbe evocare il primo Cronenberg, quantomeno dal punto di vista dell’approfondimento dei personaggi e delle rispettive perversioni), dall’altro è un modo originale per raccontare una storia che, di per sè, non è altro che un incredibile concentrato di esperienza sessuali della protagonista.

    La stessa Joe che, fin da piccolissima, racconta di aver sempre avuto un’insana attrazione per queste tematiche, tanto da sfregarsi con qualsiasi cosa fosse utile a stimolarla sessualmente (fin da ragazzina), e da chiedere esplicitamente il primo rapporto al suo vicino di casa – di punto in bianco. Nymphomaniacopera omnia dell’ossessione dell’erotismo dai tratti patologici, e anche qui il parallelismo col canadese Cronenberg non sfigura, sebbene solo dal punto di vista “mentale” – nelle mani di qualsiasi altro regista sarebbe diventato un’opera insulsa; con Von Trier di mezzo non può essere così. L’impresa prefissata è quella di rendere significativo un film dai fortissimi tratti erotici, spesso esplicitamente pornografici ma mai, in effetti, gratuiti o non funzionali alla storia. Von Trier delizia il proprio pubblico con montaggi frenetici, narrazione anti-causali, scritte sullo schermo che esaltano determinate scene ed un repertorio di personaggi immenso e davvero complesso da catalogare.

    A contribuire al fascino della storia deve certamente aver contribuito il cast (Udo Kier, Uma Thurman, Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgård e Willem Dafoe, solo per citarne alcuni), ma ovviamente è il tipo di storia raccontata ad essere un terreno molto fertile per le provocazioni di Trier. La ninfomania, argomento su cui molti propendono a fare facili (e poco divertenti) battute, viene qui trattata con lucidità e freddezza, per meglio contestualizzare il catalogo di “tipi” umani che probabilmente avremo incontrato anche noi nella nostra vita, e capirne meglio motivazioni e disagio. Un film forse – unica vera pecca – troppo lungo per le intenzioni medie che manifesta ma, a ben vedere, girato magistralmente e, per questo, non certo da biasimare. Le considerazioni da fare saranno tante e, tra un atto di sesso ed un’ennesima perversione mostrata – sono poche quelle che Von Trier non ha preso in considerazione – c’è spazio per la riflessione serie e, naturalmente, per l’inatteso ed imprevedibile finale della vicenda.

    Un twist che è tutto un programma, per quanto è pervaso di pessimismo antropologico, oserei scrivere, da manuale.