Salvatore

  • Predator: uno degli ibridi di guerra-fantascienza più belli mai girati

    Predator: uno degli ibridi di guerra-fantascienza più belli mai girati

    Una squadra specializzata in missioni speciali capitanata da Dutch (Schwarzie) viene inviata in America Centrale, nel bel mezzo di una giungla, per salvare un ministro ed il suo collaboratore rapiti dai ribelli. Scopriranno che le cose non sono esattamente come avrebbero creduto, e che la foresta è popolata da un feroce predatore extraterrestre…

    In breve. Ibrido horror-fantascientifico ambientato nella giungla, che vanta una delle migliori interpretazioni dell’attore austriaco Schwarznegger e si segnala per il debutto dello Yautja, il crudele cacciatore di prede umane: inizia come un film di guerra dai toni ordinari, per poi evolvere in uno dei più cruenti body-count mai visti al cinema. Un culto assoluto per il genere.

    Predator di McTiernan, nato da un’idea inizialmente scherzosa (far combattere Rocky contro E.T.) e presa maledettamente sul serio nello sviluppo dell’intreccio, rappresenta uno dei pochissimi action-horror che non risente dell’età che ha: prese spunto dai film di guerra più in voga all’epoca (Platoon, ad esempio), e rielaborò lo stereotipo dei militari solidali in lotta non contro un nemico umano bensì uno misterioso, extraterrestre, a tratti sovrannaturale. A Schwarznegger, per una volta, viene relegato un personaggio con un buon livello di spessore (ovviamente relativo al contesto di cui si parla), che sarà naturalmente l’eroe indiscusso dell’intera vicenda e del suo indimenticabile finale. La lotta tra umani ed alieno, di fatto, prende inizio da una storia di tutt’altro tipo – una sorta di complotto militare ordito dalla CIA – un intreccio secondario che viene poi letteralmente abbandonato sul posto: non c’è tempo, nè modo, di occuparsene, dato che Predator è già sulle tracce degli umani. Le epiche musiche di Alan Silvestri sono semplicemente perfette a scandire i vari momenti del film, che si alternano tra fasi di meditazione e preparazione alla guerra ed altre di autentica violenza, che in certi momenti esita qualche istante prima di esplodere e mantiene sempre un filo di tensione molto equilibrato e gradevole. Un film essenzialmente d’azione, quindi, nel quale non mancano elementi prettamente horror (i corpi scuoiati, le esecuzioni al limite dello splatter), frammisti ad altri di fantascienza, guerra e più in generale dinamiche da survival movie; del resto la sopravvivenza, il vero leitmotiv del film, è evidenziato splendidamente dalla sequenza in cui il protagonista umano si cosparge di fango per non farsi vedere dall’alieno, coronando uno dei capolavori del genere (quantomeno degli anni 80). Privo di momenti di calo e con personaggi ben caratterizzati, si fa ricordare – oltre che per l’innovativa vista ad infrarossi della creatura aliena – per la figura del rude pellerossa (Billy) – silenzioso, meditativo e molto più sensibile dei suoi commilitoni alle bizzarrie ed ai pericoli della natura. Il male assoluto, l’alieno ostile agli uomini – e con i quali “gioca” esattamente come farebbe un cacciatore con le proprie prede – “el diablo cazador de hombres” fa intuire di esigere il proprio tributo di sangue periodicamente, stilando così i presupposti per un’ennesima saga orrorifica ottantiana, non sempre riuscitissima nella sua evoluzione per quanto subentrata nell’immaginario collettivo da molti anni.

    Un vero masterpiece del genere (nonchè uno dei miei film preferiti in assoluto) che ogni spettatore dovrebbe aver visto almeno una volta nella vita.

    « Ho paura, Poncho. Laggiù c’è qualcosa in agguato, e non è un uomo. Moriremo tutti.»

  • Sinister: la creatura di Derrickson in bilico tra serial killer e sovrannaturale

    Sinister: la creatura di Derrickson in bilico tra serial killer e sovrannaturale

    Ellison è uno scrittore in crisi: il suo libro “Kentucky Blood” è stato un best seller, ma attualmente vive nel dimenticatoio, e sta cercando l’ispirazione per un nuovo lavoro. Tacitamente memore del Jack Torrance di Shining, si stabilisce con la famiglia all’interno di una casa in cui, come vediamo dall’inizio, sono avvenuti degli orrendi omicidi. Il ritrovamento di una serie di filmini in formato Super 8 introduce ad un terrificante “filo” che sembra ricondursi ad un killer seriale.

    In breve. Horror a tinte sovrannaturali che affascina per via della possibile spiegazione razionale che lo accompagna: per quanto il ritmo possa latitare in certi momenti, certamente un buon film con finale neanche troppo “telefonato”.

    “Innegabilmente spaventoso”, “prevedibile”, “spaventoso ma artificioso”: queste alcune delle controverse reazioni della critica alla prima visione del film: un lavoro diretto e sceneggiato da Derrickson che non delude le aspettative.  Sviluppando uno degli archetipi più classici del cinema del terrore e thriller – una situazione parzialmente ordinaria che degenera, più una serie di segreti ben nascosti nella storia – il regista ci propone in particolare un Ethan Hawke in gran forma, credibile ed immedesimato nella parte. Chi ha girato il filmato della morte della famiglia? Per quale ragione non è stato ripreso uno dei componenti? Perchè è stato realizzato il tutto? Sono queste le domande che angosciano il protagonista, coadiuvato dalle interpretazioni intense e coinvolgenti dei propri familiari. Alla base di questo singolare thriller contaminatissimo con l’horror, vi è di fatto una situazione di conflitto legata alla tensione che trasmette il protagonista per via del lavoro che svolge (scrivere romanzi incentrati su fatti reali di cronaca nera).

    La figura di Bughuul, demone mangiatore di bambini (riferito nel film come Mr. Boogie, “l’uomo nero”), viaggia attraverso il tempo e lo spazio alla ricerca di giovani vittime di cui nutrirsi. Figura senza dubbio affascinante la sua, perchè rielabora curiosamente la figura del villain – come potrebbe esserlo Nightmare, Smiley o Jason – e ne arrichisce i connotati, inserendovi elementi di pseudo-tradizione babilonese. Questo è uno degli elementi di forza di una storia che, in “Sinister“, probabilmente qualcuno potrebbe trovare prevedibile ma che, di fatto, non lo è neanche troppo, specie se si considera il sulfureo (e nerissimo) finale. La quasi totalità dell’intreccio di “Sinister“, dal canto suo, si fonda sulla contrapposizione amore/odio instauratosi tra Ellison – che suggerisce una morbosa ricerca della verità, anche a costo di superare ogni limite – e Tracy, che invece simboleggia la coesione della famiglia, e più in generale l’importanza della sfera emotiva. Di fatto questo tipo di contrapposizione riesce, seppur con qualche piccola forzatura, a far emergere un film di buon ritmo e livello, capace di appassionare anche lo spettatore più smaliziato. Certamente non mancano riferimenti e citazioni più o meno spudorate: a parte un parziale parallelismo con Shining, svariati elementi di “Sinister” richiamano The ring, una certa tradizione horror nipponica legata ai demoni che tornano ciclicamente (Ringu, Noroi, Izo), le atmosfere di Them e, in buona parte, quelle snuff-orrorifiche di REC.

    Per questa ragione piacerà senza dubbio a chi è amante di questo genere di scenari, per quanto la struttura stessa del film riesca ad aprirsi ai gusti di più di un tipo di pubblico, anche quello meno avvezzo – come il sottoscritto – alle pellicole incentrate su eventi sovrannaturali.

  • Quel maledetto treno blindato: il film di guerra di Castellari che ispirò Tarantino

    Quel maledetto treno blindato: il film di guerra di Castellari che ispirò Tarantino

    1944: cinque soldati americani vengono condannati a morte per motivi diversi in un campo nei pressi delle Ardenne; durante il tragitto si buca uno pneumatico…

    In breve. Film di guerra italiano, motivo di grande interesse e decisamente originale, con qualche inevitabile pecca.

    La storia è quella di un gruppo di disertori, durante la seconda guerra mondiale, che si trovano in Francia per essere fucilati: durante il tragitto si creerà per loro una nuova storia, ricca di avventure ed imprevisti. Una lotta per la sopravvivenza che li dovrebbe portare, dopo l’assalto ad un treno, verso la salvezza, nel territorio neutro della Svizzera. Una battaglia contro tutto e tutti, visto che il gruppo si troverà perennemente tra due fuochi, e sarà esaltato il senso di fedeltà tra i commilitoni accomunati dai medesimi problemi, rispetto alla fedeltà alla nazione o a qualsiasi bandiera prestabilità. Un senso di anomala solidarietà tipico del western, di fatto, e di tutto un filone di cinema realistico e di vendetta, da Distretto 13 a I guerrieri della notte e moltissimi altri.

    Molta della fama di questo film si deve, almeno in parte, a Quentin Tarantino, amante del cinema di genere e (ri)scopritore di talenti nascosti (spesso e volentieri italiani) che ne ha citato lo spirito ed alcuni passaggi (ma non la trama) all’interno dei suo Inglorious Basterds. Quando in seguito avrebbe diretto il suo Bastardi senza gloria, un film dal titolo identico ma con storia completamente diversa, volle acquistare solo i diritti sul titolo, giusto per evocare questo cinema, questi tempi e questi ritmi. Nel suo caso non si è trattata pertanto di un’operazione di remake, bensì del suo consueto gioco di citazioni: l’opera di Castellari si ricollega ad un filone ben consolidato, da cui eredita una componente di azione ricca di momenti intensi e di siparietti ironici, motivo di interesse sostanziale per il film. La sceneggiatura è stata affidata a Sergio Grieco, autore di film semi-dimenticati di genere prevalentemente poliziesco, tra cui il misconosciuto ed introvabile I violenti di Roma bene: qui, cronologicamente, si tratto dell’ultimo film da lui scritto, in collaborazione con lo stesso regista.

    Un film che è forse lontano dal capolavoro di guerra, ma che diverte, avvince e si fa seguire con una sceneggiatura azzeccatissima e varie trovate originali, tra cui i siparietti del baffuto Michael Pergolani (che interpreta il soldato Nick Colasanti) che nella versione italiana è stato doppiato in siciliano. Insomma un cult a tutti gli effetti, con qualche difetto riscontrabile quasi esclusivamente in alcune trovate improbabili, come le mitologiche infermiere tedesche che ovviamente faranno il bagno più sexy possibile nel laghetto. Per il resto, Quel maledetto treno blindato rimane impresso con tutti i suoi protagonisti, tra cui la superba, direi, interpretazione di Bo Svenson, il tenente Yeager attorno al quale ruota l’intera storia.

  • Milano calibro 9: il poliziesco firmato Di Leo che appassionò Tarantino

    Milano calibro 9: il poliziesco firmato Di Leo che appassionò Tarantino

    Durante una serie di traffici illeciti nella Milano anni 70 una valigia piena di soldi scompare nel nulla. “L’americano”, un potentissimo boss locale (riferito con “amici influenti in alto, gente senza scrupoli in basso“), vuole vederci chiaro e inizia una ricerca del denaro, che si concluderà con conseguenze inaspettate.

    In breve. Poliziottesco cult, imperdibile. Per Tarantino è uno dei noir più epici del cinema italiano.

    Il film

    Fernando Di Leo firma uno splendido poliziesco a tinte noir che vede protagonisti attori del calibro (neanche a dirlo) di Barbara Bouchet, Mario Adorf ed un ambiguo Gastore Moschin, uno dei beffardi Amici miei di Monicelli.  L’azione si sviluppa in una Milano diremmo romanzesca, che vuole sembrare culla esclusiva del crimine organizzato e dove la polizia sta a guardare il proliferare di delinquenza e pacchi bomba in pieno giorno. Nel frattempo, con toni un po’ moralistici, un po’ di maniera, il nuovo vice-commissario (che sarà presto trasferito) non perde occasione per mettere l’accento sul sistema repressivo dello stato, sulla ricerca di capri espiatori facili e sulla giustizia sommaria che sembra accomunare polizia e criminalità.

    Moschin (alias Ugo Piazza) interpreta un personaggio indimenticabile: se da un lato favorisce l’identificazione con il “buono” della storia da parte del pubblico, dall’altro si mostrerà cupo e privo di scrupoli alla fine. E questo finisce per renderlo un personaggio cult, in definitiva. Meravigliosamente sexy nella parte della “femme-fatale“, dal canto suo, la Bouchet si mostra nella famosa scena della lap-dance vestita di sole perle, e Di Leo indugia su questo molto più del necessario, con sommo gaudio della parte più voyeouristica del pubblico.

    Da ricordare inoltre che una delle scene più crude (l’aggressione con il rasoio all’uomo dal barbiere) è rimasta nell’immaginario dei cineasti a tal punto da avere ispirato Tarantino, a quanto pare, nell’omologo taglio delle orecchie nel suo Le iene.

    E’ il secondo film del genere che ho storicamente avuto occasione di vedere, dopo Milano odia: in entrambi, probabilmente, la componente spietata dell’essere umano si sublima in un turbine di colpi di scena, mostrando inevitabilmente l’aspetto più animalesco dell’essere umano. Il pubblico riesce davvero a palpare la paura in varie situazioni, come nel momento in cui il figlio del barista esita prima di colpire a tradimento, come chi ha visto il film dovrebbe ricordare molto bene.

    Accerchiamento di Ugo Piazza

    Narrativamente parlando, Milano Calibro 9 è incentrato sull’accerchiamento paranoico di Piazza (Gastone Moschin) da parte sia della polizia – che lo fa pedinare – che del personaggio di Rocco, capofila del crimine organizzato convinto che i soldi scomparsi li abbia presi lui.

    La continua negazione da parte del suo personaggio riesce a convincere, di riflesso, anche il più navigato spettatore della sua innocenza, innescando un meccanismo molto simile a quello presente per il personaggio di Ugo Cucciolla in Cani arrabbiati: il twist finale è quasi analogo, per quanto nel film di Di Leo (soggetto tratto da un romanzo cult di Scerbanenco, per inciso) sia addirittura portato all’ennesima potenza.

    Milano calibro 9 e la sua valenza politica

    Mercuri… ma tu forse forse ce l’hai coi ricchi.

    Nonostante le apparenze di film puramente reazionario e “muscolare”, Milano calibro 9 è intriso di critica sociale: sull’amnistia, ad esempio, che è il punto di partenza della narrazione (Ugo Piazza esce dal carcere per questo motivo). Ma anche sulla condizione delle carceri italiane, in cui esiste una situazione problematica e si mette sociologicamente in dubbio – per bocca del “poliziotto buono” Mercuri, interpretato da Luigi Pistilli – la sua efficacia. Fernando Di Leo ha in seguito ammesso che, con occhio critico, le scene in Questura tra il Commissario “fascista” e il “comunista” Mercuri finivano per togliere forza alla storia principale. Ma il lavoro attoriale era così buono che optò per non farlo, alla fine.

    Resta anche da considerare che l’aspetto narrativo della trama, incentrato sulla figura sinistra de L’americano, è anch’esso fortemente politico: è un boss invischiato con i piani alti della politica, per quanto la cosa venga solo citata continuamente e non esplicitata, costringendo il pubblico a riflettere sulla sua natura e sull’ambiguità dei “buoni” e dei “cattivi” della storia.

    La morte di Frank Wolff

    L’attore Frank Wolff – già visto ne Il grande silenzio, ad esempio – muore tragicamente nel 1971, poco dopo aver completato le sue scene, suicidandosi a causa di una probabile depressione di cui soffriva da tempo. Il suo doppiaggio in inglese venne completato da Michael Forest.

    In definitiva, uno dei migliori polizieschi noir mai prodotti, assieme a Tony Arzenta ed alla maggiorparte dei film di Umberto Lenzi.

  • La Dama Rossa uccide sette volte: un piccolo cult italiano da riscoprire

    La Dama Rossa uccide sette volte: un piccolo cult italiano da riscoprire

    Due sorelle crescono assieme al nonno in una suggestiva villa, e sono terrorizzate da un’antica leggenda che racconta di una Dama Rossa assassina. Diversi anni dopo arriva il momento della scomparsa dell’anziano parente (e dell’eredità), e la misteriosa signora sembra essere di nuovo in azione…

    In sintesi. Uno dei più rappresentativi gialli-horror all’italiana del periodo, non esattamente al top e comunque curioso nel proprio svolgimento. Un cast di discreto livello (la Bouchet domina su tutti) per una variazione sul tema abbastanza originale sul tema del ritorno dalla morte. Da riscoprire tutto sommato anche oggi, meglio se da cultori del genere.

    Sulla carta è uno dei più celebri ed equilibrati gialli all’italiana anni 70: piuttosto ritmato, truculento quanto basta e con elementi originali (su tutti, il killer di sesso femminile dichiarato fin dall’inizio). Evelyn, personaggio misterioso ed emblematico fino alla rivelazione conclusiva (neanche troppo clamorosa, alla fine), è la traccia del passato oscuro alla base dell’intreccio, ed in questo richiama seppur timidamente in molti capolavori argentiani. Una carrellata di belle donne, raramente a tale densità (Sybil Danning, Marina Malfatti ed ovviamente l’iconica Bouchet) rappresenta il tocco di classe e “bel vedere” che non guasta l’atmosfera, anzi contribuisce a renderla ancora più malsana e alimenta il tipico gioco dei “tutti sospettati”. In fondo questo film di Miraglia non è che uno dei tanti gialli all’italiana incentrati sulle alterazioni della personalità, il che già da solo – pubblicità subliminale del J&B a parte – non dovrebbe lasciare delusi, anche se l’ho trovato piuttosto inferiore alle aspettative costruite.

    La caratterizzazione delle due sorelle da bambine, macabro e azzeccato mix di innocenza e ferocia, suggerisce quello che sarà il tema portante del film, rilevando così l’aspetto chiave sullo sdoppiamento di personalità. Ma la trama tende a diluirsi in contorsioni deliranti e, come spesso accade in questi casi, un numero eccessivo di dettagli, situazioni, personaggi: quasi sempre, per la cronaca, aspetti legati all’avidità ed alle perversioni sessuali. Caratterizzazioni di fatto ambigue e costruite con discreta efficacia, che non riescono pero’ a risultare troppo funzionali alla storia (salvo alcuni casi, s’intende).

    È questo, in definitiva, che rende il film parzialmente sopravvalutato, anche se una visione probabilmente finisce per meritarla, per via la doppia interpretazione di Bouchet/Pagliai, piuttosto ben focalizzati e con una discreta dose certa convinzione. In definitiva “La Dama Rossa Uccide Sette Volte“, per quanto disponga di suggestioni sopra la media, proprio per il fatto che manca il tocco “da Maestro” tende un po’ a diluirsi nel contenuto (quasi due ore), che risultando per questo un po’ difficile da seguire in tutto il suo svolgimento e con un finale, a mio avviso, interessante per quanto vagamente “telefonato”.