Salvatore

  • Esperimenti sociali controllati: ecco “The experiment” di Hirschbiegel dei primi Duemila

    Esperimenti sociali controllati: ecco “The experiment” di Hirschbiegel dei primi Duemila

    Nel tentativo di studiare sul campo i comportamenti umani nelle situazioni più estreme, un gruppo  di scienziati convoca 20 volontari che dovranno simulare altrettanti giorni di prigionia all’interno di un carcere. Perennemente inquadrati dalle telecamere come in un Grande Fratello, e sotto l’occhio più o meno vigile degli osservatori, il gruppo viene suddiviso in 8 detenuti e 12 guardie e, dopo l’iniziale clima bonario che si viene a creare, la permanenza diventa un autentico incubo.

    L’ispirazione è il terrificante esperimento carcerario di Stanford, condotto da un docente universario di psicologia (Philip G. Zimbardo) che pero’ venne interrotto dopo pochi giorni di sperimentazione a causa del clima di violenza e sopraffazione che si era venuto a creare. Il film si incentra sulla figura controversa di Tarek Fahd, noto semplicemente come N. 77 e principale artefice, suo malgrado, dei conflitti sociali che si scateneranno al suo interno: dalla natura scaltra, profondamente passionale e naturalmente contestatore dell’autorità.

    E’ solo un gioco

    Diretto con grande maestria dal regista tedesco Oliver Hirschbiegel, ed interpretato con altrettanta intensità dai 20 protagonisti del social experiment, il film offre innumerevoli spunti di riflessione, configurandosi come un Grande Fratello snuff e man-in-prison: è, in altri termini, la spettacolarizzazione dell’orrore realistico che diventa reale. Questo esce fuori, in modo assolutamente agghiacciante, nella scena il cui il n.77 viene sequestrato dalla propria cella, insultato e addirittura urinato addosso dalle finte-guardie (che prendono così le difese di un loro collega che era stato sbeffeggiato perchè puzzava). A dirla tutta, la singolare caratteristica dell’uomo – l’inizialmente mite Berus – viene anche notata dai suoi colleghi, ma il film sottolinea come il vero problema sia “avere una divisa del colore sbagliato“, e quindi una forma di sopraffazione di un branco sull’altro. In effetti Berus era forse l’ultimo individuo che, all’apparenza, potesse diventare un leader del gruppo, eppure suo malgrado lo diventa.

    Ma il vero senso del film non risulta essere tanto la rappresentazione del continuo mobbing che viene effettuato ai danni del “non allineato” 77, e che si esplica in continue umiliazioni e punizioni allo scopo – come ammesso anche da  Zimbardo, del resto – di disgregare il gruppo di carcerati. Il vero senso è che il regista mostra con occhio asettico, quasi documentaristico, quello che risulta essere il vero nocciolo di mille problemi sociali, ovvero la violenza che il più forte scatena, spesso senza alcun vero privilegio nel farlo, sul più debole, o – se preferite – la mania di grandezza di chi è stato definito più forte, bello o bravo che si ritorce contro i reietti. Alla fine, infatti, le guardie saranno fin troppo forti, i detenuti decisamente più deboli ma dovranno per forza di cose organizzare una vera e propria rivolta: la natura umana viene quindi ritratta come definitivamente ed inspiegabilmente infida e violenta, senza speranza.

    Nonostante infatti la data del compenso si avvicini, infatti, le guardie si fanno inebriare dal potere, si coalizzano e fanno un vero e proprio “colpo di Stato” contro gli studiosi che li hanno convocati: si isolano rispetto al mondo esterno, immobilizzano uno degli addetti all’osservazione, addirittura ne incarcerano un’altra assieme ad un ex-“collega” troppo debole, e rinchiudono l’indisciplinato 77 nella black box (una cassaforte con un singolo spiraglio al suo interno). A quel punto non è più una simulazione: è la realtà, che spingerà una delle guardie addirittura a tentare di commettere uno stupro.

    E’ come se la divisa stessa, in un certo senso e dato l’ambiente, creasse i presupposti perchè lo spirito di sopraffazione venga fuori, facendo letteralmente “dimenticare” ai presenti (in particolare alle guardie) che si tratta di un semplice esperimento simulato, fatto solo ed esclusivamente per i soldi. Questo “gioco delle parti” che rapisce ed immedesima lo spettatore, lasciandolo smarrito, viene esasperato nonostante tutti si trovassero d’accordo, nella prima metà del film, a far finire pacificamente l’esperimento allo scopo di incassare il compenso ed andarsene. “The experiment” non da’ scampo: mi ha lasciato quasi intontito, sorpreso, e soprattutto soddisfatto come spettatore.

  • La vestale di Satana: uno dei primi horror satanici, di Harry Kümel

    La vestale di Satana: uno dei primi horror satanici, di Harry Kümel

    Stefan e Valerie sono una coppia di novelli sposi che si ferma in un albergo di Ostenda prima di prendere il traghetto che li porterà in Inghilterra. Nel luogo sopraggiunge la contessa Elizabeth Bathory, che inizia a mostrarsi gentile e disponibile nei confronti dei due…

    Recensendo un classico del cinema horror come questo diventa difficile proporre considerazioni che non cadano nel “già sentito”; al tempo stesso, tuttavia, appare altrettanto irrealistico pensare che pellicole come quella di Kümel siano prive di difetti, oppure illudersi che non abbiano influenzato le rappresentazioni successive (quelle sui vampiri, nello specifico). Di fatto, la stessa etichetta orrorifica finisce in questo caso per risultare un po’ stretta, e questo nonostante il titolo evocativo che fa pensare, erroneamente, ad un film di natura occultistica o satanica.

    Al bando le banalità, quindi, che mi sembra anche il modo più corretto per approcciare alla visione della pellicola. Anzitutto “La vestale di Satana” è una sorta di “studio di atmosfera” pregno di un certo sperimentalismo: certo non si deve pensare alle estremizzazioni pittoresche di Begotten quanto al clima inquietante del celebre “Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York” ma anche de “L’inquilino del terzo piano” (Polanski condivide i natali con il regista Kümel, ammesso che conti qualcosa). C’è da aggiungere, inoltre, che la storia di vampiri segue una dinamica piuttosto classica, anche se il mito della sanguinaria contessa Bathory viene soltanto citato (e con un certo compiacimento sadico-erotico, c’è da sottolineare), mentre le gesta della protagonista diventano una sostanziale (e convincente) variazione sul tema, con alcuni spunti realmente spaventosi e suggestivi.

    Al regista, di fatto, non sembra interessare la ricerca di un modo innovativo o troppo originale per spaventare il pubblico, quanto riuscire a delineare la natura perfida ed ambigua dei vampiri richiamandosi, dunque, alle atmosfere cupe e spesso poco esplicite tipiche dei succitati film di Polanski. Per completezza ed onestà c’è da aggiungere che vedere oggi “La vestale di Satana” è un’esperienza che può far sconfinare lo spettatore nella noia, anche piuttosto facilmente visto quanto si è deciso di diluire una trama che, tutto sommato, avrebbe potuto essere compressa di qualche minuto. Scelte tutto sommato rispettabili, visto che si tratta di cinema sostanzialmente contemplativo e quasi “al di là del bene e del male“, criticabile nella misura in cui è lecito farlo in rispetto ai gusti dei cinefili più affezionati e con qualche momento spaventoso solo nella parte finale, senza dimenticare qualche sprazzo cult (la celebre scena nei pressi della doccia).

  • Audition di Takashi Miike parla di amore, splatter e friendzone

    Audition di Takashi Miike parla di amore, splatter e friendzone

    Il film sull’amore ed i suoi risvolti morbosi del grandissimo regista giapponese: uno dei capolavori thrillerhorror del secolo scorso.

    In breve: si rappresenta un orrore interiore, forse uno dei più temuti ed irrazionali che possano esistere: quello delle nuove relazioni con un’altra persona. Nonostante la prima parte faccia temere una storia melensa, la forza del film è proprio nel contrasto tra quest’ultima e le agghiaccianti – e a tratti insostenibili – conclusioni. Un piccolo capolavoro dell’horror, spaventoso quanto realistico (e sostanzialmente inevitabile) molto forte visivamente quanto particolarmente cruento.

    Un vedovo (Aoyama) si convince, dopo sette anni dalla morte della moglie, a rimettersi alla ricerca della donna della propria vita: su suggerimento di un amico produttore, inizia a vagliare le schede di presentazione di diverse ragazze, in occasione di un’audizione cinematografica. La sua speranza è quella di trovarne una di proprio gradimento, magari sensibile, colta ed amante della danza. Il destino vuole che si metta in contatto con l’apparentemente dolce e gentile Asami (l’affascinante Eihi Shiina di Tokio Gore Police), reduce da una serie di traumi infantili ma, al tempo stesso, di natura terribilmente ambigua. A nulla valgono, a quel punto, gli inviti dell’amico produttore a razionalizzare la situazione: la storia degenerà in un delirio di violenza e sottomissione.

    “Io non sono nato ieri, e ti assicuro che non mi farò prendere in giro, e mi fido più del mio istinto che delle opinioni altrui”

    Eli Roth pare si sia ispirato pesantemente a questo film per sviluppare i suoi Hostel e Hostel II: quello che il regista è riuscito a fare in “Audition” è di esaltare fino al parossismo la crudeltà dell’amore, fatto di una componente drammatica, struggente e per certi tratti melensa, in aggiunta ad una ulteriore in cui l’orrore, prima solamente interiore, diventa fisico, esplicito e prepotente. Tanto più terrorizzante poichè il sottotesto è costituito da situazioni che, con i vari limiti del caso, qualsiasi essere umano potrebbe aver vissuto: del tipo un/una affascinante amato/a il quale, dopo aver seminato amorevolmente il terreno, scompare improvvisamente senza dare spiegazioni. Esattamente quello che viene rappresentato nella parte finale del film, in cui realtà e fantasia si confondono più volte e, di fatto, la sadica sottomissione a cui la protagonista (splendidamente delineata) sottopone il suo uomo diventa simbolo del trionfo definitivo del forte sul debole.

     “Ama solo me”

    Niente è quello che sembra, l’amore finisce spesso per illudere pregiudizialmente chi lo sta cercando e finisce per portarci alle contraddizioni più insostenibili, che qui – essendo un horror – sconfinano ovviamente nello splatter meno raccontabile che si possa pensare. Il regista, con Audition, sembra compiacersi nel demolire le convinzioni del suo pubblico, rappresentando un quadro nel quale è facile passare da felici innamorati a succubi assoluti, disposti proprio malgrado a subire violenza fisica da parte dell’amata. Al di là dell’ottima interpretazione di Asami, tanto mite e riservata quanto feroce e crudele, da ricordare almeno un paio di sequenze presenti nel film, come la decapitazione e l’amputazione dei piedi mediante un filo di ferro, e qualche dettaglio gore piuttosto disgustoso (oltre che tipico di questo sottogenere di horror).

  • Ab-normal beauty: l’anormale bellezza di Pang

    Ab-normal beauty: l’anormale bellezza di Pang

    Ab-Normal Beauty è una produzione del regista Oxide Pang del 2004, che fonde alla perfezione molti degli stilemi caratteristici del cinema horror nipponico. Agli spettatori più viziati, in un certo senso, non potrà non venire in mente la saga di The Ring, The Eye (di cui il regista fu il medesimo Pang, assieme al fratello Danny) ma anche la saga di Saw – L’enigmista. Un film a doppia faccia: horror psicologico a tinte oscure nella prima parte, frenetico e degno dei migliori anni 80 nella seconda.

    In breve: Pang realizza un buon thriller nel classico stile nipponico. Piuttosto lento nella prima parte, accelera vorticosamente nella seconda.

    La storia si sviluppa in una sorta di narrazione introspettiva, incentrata sulla personalità oscura della giovane Jinèy, studentessa di arte dalle spiccate doti e con una passione morbosa verso la fotografia. Dall’inizio del film la sua arte è condivisa assieme all’amica Jas, che sembra provare una torbida attrazione nei confronti della compagna. Improvvisamente Jinèy scopre, dopo aver assistito ad un incidente stradale, che quello che desidera di più è fotografare gli ultimi istanti della vita: la morte in diretta. Congelando quegli istanti in immagini morbose e shockanti, la ragazza non fa altro che esorcizzare un trauma infantile che non ha mai rimosso: un gruppo di ragazzini, tra cui il cugino, che anni prima l’avevano molestata.

    Tale ricordo doloros le impedisce di provare sentimenti per il mondo che la circonda, compresa la madre troppo presa dal proprio lavoro ed il giovane ed impacciato collega Anson. La personalità morbosa e crepuscolare di Jiney, quindi, le impone di seguire l’ istinto di procurarsi morbosi book fotografici, effettuare scatti ad animali uccisi, o addirittura riprendere un suicidio in diretta. Appena convitasi a liberarsi di tutte quelle terribili immagini, Jinèy si imbatte in un serial killer che inizia a perseguitarla – prima con semplici fotografie, e poi con una videocassetta contenente quello che sembra uno snuff a tutti gli effetti. Molto presto quelle che non erano che fantasie estreme diventano una realtà cruenta, visto che il maniaco di turno sembra intenzionato a metterle in pratica contro di lei.

    Costellato di sequenze sconnesse azzeccatissime, riempito da tempistiche spesso surreali, dentro Abnormal Beauty il regista rappresenta alla perfezione il mondo di Jinèy, fatto di frammenti di vita tormentati e sensazioni mai pienamente vissute. Alcuni passaggi del film, probabilmente per accentuare l’effetto chiaro-scuro, sono probabilmente troppo stucchevoli per un’opera del genere, riuscendo tuttavia a rendere l’idea in modo tutto sommato “gradevole” (ammesso che sia lecito usare questo aggettivo per un horror).

    La caratterizzazione dei personaggi è efficace, anche se alcuni di essi sembrano essere usciti da un manga giapponese, da cui ereditano una certa ingenuità (Anson, che entra nella trama un po’ forzatamente, ad esempio): Jinèy stessa, pur possedendo una personalità affascinante, malinconica e ben delineata, a volte indugia troppo in sguardi fissi nel vuoto, tanto da risultare un po’ finta, se vogliamo. Se non fosse, quindi, per l’indubbio spessore della trama, e per il trauma di fondo – la chiave di lettura del tutto – raccontato con agghiaccianti flashback in bianco e nero, staremmo qui a parlare dell’ennesimo horror adolescenziale, con tanto di serial killer insospettabile e solito corredo di aria fritta. Non si tratta di questo: posso dirlo con certezza, così come rimango convinto che la parte migliore del film sia tutta concentrata nel finale: un crescendo di gore e tensione per la gioia dei cinefili più smaliziati, mentre la prima parte è dedicata a tempestare la mente del pubblico più propenso alle introspezioni intellettualoidi.

    Ab-normal Beauty è, in definitiva, uno dei migliori horror recenti che abbia avuto occasione di vedere.

  • Winnie the Pooh, Sangue e Miele: un horror stranamente sensato

    Winnie the Pooh, Sangue e Miele: un horror stranamente sensato

    Detta senza mezze misure, Winnie the Pooh: Sangue e Miele è una cafonata cosmica. Meglio: non poteva essere diversamente. Sulle prime sembra volersi palesemente divertire (in chiave splatter) su uno dei miti dell’infanzia di chiunque, fregiandosi di cinismo e riprese calcolate come nella migliore tradizione slasher horror. Poi ti viene il sospetto che ci sia dell’altro, qualcosa da dire, qualcosa da raccontare in modo originale. Forse c’è, forse no. Vederlo per intero è l’unico modo per capirlo. Perchè se l’impianto del film è pensato per risultare allegramente sgradevole, è soprattutto quel finale ad essere nerissimo, cupo, senza speranza e (cosa non da poco) senza alcun rispetto della struttura narrativa precedentemente imposta. Contenti voi, contenti tutti, e questa è.

    C’è sicuramente l’auto-indulgenza tipica di certo horror, c’è pure l’orgoglio di aver prodotto un film del genere senza alcun tipo di condizionamento artistico, sia pur a costo di averlo forse troppo frammentato in micro-episodi che sanno molto di accozzaglia di centinaia di trailer diversi. D’altro canto Winnie the Pooh: Sangue e Miele rimane una cafonata consapevole, dato che sfrutta coerentemente gli stilemi del genere – gliene va dato atto, sono gli stessi stilemi modello La casa: perchè mai continuino a funzionare, tutto sommato, film in cui dei giovani fanno cose irragionevoli (per non dire peggio), rimane un mistero. Un mistero del tipo: perchè andare da soli in un bosco oppure, come avviene all’inizio di questo lavoro, perchè la moglie di Cristopher Robin accetta bonariamente di recarsi nel bosco a vedere gli animaletti dell’infanzia? Qualcuno, al suo posto, avrebbe chiesto il divorzio.

    Eppure, strano a dirsi, al netto di certe ventate di realismo (che non fanno bene all’horror in generale), e per quanto sia alienante esserne consapevoli, fin dall’inizio della pomposa campagna di marketing di questo horror di Rhys Frake-Waterfield possiamo dire che il film sostanzialmente funziona, fa il proprio dovere, risponde alle aspettative di chi va a vederlo (bontà sua). Ovvio, poi non funziona più di una qualsiasi opera di Rob Zombi nè più di un qualsiasi Non aprite quella porta: ma funziona.

    Funzionicchia, se proprio volessimo essere critici: è girato discretamente, ma è completamente senza intreccio, senza filo logico, più interessato a shockare che ad altro, senza contare i non sequitur a granularità minima e vari momenti in cui (come in parte della filmografia di Zombi, significativamente) non si capisce bene cosa stia succedendo. I dialoghi del film, per larga parte, sembrano estratti dai fake trailer di Rodriguez-Tarantino, privati di quell’aura ironica che li rendeva quantomeno divertenti. Qui si ride pure, anche solo di riflesso e per nervosismo, e ci si sente quasi in imbarazzo nel farlo.

    “Non sembra umano, Logan. Non sembra nemmeno un orso!

    Mmm, non mi piace questo tipo.

    È il tuo giorno sfortunato, amico. (colpisce Winnie The Pooh, che resta in piedi) Sei un duro, devo ammetterlo!”

    Per gran parte della storia le suggestione che arrivano sullo schermo sono zeppe di sangue e violenza esplicita, a ben vedere non diverse da quelle di un qualsiasi Venerdì 13 o analoghi, gli stessi film con alternanza di senso di colpa / vendetta di cui abbiamo perso il conto in questi anni. Da sempre sospesi nel desiderio di capire, mentre ne scrivevamo, se davvero valesse la pena parlarne o meno. E mi viene in mente quello che ho sentito dire a Dario Argento dentro a un cinema di Roma, qualche giorno fa: che (parafrasando) i mostri non sono mai solo mostri, ma sono espressioni delle profondità d’animo.

    Perchè dietro un horror non c’è mai solo l’orrore, effettivamente, e lo sappiamo (dovremmo saperlo). È una tentazione concettuale in cui molti sono caduti, in passato, a cominciare dal celebre studio di genere di Carol J. Clover (Men, women and chainsaws), che rispondeva alle accuse di non sense e misoginia mosse a gran parte degli slasher anni 70. Altri tempi, decisamente. Perchè all’epoca quell’orrore si rivolgeva a persone ordinarie che il più delle volte non capivano neanche troppo di rivoluzione culturale, Sessantotto e via dicendo, oggi si rivolge ad una platea che crea meme direttamente in sala e che è abituata a sputare sentenze sui social. Qui non si potrà proporre una raffinata analisi sociologica (anche se Winnie The Pooh in chiave horror è il mito dell’infanzia perduta che si rivolta contro di noi e la nostra presunta adultità). No, non varrà la pena farlo perchè già ne abbiamo letto abbastanza, o perchè no, davvero, l’horror su Winnie The Pooh non l’avrebbe girato manco Peter Jackson o Sam Raimi da giovanissimi per scommessa. Il che magari è un merito, e non ce ne siamo ancora accorti.

    Resta il fatto che un film traumatizzante del genere non può che essere figlio dei tempi dissacranti, privi di eroi, conformisti, cinici e violenti in cui ci troviamo a vivere nostro malgrado. Non è uscito negli anni Ottanta dei satanic panic, non è uscito nei Settanta delle sette ambigue e manipolatrici, nè nei Novanta dell’uso disinvolto di droghe: è uscito oggi, in tempi feroci e a loro modo traumatici, in cui poco o nulla importa del piano simbolico e tutto si sposta sul piano visivo, emozionale, shockante, jump scare. Tempi in cui la paura non è più metafora o metonimia, ma vira sul gusto di shockare fine a se stesso, e tanto basta. Come un bambino viziato e troppo cresciuto, di quelli che si divertono a distruggere i propri giocattoli, rinnegando il passato e cancellando il futuro. Figlio dei tempi, per l’appunto.

    Di OswaldLR - DVD, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=6296170
    Di OswaldLR – DVD, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=6296170

    Con un qualcosa in più, o in meno (dipende dai punti di vista), o con il vincolo di dover per forza di cose accettare quel punto di vista dissacrante, grottesco (e spesso sostanzialmente gratuito) con cui Winnie The Pooh, da orsetto innocuo e spensierato possa diventare un serial killer feroce, addirittura creativo nelle soluzioni che riesce a trovare per uccidere, a cominciare da quella con cui miete una delle prime vittime (usando un gigantesco tritacarne).

    Il film, peraltro, è zeppo di citazioni più o meno esplicite al mondo dell’horror classico, a cominciare dalle soluzioni omicide originali tipo Freddy Krueger a finire agli assassini simbolici, cruenti e creativi di Venerdì 13, Halloween e così via. Ma anche qui: non sembra esserci abbastanza sostanza per poter proporre un qualche paragone degno, che non vada per la consueta celebrazione auto-indulgente dei classici da parte di cineasti incalliti, che forse oggi è un po’ superata dai tempi.

    Che cosa mi vuoi fare? Perchè stai facendo tutto questo? Lasciala andare: hai ucciso troppe persone, Pooh. C’è ancora del buono in te.

    Winnie the Pooh horror, signore e signori. Winnie, con quel tuo ghigno assente, a metà tra l’espressione inquietante di Michael Myers (stalker mostruoso che puniva il desiderio sessuale e i suoi annessi) e quella ontologicamente incazzata di Jason Voorhees (figlio abbandonato da una madre poco presente e oppressiva), si esplica col suo evidente richiamo simbolico al mondo dell’infanzia violata, al fatto che viviamo in uno dei periodi più polarizzati e orrorifici di sempre, al fatto che se davvero non ci è rimasto nemmeno Winnie The Pooh a tranquillizzarci e non mandarci in overthinking, è davvero il caso (forse) di cambiare registro. E mentre ce ne capacitiamo l’ennesimo villain è sempre lì, pronto a punire una nuova giovinezza inconsapevole, vanitosa e traumatizzata, sia pure a costo di farci più ridere che spaventare. Ma anche qui: il riso indotto da certe scene cruente (o improbabili) di Winnie the Pooh: Sangue e Miele è il riflesso di un tabù che non sappiamo accettare, che forse mai accetteremo, e che (se fosse il caso di specificarlo) difficilmente piacerà ai fan “nudi e puri” del cartone originale.

    “È stato Pimpi, quel sadico, si è divertito a torturarmi. Non c’è un motivo. E io non me ne andrò di qui finchè lui non sarà morto. Vieni qui Pimpi, porco schifoso!”

    Per quanto la critica abbia tendenzialmente massacrato questo titolo, è impossibile non riconoscerne qualche merito, in fondo. Non è un horror autoriale, ovviamente, e ci mancherebbe pure. Non c’è l’approfondimento psicologico degno di nota, o forse ce n’è solo un accenno vago: una delle universitarie protagoniste è reduce da un percorso di terapia dopo essere stata assaltata da uno stalker. Questo in fondo è  solo un horror slasher come miriadi ne sono usciti in passato, con l’idea originale di dissacrare un innocente cartone per bambini ed urlare al pubblico di averlo fatto.

    Credits: imdb.com

    Qualsiasi cosa ciò possa significare, in effetti, e con le stesse riserve che abbiamo espresso nel giudicare altri horror analoghi (ce ne sono pure troppi, su questa falsariga) a volte pure di buon livello, ma anche eccessivamente autoindulgenti e compiaciuti di ciò che mostravano. Eppure qui – al netto di tamarrate assortite, soprattutto perchè decontestualizzate – la sostanza si affaccia, a volte, sia pur in modo destrutturato e quasi privo di trama, con ragazzi dai mille problemi e con grottesche (e consuete per il genere) tendenze suicide, mentre Pimpi e Winnie si aggirano nel film ad uccidere gente un po’ a casaccio.

    Credits: imdb.com

    La parte migliore del film, del resta, rimane quella realizzata tipo cartone animato dei minuti iniziali, dotata di una sua solenne dignità e maestria: Cristopher Robin ha smesso di giocare con Winnie e gli altri, è cresciuto, è andato al college, ha scoperto la sessualità, adesso ha una moglie, una vita adulta, un lavoro, e non può più pensare agli animaletti della sua infanzia con cui tante esperienze aveva condiviso. Se facciamo morire la dimensione immaginaria del gioco, in altri termini, siamo destinati a pagarne le conseguenze, mediante la simbolica rivolta dei giocattori dell’infanzia che, a ben vedere, conosciamo almeno dai tempi dell’iconico La bambola assassina. Gli animaletti diventano animalazzi (cit. Simpson) sempre più feroci, regrediti allo stato brado e dediti al cannibalismo per vendetta. Soprattutto, odiano Cristopher Robin, il quale li ha, dal loro punto di vista, abbandonati nel bosco, dove hanno assistito loro malgrado alla morte di uno di loro e dovuto cavarsela da soli.

    Estremo paradosso, Winnie the Pooh: Sangue e Miele non è affatto il vero Winnie the Pooh, se non attraverso richiami ai personaggi (Tigro è stato escluso per motivi di copyright, a quanto pare), e non può fare a meno di Winnie the Pooh originale, perchè in fondo se non ci fossero lui e il buon Pimpi, questo sarebbe l’ennesimo slasher anonimo di cui tra un mese non ricorderemmo neanche il titolo. E allora, forse, vale la pena dare una possibilità al film, sia pure con riserva e con l’idea di essersi tolti la strana curiosità di vederlo.

    Ammesso che, ovviamente, vi aggradi realmente l’idea di assistere a questa insana trasformazione, cosa tutt’altro che ovvia.