Un gruppo di naufraghi, il Triangolo delle Bermuda ed un generale delle SS che comanda un manipolo di soldati zombi invincibili: per usare una metafora calcistica, il film vince (per la tripla interpretazione Carradine, Cushing, Adams), ma non convince affatto nella sua interezza.
In due parole. Esperimenti tedeschi segreti hanno permesso di realizzare dei pericolosi soldati modificati geneticamente, sopravvissuti alla guerra fino agli anni 70. Nonostante l’interpretazione di due “mostri sacri” quali John Carradine (il capitano della nave) e Peter Cushing (il comandante SS sull’isola), il film finisce per essere un’occasione persa.
L’ispirazione della trama è basata su alcune notissime dietrologie, come confermato dall’introduzione originale del film in cui si racconta di soldati tedeschi visti combattere a mani nude durante la seconda guerra mondiale, apparentemente invincibili e mai catturati vivi. Si tratta di una delle note teorie del complotto nazista, con annessa creazione mediante ingegneria genetica di superguerrieri, unite alle ipotesi inquietanti sul Triangolo delle Bermuda. Non si può fare a meno di notare come la storia sia piuttosto fragile nel suo incedere, con momenti decisamente poco credibili ed un po’ campati in aria (l’attacco di claustrofobia di uno dei protagonisti), mentre altre trovate appaiono piuttosto azzeccate, quantomeno per la loro portata “economica” (ad esempio il regista riuscì a far sembrare numeroso un esercito di soli otto attori-zombi, e ridusse a quattro giorni le riprese con gli attori più famosi per poter rientrare nel budget).
Il film, per la verità, non dice moltissimo: piuttosto prevedibile nello sviluppo, un po’ lento, poco coinvolgente ed interpretato in modo piatto: tuttavia Ken Weiderhorn (regista de “Il ritorno dei morti viventi – parte II” come de “I paraculissimi”) fornisce una prova sostanzialmente non disprezzabile. Un film che potrebbe divertire per la sua ostentata serietà, che racconta una trama prevedibile che fa quasi passare la voglia, e che vive di un’eccessiva ripetitività dell’azione (gli zombi tendono a ripetersi fin troppo), ed è bene che il pubblico abituato a ben altri prodotti stia alla larga.
Gli automi nazisti sono stati realizzati sui corpi dei soldati migliori dell’esercito tedesco, ed hanno sviluppato forza disumana, capacità di stare sott’acqua e di essere “non morti, non vivi, ma qualcosa di mezzo“: essi non tarderanno ad attaccare gli sventurati naufraghi dell’isola, convinti di essere ancora in guerra agli ordini del proprio comandante. Esiste soltanto un modo per sconfiggerli, e sarà la giovane Brooke Adams a scoprirlo incontrandone uno; nel frattempo pero’, si sono create delle aspettative nello spettatore, che si aspetta una svolta al piattume che lentamente sommerge lo schermo, fino ad arrivare ad un finale amaro e piuttosto “vuoto”.
La tagline del DVD italiano, in versione integrale con reintegrazione di tutte le scene originali con sottotitoli, è da apoteosi del kitsch, e riassume efficacemente l’intero film: “zombi nazisti in cerca di prede umane“. Dato che la storia non è impresentabile di per sè, “L’occhio nel triangolo” sembra – visto oggi – un’occasione persa o, se preferite, un cult mancato.
Vieni avanti cretino, a cominciare dal suo epico inizio col il monologo dentro al cesso di Lino Banfi, è un piccolo capolavoro nel mare dei film dell’epoca, fatto di momenti realmente esilaranti e reso digeribile (prima che cult)” da una bella struttura ad episodi. Il protagonista che cerca lavoro appena uscito dal carcere, infatti, diventa un valido pretesto perchè Banfi regali al pubblico quella che è rimasta una delle interpretazioni più amate fino ad oggi.
Come soy desperado / pero’ non mi so’ sparado
sono pieno de libido / arrapeto ed ingrifìdo
e anche un pooooooo’…oooo-oooh… rincoglionido!
Pasquale Baudaffi è un ex galeotto appena scarcerato che il cugino (Franco Bacardi) cerca di aiutare a trovare un’occupazione: questo diventa la scusa perchè da un lato Banfi faccia sfoggio – come accennavamo – delle sue doti di caratterista, e perchè dall’altro Luciano Salce (che si diletta di meta-cinema nei panni di se stesso nel finale) possa mostrare vizi (tanti) e virtù (poche) dell’italiano medio: esaurito, stressato, rincoglionito al cubo e ossessionato dal desiderio di sesso facile e senza pensieri.
Molte scene sono tratte direttamente dai classici dell’avanspettacolo, a cominciare dall’equivoco dentista-bordello (con Banfi che per 10 minuti circa scambia l’uno per l’altro), a continuare per la scenetta dal meccanico con strip-tease della bella, disperata e scervellata Michela Miti, a finire con la scena mitica degli schiaffi, tutta in dialetto pugliese e sottotitolata in arabo. E come dimenticare, soprattutto, “la sua soddisfazione è il nostro miglior premio! … piripiripiripiripiripiri” che si fa beffe delle manie industrialiste di produttività, senza risultare mai greve, e con un certo piglio non-sense.
Pasquale è prima indotto a recarsi in un bordello, che in realtà è uno studio dentistico nel quale si consumano una serie di equivoci clamorosi: successivamente prova a fare il meccanico, va all’ufficio di collocamènDo tentando di avere l’autorizzazione a fare il cacciatore, prova a fare il tecnico-elettronico, e poi anche il cantante (Filomegna in barese-spagnolo è un capolavoro totale del trash, perltro completamente improvvisato a quanto pare).
Alcuni momenti non spiccano per brillantezza, come la scena in cui il cugino cerca di nascondere la propria relazione clandestina alla moglie servendosi di Banfi come goffa spalla, ma al di là di mostrare belle donne un po’ dovunque, l’intenzione di Vieni avanti cretino è quella di divertire con spunti di intelligenza – a differenza di altri film del genere – al di sopra della media.
Il film vive comunque vari momenti deboli (la comparsata dell’affascinante Michela Miti, per quanto gradevole per lo scompiglio ormonale maschile, c’entra come i cavoli a merenda e potrebbe risultare irritante), che pero’ si controbilanciano grazie alle numerose scenette efficaci e dal ritmo perfetto. Questo avviene soprattutto nella seconda metà del film, almeno fin quando non arriva la notissima scenetta nell’industria elettronica, tasto-rosso-verde e piri-piri-piri-piri-piri.
Tra le interpreti meno note, Moana Pozzi (poco riconoscibile, ma accreditata come l’assistente di laboratorio), oltre alla bella Francesca Viscardi (che in quel periodo fece anche Tenebre di Dario Argento). La nudità femminile del film, sempre sospesa in comportamenti surreali delle donne in questione (belle o brutte che siano, in costante attesa di accoppiamento col primo che incontrano): fa ridere il consueto tono sessista con cui tali corpi sono ritratti, senza pero’ cambiare nulla al senso ed al divertimento del film stesso.
La scena di Banfi operaio nell’industria elettronica, se da un lato entra nella storia del cinema per il suo compiaciuto e demenziale non-sense (Mel Brooks non avrebbe saputo fare di meglio), è stata da alcuni paragonata al celebre film di Chaplin Tempi Moderni che ritrae impietosamente (e con la giusta leggerezza, se vogliamo) il rapporto uomo-macchina. Un paragone che regge francamente poco, ripensandoci oggi, ma che nulla toglie al carattere straordinario di questo film dei primi anni 80 ed alle sue irresistibili macchiette da cabaret.
Un film leggendario e divertentissimo: uno dei miei preferiti nel panorama del cosiddetto, e spesso abusato, genere trash.
Gilderoy è un fonico inglese inviato a Roma per lavorare ad un film. Una volta sul posto, si rende conto che qualcosa non va: l’atmosfera è tesa, il rimborso del suo viaggio tarda ad arrivare e la pellicola non è ciò che si aspettava.
In breve. Meta-horror semplice ed originale, relegato ad una dimensione surrealista. Un terrore che si trova ad essere, atipicamente, di parola: difficile da raccontare quanto affascinante.
Il curioso titolo del film fa riferimento al mezzosoprano Cathy Berberian, cantante lirica virtuosa e moglie del musicista (pioniere dell’elettronica sperimentale) Luciano Berio. Quest’ultimo pare abbia molto influenzato lo stile di Strickland, che racconta la storia mediante una sequenza minimalista (e dai tratti surreali) di scene. In esse è facile seguire la storia ma è difficile, al tempo stesso, cogliere il senso della condizione kafkiana del protagonista. Ad ogni modo Berberian Sound Studio non compare mai nei titoli di testa: all’inizio vediamo infatti il nome del film oggetto della storia, Il vortice equestre che sembra essere, fin dall’inizio, una storia di stregoneria. Non viene volutamente chiarita la cosa, a questo punto, ed il film nel frattempo prosegue con quest’aura di mistero e di curiosità indotta.
Strickland dirige, atipicamente, un thriller visto da “dietro le quinte”, in particolare dall’ipotetico studio di doppiaggio di un horror italiano anni ’70: luogo in cui, in modo impeccabile, vengono mostrati (ed omaggiati) i trucchi del mestiere degli effettisti dell’epoca. Il tutto assume quasi la parvenza di un rituale religioso, un rispetto omaggio ai maestri del genere (da Mario Bava in poi) e, per assurdo, quasi a discapito dell’intreccio, il quale assume un’importanza molto contenuta (quanto giustificata, tutto sommato). Le scene gore e splatter, ad esempio, vengono fatte sentire (e non mostrate!) in modo quasi documentaristico; delle urla delle streghe torturate nel fake horror Il vortice equestre vediamo solo le smorfie di dolore delle doppiatrici. E per qualche straniante motivo, inducono tensione e fanno paura lo stesso. Il senso dell’ambizioso progetto di Strickland rimane criptico per molti minuti: il tutto fino alla rivelazione che, probabilmente, ogni personaggio si stava già rivedendo nel film stesso.
Berberian Sound Studio (…o forse Il vortice equestre!) viene diretto con classe e conoscenza del genere dal regista, grazie all’uso abbondante di dettagli e primi piani, ironizzando sui modi composti del protagonista contrapposti a quelli burberi di tutti gli altri. Dal punto di vista degli appassionati del genere, poi, viene mostrato l’ingegnoso riutilizzo di martelli, padelle e coltelli, qui usati per distruggere ortofrutta di ogni tipo (ovviamente per simulare il suono delle scene più macabre: cadute rovinose, capelli strappati, torture con ferri roventi e via dicendo).
È tutto finto, lo sappiamo bene, ma è difficile non farsi percorrere da un brivido lungo la schiena mentre vediamo Gilderoy attraversare questo mondo che non conosceva, e soprattutto (scena molto emblematica) trafiggere con malcelato gusto un cavolo, mentre sonorizza una delle scene più complesse (e mentre, forse, il confine tra la sua follia e lucidità sembra essere stato smarrito per sempre).
Nel mentre, vengono evidenziati i rapporti esclusivamente conflittuali tra i personaggi (basati quasi sempre su rapporti di potere, soldi, sesso e prepotenza), personaggi che sono quasi tutti sulfurei e misteriosi oppure, al contrario, cinici e zoticoni. Dell’horror incluso nella trama, Il vortice equestre (che a più riprese e per varie assonanze richiama Suspiria) non scorgiamo ancora nulla. Vediamo solo un gruppo di produttori, tecnici o registi privi di scrupoli, abili solo a procacciare nuove doppiatrici (non certo per meriti artistici), e cercare nervosamente di finire il doppiaggio di un film che degrada, lentamente, in una spirale mostruosa, della quale è impossibile scorgere l’inizio e la fine. Quasi un nastro di Moebius, a questo punto, nel quale anche il mite Gilderoy sembra destinato a smarrirsi per sempre.
Un meta-horror, quindi, perchè racconta la storia del genere usando le situazioni e gli strumenti dello stesso, doppiato pazientemente scena dopo scena, di cui all’inizio non vedevamo nulla – salvo improvvisamente accorgerci che lo stavamo già guardando.
E qui l’omaggio, oltre ai maestri dell’horror nostrano come Argento e Fulci (senza dimenticare Angoscia di Bigas Luna ed il Lamberto Bava di Demoni), si deve a John Carpenter ed alle sue intuizioni meta-cinematografiche, ovvero Il seme della follia, film che viene omaggiato abbastanza chiaramente in una sequenza: quella in cui Gilderoy vede se stesso aggredito dal killer, e da allora inizierà a non parlare più in inglese. Ulteriore peculiarità di Berberian Sound Studio, infatti, è che si tratta di un horror di parola nel senso stretto del termine – e viene in mente l’analogo Pontypool, a questo punto – che viene anche recitato in due lingue: italiano ed inglese, che ogni personaggio parla più o meno fluentemente (per necessità di trama, ovviamente, non per vezzo). Un dettaglio, quest’ultimo, molto interessante ed originale, che se da un lato ha contribuito a rendere unico questo film, dall’altro, probabilmente, ha frenato un po’ la sua fama, soprattutto rispetto al pubblico che (senza doppiaggio e/o sottotitoli in italiano) non vuole saperne di vedere film.
Reazione curiosa, tutto sommato, per un film che racconta una storia ambientata proprio in una cabina di doppiaggio.
Episodio: Sex and Violence – Ep. 1.2 (“Monty Python”, 1969)
Il secondo episodio del Flying Circus va in onda il 12 ottobre 1969, registrato nel mese di agosto dello stesso anno. Se nell’episodio precedente era ricorrente il maiale, questa volta tocca alla pecora. L’episodio è un collage di elementi separati tra di loro, che qualcuno riconduce alla tecnica narrativa del flusso di coscienza e che, in realtà, si è già spinta oltre ogni limite. Già in questa seconda puntata, infatti, vediamo personaggi ed elementi affacciarsi in contesti che gli sarebbero estranei (un cowboy nella Londra di oggi, un ring all’interno di uno studio televisivo), con un effetto di straniamento comico realmente da manuale.
In particolare nel primo sketch (Flying Sheep) troviamo un pastore ed un business man inglese che osservano uno strano fenomeno: un gruppo di pecore – guidate da una particolarmente ambiziosa, ci raccontano – che si sono messe in testa di poter volare (con risultati disastrosi, ovviamente). Segue un singolare siparietto (French Lecture on Sheep-Aircraft, che utilizza la tecnica del grammelot) di John Cleese e Michael Palin, che impersonano due eccentrici artisti francesi che spiegano – con l’ausilio di un collage realizzato da Gilliam – come una pecora possa volare. Poco dopo, si ricollegano a modo proprio il gruppo di signore già visto nell’episodio precedente, che questa arrivano a citare Descartes. Successivamente, è la volta dell’uomo con tre natiche (A Man with Three Buttocks), una parodia di talk show che ridicolizza le manie gossippare e voyeuristiche della TV già all’epoca. Il presentatore, inizialmente in imbarazzo per l’argomento trattato, sembra più curioso di guardare le tre chiappe dell’ospite che di condurre in maniera accattivante.
Un secondo presentatore ci introduce al fenomeno del momento (Musical Mice): Ken Ewing, in grado di suonare “The bells of St. Mary” prendendo 23 topolini a martellate. Il successivo sketch è tra i migliori della puntata: Marriage Guidance Counsellor racconta di un consulente matrimoniale che accoglie un marito geloso della procace consorte (ed è la prima volta che compare nello show Carol Cleveland, l’unica donna del gruppo). L’intera scena si basa su uno spassoso paradosso: mentre Arthur Pewty racconta la propria storia con dovizia di particolari, il consulente seduce la donna e se la porta a letto (e a nulla serve la figura di un cowboy che invita l’uomo a combattere).
The Wacky Queen racconta della Regina Vittoria e del suo incontro con il poeta Alfred Lord Tennyson, risalente al 1880 ed in stile slapstick puro (Chaplin, Stanlio & Ollio: molte situazioni, come lo steccato dipinto, sono prese direttamente da lì). Working-class playwright introduce un nuovo elemento, quello dell’inversione delle caratteristiche dei protagonisti, che sarà anch’esso tipico dell’umorismo surreale dei Python: vediamo un figlio che torna a casa a trovare i genitori, con una situazione è diversa da quella che potrebbe sembrare. Il padre infatti è un commediografo, mentre il figlio è andato via di casa per inseguire il sogno di lavorare in una miniera di carbone. L’autoritaria figura paterna, peraltro, entra subito in contrasto col figlio perchè si ubriaca a suon di romanzi. E visto che l’uomo con nove gambe è appena scappato, è la volta dello scozzese a cavallo, altro personaggio parodistico che tornerà spesso in episodi successivi. Prosegue puntata The Wrestling Epilogue, un brevissimo e surreale talk show, in cui un cardinale ed un professore si confrontano (su un ring, a suon di wrestling) sul tema dell’esistenza divina. Segue un breve segmento animato con la sequenza del passeggino cannibale, ed una celebre opera d’arte usata come ocarina. Si conclude la puntata con The Mouse Problem, anche qui un esempio del meccanismo di sostituzione classico dei Monty Python: si rimpiazza l’elemento di difficoltà sociale (sessualità, alcool, droghe) con qualcosa di concreto, cioè un topo. Il risultato è una parodia degli show-verità con intervista all’interessato (tipicamente dal tono didascalico o moralista) in cui l’uomo racconta di come abbia deciso di diventare un roditore. Seguono gli esempi dei personaggi storici che avrebbero voluto essere dei topi, e l’immancabile opinione (sgarbata e fuori luogo) dell’uomo della strada.
Sex and Violence è, alla luce dei contenuti, certamente uno degli episodi più riusciti che abbiano realizzato.
Le 45 puntate del Flying Circus sono disponibili, in inglese sottotitolato in italiano, all’interno di un bel cofanetto in 7 DVD, che trovate facilmente su Amazon: Monty Python’s – Flying circus (complete series).
Una malattia mentale misteriosa sembra aver contagiato varie persone: il sospetto che ci sia qualcosa di reale all’interno di una apparente psicosi colletiva convince sempre di più un medico della città.
Dr. Miles Bennell/Kevin McCarthy (Photo by Allied Artists/Getty Images)
Se c’è una cosa che spesso fa riflettere nei vecchi film d’annata è la sostanziale (più ingenua, poco elaborata, a volte spicciola, senza dubbio differente da oggi) percezione della realtà, percezione che sceneggiatura e regia, in primis, dovevano aver avuto. Difficile del resto trovare un film di fantascienza più archetipico di questo, in tal senso – quanto meno tra i titoli più pop: un film che si apre lateralmente con il botto, e ci mostra quello che sarà il protagonista della storia, considerato pazzo per qualcosa che ha detto, o teme di aver visto. Certamente le diagnosi di pazzia di oggi sarebbero parecchio diverse, ed è anche corretto che ci sia una maggiore sensibilità sul tema psichiatrico in generale, tanto che viene da pensare che un film come Il corridoio della paura non uscirebbe mai oggi, o uscirebbe tra interminabili polemiche sui social.
L’etichetta di “pazzo” oggi andrebbe attribuita con una certa cautela, giustamente: a differenza di quanto avvenisse all’epoca quando, più e più volte, veniva utilizzato come escamotage narrativo per creare i presupposti di miriadi storie del genere (viene in mente Invaders from Mars, un prodotto ottantiano in cui venivano criticati l’eccessivo disincanto e l’apatia del mondo degli adulti, così come avviene anche in Nightmare). Il folle di questo film è un folle che soffre di insonnia, letteralmente, perchè non accetta il conformismo generale e si mantiene sveglio per evitare di essere ghermito dagli alieni durante il sonno.
Un ultracorpo si guarda allo specchio (DALL E)
La sequenza iniziale del protagonista che afferma una verità clamorosa che il pubblico ancora non conosce, e che non viene creduta, è archetipica, per forza di cose, e crea frustrazione o apprensione in chi guarda, nonostante siamo ancora ai primissimi fotogrammi e l’unico antefatto che abbiamo visto è una macchina della polizia. Creare più sospensione di così era impossibile, dato che nulla ancora si è ancora visto: cosa è successo di preciso?
Il film prosegue sulla falsariga di un flashback di ciò che è il protagonista che dice di essere un medico afferma di aver visto, in un crescendo di tensione e di persone comuni che ritrovano prima dei corpi clonati di se stessi e poi, addirittura, dei giganteschi baccelli (pods) in cui tali cloni vengono coltivati, nelle serre come nel terreno agricolo. Gli ultracorpi (traduzione di body snatchers, letteralmente ruba-corpi o pod people, nel gergo che poi sarebbe stato reso celebre dal film più famoso di Don Siegel) stanno invadendo la terra, e si nascondono tra gli esseri umani mediante questo singolare e memorabile stratagemma.
Quando sarà finito, che faccia avrà? Rispondimi! Che faccia avrà?
Il dottor Bennel è l’eroe archetipico che si accorge, primo e unico fra tutti, del pericolo a cui l’umanità è esposta, facendo quasi tutto di propria iniziativa e ponendosi come simbolo del risveglio delle coscienze dall’apatia. L’invasione degli ultracorpi resta una fantascienza essenzialmente mentale, misteriosa e concettuale, che si sviluppa come un noir (la voce del protagonista che racconta i fatti a titolo di narratore onniscente) e per cui non si vede nulla di propriamente fantascientifico in quanto tale. L’attributo “mentale” non è casuale, in ogni caso, perchè fin dalle prime mosse vediamo un personaggio raccontare della propria cugina che non riconosce più il proprio padre: una sindrome di identificazione errata rara quanto realmente esistente (sindrome di Capgras).
Il caso non è isolato: poco dopo il medico protagonista si imbatte in un ragazzino che non riconosce o diffida della propria madre, manifestando la paura di essere catturato a sua volta. Ciò che viene presentato come patologia mentale è in realtà afferente al reale, e sarà compito dell’eroico (quanto incompreso) protagonista occuparsene per salvare il mondo. La recitazione composta e teatrale degli interpreti contribuisce alla costruzione di un film invecchiato benissimo, se rivisto oggi, tratto dal romanzo di Jack Finney del 1955 sempre con lo stesso nome, L’invasione degli ultracorpi: un cardine della fantascienza paranoica di ogni tempo e luogo.
In termini sociologici L’invasione degli ultracorpi aiuta a leggere la realtà in cui vivevamo, già ai tempi in cui uscì. Ad esempio vale la pena di osservare, tra le altre cose, come i primi cento casi di nevrosi riferiti nel film siano attribuiti ad una causa precisa: “preoccupazione, nervi scossi” (secondo il cauto doppiaggio italiano), “preoccupazioni per ciò che sta succedendo nel mondo” (secondo una traduzione più precisa dalla lingua originale). Profezie che raccontano di come le tragedie globali possano influenzare le vite dei singoli (gli stessi che poi, per intenderci, non vanno neanche a votare perchè “tanto non cambia nulla“) che se riviste minuziosamente oggi (eravamo negli anni cinquanta, in piena Guerra Fredda) più che profezie sono racconti auto-riferiti, al limite profezie che si autoavverano. Un genere umano che si sente in colpa per i danni che provoca ai propri simili, rimasto radicato a superstizioni e credenze, contrapposizioni sterili e tutto ciò che ne consegue, e che ha smarrito il senso civico e di partecipazione alla vita vivendo passivamente i propri giorni. Secondo la lettura del regista Don Siegel, per amor di cronaca, nessuno per la verità aveva mai pensato “ad un qualunque simbolismo politico. Nostra intenzione era attaccare un’abulica concezione della vita”, una frase di culto a cui i soliti critici politicizzanti, ne siamo certi, attribuiranno lo stesso, comunque la giri, una valenza politica. Si attacca concettualmente, con quest’opera, la stessa indolenza che si raccontava anni dopo in un film quale 2022 I sopravvissuti, fantascienza post-umana e distopica tanto da sembrare reazionaria, per certi versi.
La straordinaria regia di Don Siegel si evidenzia in tantissime sequenze di culto: la scoperta dei baccelli alieni nella serra di uno dei personaggi, i momenti da film romantico in cui emerge la nobiltà d’animo del protagonista contrapposta alla passività del resto del mondo, la sequenza di culto in cui il medico e la donna assistono dalla finestra alla distribuzione dei baccelli tra la popolazione, che si muove esattamente all’arrivo della polizia convergendo passivamente verso la stessa. Sono scene difficili da dimenticare, che restano impresse e ci ricordano di restare umani, per quanto questo messaggio sia ormai stato corrotto e banalizzato, nella realtà di oggi, da qualcosa che se non è un germoglio alieno potrebbe assimilarsi a qualcosa di simili (l’indifferenza, il cinismo ostentato).
L’invasione degli ultracorpi rappresenta inoltre la disgregazione sistematica della fase dello specchio lacaniana: il momento in cui ogni bambino forma il proprio Io, una fase gioiosa che avviene solitamente sorridendo alla propria immagine riflessa. Qui viene capovolto e degenerato il concetto: ogni uomo ritrova un replicante alieno a propria immagine e somiglianza in cui, ovviamente, non può riconoscersi. L’alieno non solo lo imita nella forma biologica, ma ambisce addirittura a prendere il suo posto, a usurparne il trono. È l’uomo che non sa più riconoscersi nell’Altro e ne diffida passivamente, e sono i presupposti da cui era nato un altro cult d’epoca, uscito qualche anno prima, La cosa da un altro mondo (1951, reso poi celebre da John Carpenter negli anni ottanta).
La morale del film è a questo punto tutt’altro che inconsistente: il mondo appare diviso da diffidenza reciproca, dove ogni buon americano diffida dal proprio vicino o parente rifiutando di riconoscerlo. Questo esasperato disconoscimento avrebbe una causa psico-somatica in qualsiasi altro contesto, ma non qui: Don Siegel mostra un medico razionalista quanto guidato da una premonizione, che nota qualcosa di strano nel mondo che risulta familiare e terrorizzante al tempo stesso. Non un azzardo pensare, a questo punto, agli ultracorpi come elementi perturbanti per eccellenza. Non è un azzardo pensarci anche perchè, a ben vedere, la sostituzione progressiva degli alieni agli uomini avviene durante il sonno, il che rappresenta lo stesso piano immaginifico in cui si muoveva Freddy Krueger, spaventoso a livello onirico quanto, anch’esso, non creduto dai più nella realtà.
Del resto anche quel finale – solo apparentemente nichilistico – riserva un barlume di speranza: messa alla strette la sua stessa sopravvivenza, l’umanità può ancora trovare un modo per rigenerarsi e tornare umana. Atteggiamenti e parole che pesano, viste oggi, sia pur viziate da esigenze di produzione che all’epoca imposero un finale ottimistico per piacere al grande pubblico. Nel finale originale, il film si chiudeva sulla sequenza in autostrada in cui il dottore è perseguitato dagli ultracorpi e, rimasto solo, cerca di fermare gli automobilisti che non credono alla sua storia. La frase che concludeva il film nelle intenzioni del regista è “you’re the next!“, voi siete i prossimi, mentre il finale in ospedale e l’antefatto vennero di fatto imposti dalla produzione dell’epoca.
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