Salvatore

  • Il mostro della strada di campagna: vi spaventerà senza mostrare una sola goccia di sangue

    Il mostro della strada di campagna: vi spaventerà senza mostrare una sola goccia di sangue

    Due ragazze inglesi, Jane e Cathy, si trovano in vacanza in Francia a bordo delle proprie bici, fin quando non succede un imprevisto…

    In due parole. Se esistesse un genere “pre-slasher” non ci sono dubbi che “And soon the darkness” potrebbe essere uno dei suoi migliori rappresentanti: nonostante il sottotesto subdolamente violento, nel film non viene sparsa una sola goccia di sangue, e si delinea abilmente, in un gioco di sospettati accennato con cura, un modello di assassino scoperto solo nel finale. Delinea lo scenario di apparente normalità/terrificante realtà a cui Wes Craven, Dario Argento, Aldo Lado, Mario Bava e molti altri finiranno per rifarsi. Di culto.

    Partendo da presupposti apparentemente banali (due giovani ragazze ed un “orco” che sembra perseguitarle) Robert Fuest – che l’anno successivò dirigerà L’abominevole dottor Phibes – sviluppa un intreccio diretto, semplice e coinvolgente, avendo cura di inserire pochi personaggi e focalizzando l’ambientazione, in gran parte, all’interno di un scenario archetipico (un bosco). Appare da subito piuttosto chiaro che si tratti di un film con un orrore di fondo nascosto, subdolo e sempre accennato, che inizia a decollare sul serio solo dopo la prima mezz’ora, inchiodando inesorabilmente, a quel punto, lo spettatore alla poltrona.

    I presupposti sono i soliti, quelli tipici del cinema di genere dell’epoca, e sembrano dipingere lo scenario in cui saranno ambientati almeno altre due celebri (e controverse) pellicole: L’ultima casa a sinistra di Wes Craven (1972) e I spit on your grave di Zarchi (1978). Pellicole in cui l’orrore esce fuori dall’isolamento di individui giovani di sesso femminile, e che deriva in buona parte dalla loro innata ingenuità – oltre che, naturalmente, dalla violenza subdola e repressa di un mondo ipocrita o perbenista. Nonostante in questa sede – è bene specificare – non siano presenti le note estremizzazioni ultra-violente dei due citati, si nota da subito come iniziasse a “bollire in pentola” un certo spirito, un’attitudine – che di lì a poco sarebbe diventata in parte slasher, in parte revenge movie.

    Nonostante “Il mostro della strada di campagna” non possieda questo tipo di caratteristiche, ma sia soltanto una sorta di compendio essenziale del genere – per questa regione accessibile anche dal pubblico più impressionabile – risulta essenziale dal punto di vista storico, perchè delinea lo scenario classico (e non è poco), ma fa anche di più: suggerisce stilemi, drammatizzazioni e caratteri dei personaggi a cui fin troppi registi faranno riferimento nel seguito. Il gioco del “tutti-sospettati”, del resto, è realizzato con enorme cura: tanta da evocare i clamorosi “giochi di prestigio visuali” a cui Dario argento, tanto per citare uno dei più famosi, ha sempre cosparso le proprie pellicole. Chi sarà l’assassino? Forse il marito della barista? L’uomo con la vespa? Che non sia l’insegnante di inglese dall’aspetto pacato?

    Il tutto senza alcun eccesso visivo o concettuale, ma narrando la storia con una sorta di “pacatezza” che la rende, in fin dei conti, ancora più spaventosa. “Il mostro della strada di campagna“, orrendo titolo italiano corrispondente ad un più suggestivo “And soon the darkeness“, definisce un intreccio che, visto oggi, appare di natura quasi ordinaria, neanche troppo esaltante. Uno svolgimento obiettivamente accattivante, minato da qualche banalità di troppo nella fase inizale che poi si delinea come un crescendo di tensione, fino ad un clamoroso finale a sorpresa: una sorpresa che non appare troppo inattesa, che forse molti potranno indovinare prima del tempo ma che è di natura archetipica, e ce ne accorgiamo contestualizzando al periodo di uscita (1970).

    Ancora di più in ragione di questo anticipo clamoroso rispetto a molti altri epigoni usciti fuori nel seguito: le tante “variazioni sul tema” che i cinefili più appassionati amano ancora oggi. I volti candidi di Michele Dotrice e Pamela Franklin, di fatto, finiscono per rappresentare l’innocenza di una generazione allergica agli stereotipi, ed alla riscoperta di una libertà perduta sulla strada (Easy rider, uscito un anno prima), valori sviliti da un mondo incomprensibile, indifferente, retrogrado e per certi versi a loro avverso.

    In questo il film getta le basi per pellicole come il claustrofobico L’ultimo treno della notte (che uscì cinque anni dopo): in definitiva ciò finisce per rendere And soon the darkness” una vera pietra miliare del genere. Un genere che si trova ancora in uno stato embrionalmente slasher (Reazione a catena di Mario Bava uscì solo l’anno successivo), e che quindi è prematuro definire tale per quanto esso, nel lungo periodo, seguirà molte di queste direttive cinematografiche.

  • Espressionismo, simbolismo e follia dentro “Il gabinetto del Dottor Caligari”

    Espressionismo, simbolismo e follia dentro “Il gabinetto del Dottor Caligari”

    Follia contro ragione, fantasia contro realtà: uno dei più celebri masterpiece dell’orrore mai realizzati.

    In breve. Film stra-cult perchè ha inventato molti consolidati stereotipi thriller, e per la meravigliosa forma espressionistica, a tratti impensabile per l’epoca. Contiene un interessante doppio finale “involontario” davvero clamoroso.

    Davvero singolare questo esempio di cinema muto risalente alla Germania del 1920, contato tra i primissimi horror della storia (Nosferatu di Murnau uscirà solo due anni dopo, così come Freaks di Browning). Girato secondo i canoni dell’espressionismo, si presenta come un film seminale adatto, oggi, probabilmente solo agli appassionati di cinema “assoluti” o, al limite, agli hacker di pellicole alla ricerca di immagini insolite. Com’è ovvio non esiste parlato a livello di suono, ma solo una lunga ed alienante colonna sonora curata da Giuseppe Becce.

    La storia è quella di un ipnotista che usa come un fenomeno da baraccone Cesare, un sonnambulo con la capacità singolare di predire il futuro delle persone. Dopo due misteriose morti avvenute in zona, una delle quali realizza esattamente la “profezia”, esce fuori che l’inquietante ipnotista avrebbe trovato un modo per controllare la volontà del giovane e costringerlo, durante il sonno, a compiere omicidi. Inoltre l’uomo si sarebbe immedesimato nella figura del Dottor Caligari, che aveva compiuto secoli prima delle approfondite ricerche sull’argomento ipnosi: come rivelazione definitiva si scopre che egli è, di fatto, il direttore di un manicomio che ha perso, neanche a dirlo, i lumi della ragione (i richiami al celebre “Dottor Catrame e Professor Piuma” di E. A. Poe sembrano sostanziali).

    Finita qui? Non proprio: non è infatti possibile discutere de “Il gabinetto del Dottor Caligari” senza considerare la parte iniziale e finale, inserite per imposizione del governo dell’epoca allo scopo di cambiarne il significato, letto addirittura come sovversivo. E così la versione definitiva del film viene farcita con un “panino” esterno, capace di stravolgere il messaggio di fondo e facendo apparire  il tutto come l’allucinazione di un pazzo, che avrebbe inventato quella storia avendo in odio il direttore del manicomio in cui è rinchiuso. Col senno di poi, una volta tanto potremmo dire che la censura è riuscita a fare qualcosa di buono, anche se così facendo 1) il sottotesto del film viene annullato del tutto e 2) si è indotti a fare considerazioni piuttosto brutali contro il cinema stesso e, come ha scritto molto giustamente Exxagon, far apparire che “la visione espressionista sia quella di una folle, ovvero l’arte moderna non ha senso ed è pura pazzia“. Ad ogni modo questo particolarissimo espediente narrativo del doppio finale “innestato” diventerà un classico di un certo thriller moderno, nel quale la demolizione delle apparenze è condizione necessaria per svelarà la cruda realtà dei fatti.

    La trama non è troppo lineare, il film rimane comunque interessante mentre, a onor del vero, gli elementi bizzarri de “Il gabinetto del Dottor Caligari” non sono pochi, anzi occupano parte preponderante della pellicola: tuttavia, considerando l’epoca ed i mezzi annessi, l’opera è di livello davvero notevole e finirà per piacere anche a chi non ama particolarmente certi virtuosismi. Molto degni di nota gli effetti visivi globalmente presenti, mentre la sequenzialità della storia è resa in modo ottimale dalla successiva colorazione della pellicola (avvenuta nel 1996) che scandisce, ad esempio, i notturni in azzurro.  Tra le curiosità più prettamente cinematografiche, infine, vi è l’interpretazione data da alcuni riguardo al misterioso Cesare, che – per via del comportamento e del suo dormire in una cassa di legno – sembrerebbe una specie di proto-zombie, il che smentirebbe White Zombi del 1932 come primo film di questo tipo. L’ipotesi è indubbiamente affascinante ma, di fatto, non mi pare nè smentibile nè confermabile sulla base a quello che vediamo.

  • Cospirators of pleasure: il surrealismo di Svankmajer alla sua massima espressione

    Cospirators of pleasure: il surrealismo di Svankmajer alla sua massima espressione

    Sei individui insospettabili (tre uomini e tre donne) hanno delle forme di feticismo molto particolari, che coltivano segretamente.

    In breve. Un capolovoro di cinema surrealista, vero marchio di fabbrica di Švankmajer.

    La Praga dei giorni nostri (siamo a metà anni ’90, periodo di uscita della pellicola) è l’ambientazione di questo particolare film di Švankmajer, successivo a Lekce Faust ed incentrato, questa volta, sulle ossessioni sessuali e sui feticci di sei personaggi apparentemente comuni e senz’anima.

    Conspirators of Pleasure (Spiklenci slasti, in Italia Cospiratori del piacere) assume spesso e volentieri i toni della commedia grottesca alla Monty Python, dove le situazioni assurde sono non soltanto all’ordine del giorno, ma lo sono a tal punto da risultare disorientanti per lo spettatore. Che potrebbe strizzare gli occhi a più riprese, incredulo o in presa ad un riso isterico, chiedendosi cosa stia realmente guardando – ed è già un’ottima notizia, visto che una trama sostanzialmente non esiste e si sfrutta, se vogliamo, un meccanismo narrativo abbastanza sulla falsariga di Slacker (la pura prossimità ambientale per sequenziare le scene, personaggi presi sostanzialmente dalla strada, la casualità degli avvenimenti).

    Presentato per la prima volta al Festival di Locarno nel 1996, Cospirators of pleasure si apre con immagini fortemente allusive (sesso con animali, masturbazione e varie forme di coito, inclusa una carriola con tanto di ruota) ma poi, a dispetto delle premesse, non contiene nulla di realmente esplicito. I sei personaggi sostanzialmente non si conoscono, se non per sguardi che vorrebbero dire tutto senza dire nulla, e poi scoprono avere qualcosa in comune: tre sono attratti dai rimanenti in modo segreto, a volte ricambiando a volte no, sempre con la costante di non vivere alcun rapporto fisico.

    Così assistiamo alla giornalista televisiva che ama farsi succhiare gli alluci dai pesci che nasconde nella camera, il marito coi baffi che si gode il proprio feticismo tattile per spazzole, chiodi e pennelli da barba, l’edicolante che sogna sessualmente la giornalista e si costruisce un complesso macchinario per farsi masturbare mentre la guarda in TV, l’uomo camuffato da gallo che sogna un rapporto sadico o voodoo con la propria vicina (senza sapere che quest’ultima si sta costruendo un suo feticcio ripieno di paglia, con lo scopo di torturarlo), la postina che modella pazientemente palline di pane che infila nel naso e nelle orecchie prima di andare a dormire. Ci sarebbero alcuni parallelismi con il Cronenberg più estremo e fetish (Crash, naturalmente, ma anche Videodrome: impossibile non pensarci mentre vediamo l’edicolante leccare lo schermo), ma Svankmajer basta a se stesso e soddisfa la visione appieno: l’unico patto da rispettare, da parte dello spettatore, è quello di avere presente cosa sia il surrealismo. Altrimenti il doppio livello di realtà e surrealtà, di avvenimenti sarebbero impossibili da comprendere, e si frammenterebbero in una storia fine a se stessa (ammesso che quest’ultima sia davvero delineabile senza “surrealtà”); il tutto, a formare un caleindoscopio emotivo di quelli difficili da dimenticare.

    Nel film, peraltro, non esiste alcun dialogo, gli effetti sonori sono volutamente esasperati e la musica classica accompagna quasi la totalità del film. Il messaggio di fondo, in effetti, è disperato quanto grottesco: ogni personaggio finisce per soddisfare un desiderio sessuale inappagato costruendosi accuratamente degli oggetti per soddisfarlo o, al limite, collezionando qualcosa che possa “riempirli” (le briciole di pane) o soddisfarli quantomeno a livello tattile (le spazzole, le mani meccaniche).

    Neanche fossero cuochi ispirati quanto esigenti, si inventano – con l’aiuto della gamma più incredibile di oggetti, animali, dispositivi che siano – il proprio “piatto” preferito, unico modo per anelare ad un orgasmo totale. Non c’è altro modo per descrivere Cospiratori del piacere che non quello di ricorrere a simili analogie o sinestesie, piaccia o meno. Una postina, un negoziante, un presentatore televisivo, un detective e due coinquilini scovano gli oggetti di cui hanno bisogno ricorrendo agli espedienti più fantasiosi: ed è tutto qui, o quasi. In fondo la vita non è che il background sul quale costruire esperienze sessuali stimolanti, sembra suggerire il regista: ma l’erotismo di Svankmajer è poco esplicito, ed è prima di tutto anticonvenzionale (il collage di riviste erotiche utilizzato per costruire il gallo di cartapesta).

    Con questo film qualcuno ha scomodato Sade, moltissimi Freud, ma rimane una semplice considerazione di fondo: questa è avanguardia, prima di tutto, e come espressione tale si affida esclusivamente alla suggestione, all’inconscio, agli istinti repressi che accomunano i personaggi e che (suggerisce la storia) sono destinati a non risolversi, mai. La stop-motion inserita nella pellicola è il tocco di genio determinante, poi, per definire questo film uno dei capolavori surrealisti contemporanei.

    Per molti, probabilmente non per tutti.

  • Revenge: il revenge movie della Fargeat che (non) lascia il segno

    Revenge: il revenge movie della Fargeat che (non) lascia il segno

    Tre uomini e l’amante di uno di loro si ritrovano in una villa sperduta per una battuta di caccia: la donna, bellissima quanto frivola, attira le loro attenzioni facendo degenerare la situazione.

    In breve. Eccessivo e violento, si incentra sulla martirizzazione di un corpo femminile che sembra nato per l’eros: in questo, la Fargeat compie una nobile operazione anti-maschilista, filmando un’opera autenticamente sovversiva, che farà parlare di sè per buone ragioni. Per altri versi, pero’, il film non regge, e non è credibile come dovrebbe sembrare.

    Nell’intero suo concepimento, e per come finisce per presentarsi al grande pubblico, questo Revenge sembrerebbe avere le carte in regola per essere considerato un film di livello: del resto, già solo l’inquadratura insistita e dettagliata che lo caratterizza (l’enorme deserto nella zona del Grand Canyon) è un biglietto da visita fin troppo eloquente.

    Sono anche chiari i modelli di riferimento che sono stati sviluppati: Wes Craven (che sembra quasi ovvio, ma non era banale riprendere certi temi oggi), ma anche Lucio Fulci per alcune sequenze splatter (gli occhi trafitti da una lama, il cadavere che riemerge dall’acqua).

    L’insieme di dettagli che caratterizza Revenge finisce, però, per risultare vagamente sconnesso, soprattutto per il suo insistere sulla quantità di sangue finto – che, a quanto pare, fu largamente sottostimato in termini di litri necessari. C’è tanto plasma sgorgante in Revenge, insomma, che nemmeno in uno splatter puro: questo per molti è diventato un pretesto per far notare quanto rischiasse di essere poco verosimile. Da un lato personaggi che non muoiono (pur “avendo il dovere” di farlo), e soprattutto (a mio parere) la circostanza di sopravvivenza della protagonista si prefigura, forse, come la meno realistica in assoluto. Ed è proprio  da qui che si diparte il clou della trama, ed è questo che mi ha convinto meno di qualsiasi altra cosa.

    Coralie Fargeat è la regista (esordiente) alle prese con il modello del rape’n revenge, ad oggi considerato antisociale a priori da gran parte della critica e del pubblico; ma qui siamo di fronte alla classica eccezione che smentisce il trend. Una regista donna che gira, con la piena consapevolezza dei propri mezzi tecnici ed espressivi, un film contro la mercificazione dell’immagine femminile, dando un ampio saggio della bellezza, innegabile, del corpo di Matilda Lutz per poi capovolgere l’assunto e renderlo selvaggio, irrazionale e violento. Se nulla, poi, in Revenge sembra casuale o “buttato lì”, troppo spesso la trama finisce per scontrarsi con la logica, distrando così dagli intenti più nobili, e anche solo dal semplice godersi il film. D’accordo che poi, in ambito exploitation, è consuetudine effettuare degli “azzardi” poco coerenti come sviluppo narrativo; non bisognerebbe nemmeno dimenticare che Revenge è sostanzialmente un b-movie – per quanto girato “alla Tarantino” (ovvero facendo elegantemente finta di avere pochi mezzi). Per cui la critica più razionale, per quanto lecita, finisce per doversi attenuare, un po’ per forza di cose un po’ perchè il film è impostato così.

    Non c’è dubbio, comunque, che il film funzioni da molti altri punti di vista: la scelta dei personaggi è azzeccata, a cominciare dall’inaspettata protagonista (prima frivola e incosciente, poi determinata e feroce) a finire alle tre figure maschili, tre declinazioni di “orchi” molto diversi tra loro, sia per spessore che per potenzialità.

    La regista sembra aver voluto creare un sano exploitation incentrato sugli stereotipi del genere, giocando sui consueti contraccolpi a sorpresa, e regalando al pubblico momenti violentissimi quanto frustranti (o liberatori) all’interno della trama. Del resto, chiunque abbia visto La casa sperduta nel parco, ad esempio, non dovrebbe avere difficoltà a riconoscere il modello che è stato seguito: i presupposti sono quasi identici – per quanto ci fosse forse maggiore credibilità nel lavoro di Deodato.

    L’unico modo per visionare Revenge senza farsi trascinare da una critica inutilmente feroce, che il film a conti fatti non sembra meritare del tutto, è quello di farsi avvolgere dal clima puramente ottantiano che lo caratterizza, divertendosi anche a cogliere le citazioni cosparse nella pellicola (The descent, Rambo). Revenge sarebbe forse potuto essere qualcosa di meglio, essenzializzando e rinunciando a simbolismi suggestivi quanto improbabili: l’insistere sulle tracce di sangue nel rapporto predatore-preda, soprattutto, che farà venire ai più sarcastici spettatori la voglia di fare un esposto all’Avis per tutto il plasma sprecato. E soprattutto: mai chiedersi – nel modo più assoluto, direi – come sia possibile che i personaggi sopravvivano e riescano a maneggiare armi quasi completamente dissanguati. Questo è un b-movie puro, nel bene e nel male – e finchè morte non ci separi.

    Menzione particolare per la scelta delle musiche, infine, ispirate ai lavori – tra gli altri – di John Carpenter.

  • Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto: l’uso della libertà, secondo E. Petri

    Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto: l’uso della libertà, secondo E. Petri

    Via del Tempio, 1: Augusta Terzi viene assassinata dal capo della sezione politica della questura: l’assassino non solo si auto-denuncia, ma cosparge la scena di prove della propria colpevolezza. La macchina burocratica e istituzionale della polizia, corrotta fino all’osso, non potrà mai attivarsi contro il protagonista, in virtù  della massima “Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano“. Questa clamorosa conclusione è ciò a cui ci porta il capolavoro di Elio Petri, uno dei film più famosi del regista romano che si colloca nel clima turbolento degli anni Settanta italiani: all’uscita del film si vociferò di un possibile sequestro, anche per via della concomitanza con gli attentati di piazza Fontana e la morte di Pinelli (la critica di Lotta Continua vide nella figura del protagonista un alias del commissario Calabresi).

    Al di là dei contenuti politici – spesso abusati o retorici in altri lavori – e dell’ovvia metafora contro il Potere e le sue perversioni, il film è denso di riferimenti culturali, dallo stile brechtiano e straniante di Volontè (in una delle sue più belle interpretazioni) all’intero paradosso di matrice kafkiana che avvolge l’intera storia. Il capo della sezione omicidi ha appena ucciso la propria amante, e sembra beffarsi delle stesse istituzioni che proteggono lui come altri colleghi corrotti: è una situazione di stallo circolare, in cui non sembra esserci speranza di giustizia se non per la sparuta ed isolata figura dell’anarchico Pace (nomen omen), unico relativo barlume di speranza e positività della storia.

    Nessuna impronta interessante, ci sono solo le sue, dottore… sì, su una maniglia, e su una tazzina di caffè, dottore, si vede che lei avrà avuto sonno. Questo nella doccia, lì siamo entrati tutti, anche il dottor Mangani ricorda? E poi nella cucina, anche lì siamo entrati  tutti… e sempre distrattamente avrà preso qualche cosa senza precauzioni… ecco, e poi sul telefono… ma lei senza dubbio avrà telefonato, ricordo benissimo che lei telefonò, e poi su un bicchierino da liquore, ma lei si sentì male, quella sera, un bicchierino di Fernet glielo versai io, si ricorda (Dott. Panunzio)

    Un’istituzione giudiziaria evoluta in una macchina cinica e burocratese, in cui nessun uomo comune è realmente al sicuro – ma che, al tempo stesso, si cura bene di proteggere i più forti. Nel farlo, il vero colpo di genio è l’uso del frame tipico del thriller all’italiana, tanto che le prime sequenze evocano i migliori lavori di Fulci o Argento, per poi diventare cinema politico con una forte connotazione “teatrale”. Tale sfumatura è visibile in diversi spaccati del film, come nei frammenti di riflessione interiore del protagonista, o quando ascolta la propria confessione registrata e ne ripete, drammatizzandoli, alcuni passaggi. L’aspetto singolare del film è legato al fatto che l’intera vincenda – quello che sarebbe un giallo, in altre circostanze, con finale a sorpresa – sono orchestrati dal protagonista che si beffa deliberatamente della legge che rappresenta.

    La Bolkan è una borghese irrequieta, attratta morbosamente dai segreti del poliziotto e, per estensione, invaghita del Potere (tanto feroce quanto infantile, in questa rappresentazione), arrivando da farsi trattare da bambola nella grottesca ricostruzione di più scene del delitto. Il punto cardine del film passa, poi, per un’intuizione brutale: l’identificazione da parte delle autorità del reato politico con quello criminale (sotto ogni sovversivo può nascondersi un criminale, sotto ogni criminale può nascondersi un sovversivo), il che porta la stessa a prendersi gioco di tutto il resto, e a schedare ferocemente i cittadini infangandoli ed accusandoli a convenienza. Le indagini sull’assassino della Terzi, peraltro, sono svolte da umili individui sottomessi al capo dell’attuale sezione politica, che vivono in perenne soggezione nei suoi confronti e sembrano non avere modo di poterlo incriminare, neanche volendolo sul serio. Uno scenario kafkiano fatto di accenni, riferimenti occulti e cenni di intesa, vissuta dal punto di vista del più forte ed in cui è evidente il senso di straniamento e di assurdo, che non avrebbe sfigurato in una tragi-commedia di Beckett o Ionesco.

    L’importanza culturale di Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto è molteplice: al di là del tentato risveglio delle coscienze e del forte senso di denuncia, si tratta di un importante passo avanti verso una società più adulta, […] più sicura di sé e della democrazia da potersi permettere di criticare istituti tenuti per sacri (corsivo tratto dal Corriere della sera); non quindi una semplice analisi del problema, ma anche una possibile soluzione ed una potenziale svolta dietro l’angolo. Non è un caso che l’unico vero testimone del delitto sia un cittadino proclamatosi anarchico individualista, la cui effettiva efficacia d’azione è comunque messa in discussione dall’ambigua pantomima del poliziotto. La riunione “un po’ all’americana” con il delirio di onnipotenza del dirigente stesso (il cui nome non viene mai pronunciato), il successivo svelarsi di un archivio in corso di informatizzazione (nel quale vengono regolarmente schedati soggetti politici e comuni cittadini: una specie di NSA ante litteram, vista oggi), e la discussione con il commendatore che considera irrilevante l’auto-denuncia del collega (“per me è stato… il marito“) sono soltanto tre dei passaggi magistrali di Investigation of a Citizen Above Suspicion.

    L’uso della libertà minaccia da tutte le parti i poteri tradizionali, le autorità costituite… L’uso della libertà, che tende a fare di qualsiasi cittadino un giudice, che ci impedisce di espletare liberamente le nostre sacrosante funzioni. Noi siamo a guardia della legge che vogliamo immutabile, scolpita nel tempo. Il popolo è minorenne, la città è malata, ad altri spetta il compito di curare e di educare, a noi il dovere di reprimere! La repressione è il nostro vaccino! Repressione è civiltà!

    Un film dai registri perfetti, dalle sublimi interpretazioni di tutti i personaggi, i quali recitano un canovaccio dell’assurdo in cui sono tutti colpevoli ma, al tempo stesso, nessuno lo è davvero. Il black humor e la feroce satira di cui è cosparso il film, elemento considerevole di altri lavori di questo genere (ad esempio Signore, Signori, Buonanotte), rendono questo lavoro di Petri forse tra i film italiani più importanti e maturi di sempre. Prima parte della “Trilogia della Nevrosi“, che sarà seguita da La classe operaia va in paradiso (1971) e La proprietà non è più un furto (1973).