Salvatore

  • Reazione a catena: quando Mario Bava inventò un nuovo genere

    Reazione a catena: quando Mario Bava inventò un nuovo genere

    Considerato il padre dello slasher-movie, è uno dei capolavori assoluti horror-thriller italiani: ricco di suspance, splatter, intrighi, buona recitazione e sano cinismo. Un capolavoro del grande Mario Bava, diventato un cult fino ad oggi anche se – bisogna dire – (ri)scoperto in ritardo a causa di una distribuzione non eccelsa, almeno all’inzio. Reazione a catena esalta all’ennesima potenza gli elementi filmici che hanno ispirato il primo Dario Argento, tanto che i richiami nelle inquadrature e nelle ambientazioni viste in Profondo rosso sembrano analoghe alla sequenza iniziale del film.

    La catena di delitti del titolo, per inciso, fa riferimento ad una serie di omicidi che viene perpetuata per ragioni poco chiare: prima un’anziana contessa strangolata il 13 febbraio, poi il marito di lei, successivamente una ragazza che fa riaffiorare casualmente il cadavere dell’uomo. Il tutto ruota attorno alla proprietà di una baia con un lago, proprietà della contessa di cui sopra, su cui vorrebbe mettere le proprie grinfie più di una persona, tra cui un architetto con buone conoscenze nella politica. Al tempo stesso la cinica figlia del conte, assieme al marito, progetta di possedere la proprietà a qualsiasi costo: così esce fuori un complicato intreccio che si svilupperà in più direzioni. Dopo ulteriori omicidi effettuati per paura di essere reciprocamente scoperti, ne risulterà un quadro umano senza speranza, nè possibilità alcuna di redenzione.

    La nota – e spesso ripetuta – somiglianza di Reazione a catena con la saga di Jason Voorhees, in fondo, si esplica nell’omicidio sanguinolento dei ragazzi nel cottage (la coppia viene trafitta alla schiena durante l’amplesso, una scena ripresa identicamente nel film americano, il quale, dettaglio non da poco, è uscito dopo questo di Bava) e nella difesa – in chiave ambientalista – della baia, un luogo incontaminato che è, peraltro, una sorta di prototipo di Camp Crystal Lake. Indubbiamente Reazione a catena è più intricato dell’episodio iniziale della nota saga americana, e la paternità al genere slasher credo rimanga più che lecita.

    Inoltre Bava si orienta sul non politicallycorrect, denunciando grottescamente l’eccessiva nonchalance con cui si usano le armi, e più in generale la cinica barbarie a cui gli adulti abituano indirettamente i bambini. In altre parole, un po’ come suggeriva uno dei titoli provvisori della pellicola, “Così imparano a fare i cattivi“, che si stampa nelle coscienze degli spettatori in modo indelebile. Con risultato ancora più efficace, in fondo, se si pensa che “i bambini hanno paura del buio“…

    …io almeno il polipo lo mangio. Ma uccidere così, per hobby…

  • Lo strano vizio della signora Wardh: il cult di Sergio Martino del 1971

    Lo strano vizio della signora Wardh: il cult di Sergio Martino del 1971

    Lo strano vizio della Signora Wardh” è un classico della cinematografia gialla di genere anni 70, da vedere almeno una volta nella vita.

    In breve: uno dei migliori lavori del giallo all’italiana anni 70, con Rassimov e Fenech al culmine dello splendore.

    “Niente unisce di più di un vizio in comune”

    Un killer uccide vari donne a colpi di rasoio, sullo scenario della storia di Julie (la signora Wardh del titolo, interpretata dalla Fenech) perseguitata dall’ex amante che si dice certo di essere l’unico a poterla soddisfare in ogni senso. La signora in questione, ambigua e maliziosa come non mai, si sente trascurata dal mite e ragionevole marito che tratta “come se le avesse fatto un torto“, e in realtà  a lei “non manca nulla“. Insomma, sembrebbe la solita stereotipata crisi di coppia senza particolari sottotesti, ma c’è di più: un serial killer continua a colpire in modo apparentemente sconnesso, l’ex amante la perseguita mandandole continuamente dei fiori con enigmatici bigliettini, e la donna instaura una relazione con il cugino di un’amica (George). Questi ultimi hanno appena avuto la notizia di aver incassato l’eredità di un vecchio zio, che sarà parte della chiave di volta per l’intreccio ma, sul momento, diventa l’occasione perchè George e Julie Wardh possano conoscersi e diventare amanti.

    Ricattata per telefono da qualcuno con la voce contraffatta, si convince imprudentemente a mandare l’amica Karoll all’appuntamento al posto proprio, la quale rimane brutalmente uccisa. La verità viene a galla solo nel finale, sulla base di un errore commesso dall’assassino in extremis, che nasconde le motivazioni di tutto quello che è avvenuto: in fondo il “delitto perfetto” non puo’ esistere, anche se effettivamente ben congegnato come avviene qui. Forse l’idea risolutiva è un po’ troppo macchinosa o addirittura improbabile (credo basti vedere il film per farsene un’idea): sta di fatto che “Lo strano vizio della signora Wardh” è un’ottimo lungometraggio settantiano che vale la pena di riscoprire.

    E’ forse una delle opere più note di Sergio Martino, un classico plot giallo con punte di eros mai volgare, oltre ad un sano citazionismo di fondo che lo ha reso un’opera cult per Tarantino (la scena sotto la doccia alla Hitchcock, il sapore quasi argentiano degli omicidi, rappresentati in modo più caotico rispetto ai capolavori di fotografia del regista romano). La signora Wardh, l’autentico totem di questo film, è un personaggio semplicemente perfetto: perennemente sospesa tra una mitezza di fondo ed una voglia di trasgredire le regole, e metaforizzato dall’idea del sangue. Il liquido vitale che richiama l’idea di morte, un fluido che da un lato ne soddisfa i desideri morbosi, e dall’altra la terrorizza e le fa avere delle allucinazioni. A confronto con lei gli altri interpreti, tra cui un Rassimov particolarmente in forma, semplicemente si offuscano.

    La Wardh, lontana un miglio dalla mera retorica della “borghese snob ed annoiata”, sorprende forse per il suo essere camaleontica e a tratti incomprensibile: annoiata e scontrosa con il marito con cui ha perso sintonia, sottomessa con il violento Jean (un mefistofelico Ivan Rassimov), dolce ed amorevole con George – e senza vuoti romanticismi. Insomma, un personaggio umano simbolico della cattiveria, dell’ambiguità, della falsità e della violenza innata di ognuno di noi.

    (la signora Wardh addenta una mela) Cosa significa, che mi vuol mangiare?

    …significa che l’ho già mangiata!

    Da ricordare la citazione sugli assassini di Freud, che compare dopo pochi istanti dall’inizio, molto rappresentativa:

    Il fatto stesso che il comandamento ci dica: «Non ammazzare» ci rende consapevoli e certi che noi discendiamo da una interrotta catena di generazioni di assassini, il cui amore per uccidere era nel loro sangue come, forse, è anche nel nostro

    La frase che compare nel bigliettino del mazzo di fiori nella prima metà del film dà il titolo al successivo Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave, sempre del medesimo regista. Nora Orlandi ha contribuito alla realizzazione delle musiche del film (in particolare con “Dies Irae 2“), mentre il succitato Tarantino ne ha riproposto le sonorità nel suo “Kill Bill Vol. 2“.

    L’unica cosa che non sopporto è l’indifferenza: l’odio è un bel sentimento, come – e più – dell’amore.

  • Road to L.: il mockumentary sul presunto viaggio in Italia dello scrittore di Providence H. P. Lovecraft

    Road to L.: il mockumentary sul presunto viaggio in Italia dello scrittore di Providence H. P. Lovecraft

    1999: un giornalista trova un antico manoscritto su una bancarella a Montecatini, luogo in cui visse Alfred Galpin, storico amico e corrispondente di H. P. Lovecraft. All’interno di quello che si svela un diario viene descritto un viaggio in Italia del celebre autore americano: che avrebbe visitato Venezia e molti altri luoghi non immediati da decifrare, tra cui la misteriosa L. (nota solo per l’iniziale del nome, come molti altri riferimenti a luoghi e persone).

    In breve. Un falso documentario che indaga sul potere della suggestione, mescolando tesi alternative con presenza di alieni. Interessante soprattutto per i fan dello scrittore, al netto di un finale dal climax leggermente fiacco.

    Road to L. è ambientato nel 2004 e teorizza la possibilità di un viaggio di H. P. Lovecraft in Italia: aspetto che smentirebbe ciò che sappiamo ad oggi sullo scrittore, che ufficialmente non avrebbe mai avuto i mezzi per permetterselo e non si sarebbe mai mosso dagli Stati Uniti. Il film (vincitore di un Méliès d’argento al Fantafestival 2005) viene presentato come fosse il backstage di un corto, presentato al Festival di Venezia nel 2004, dal titolo H.P. Lovecraft – Ipotesi di un viaggio in Italia. Per completezza documentale li ho appena (ri)visti entrambi, anche perchè i dettagli da raccontare sono tanti, e volevo compensare il senso di sostanziale incompiutezza, quello che ricordavo di aver avuto dopo averlo già visto qualche tempo fa.

    Andiamo, pertanto, per ordine.

    H.P. Lovecraft – Ipotesi di un viaggio in Italia

    Sul corto diciamo subito che è una specie di “seminario” del lungometraggio in questione: si trova anche su Youtube, e racconta in meno di mezz’ora, con stile documentaristico ed alcune interviste, del ritrovamento di un manoscritto inedito che potrebbe essere stato concepito dalla mano dell’autore. Un documento dall’immenso valore che, di fatto, cambierebbe non solo la prospettiva, ma anche la biografia dell’autore: Lovecraft sarebbe stato in visita in Italia, passando prima per la Biblioteca Marciana di Venezia, per poi avventurarsi in zona Delta del Po. Cercava ispirazione per i racconti che avrebbe scritto di lì a poco (in realtà questa affermazione è in parte inconsistente, dato che alcune cose le aveva già concepite rispetto al 1926, anno chiave per la narrazione), e il documentario prova ad immaginare cosa sarebbe successo, soprattutto che cosa abbia visto il solitario di Providence.

    Ovviamente – è il caso di specificarlo – le ipotesi in questione sono pura fiction, perchè il falso documentario fa sostanzialmente questo – pur cercando la verosimiglianza, ed è altrettanto vero che in questi casi produzione e regia giocano sulla più classica sospensione dell’incredulità. Questo corto di neanche mezz’ora fa proprio questo: imporre una narrativa “alternativa”, provare a seminare dubbi, lanciare “sassolini” relativi a circostanze (forse) ambigue. Così facendo l’effetto immediato è di lasciare lo spettatore, specie quello non troppo informato, “affamato” di ulteriori dettagli (ecco perchè ho usato la parola seminario).

    Tutto sommato un discreto finto documentario che, peraltro, strizza continuamente l’occhio all’Altro (inteso come l’oscura congettura), e si avvale della furbesca “consulenza” tra gli altri di Fusco e De Turris, tra i maggiori e più documentati esperti italiani sullo scrittore.

    Contestualizzare Lovecraft (in Italia)

    Sarà stato scritto milioni di volte, ma lo ribadiamo: Lovecraft è stato un punto di riferimento assoluto per letteratura e cinema del terrore (cinema che, stando a quello che sappiamo, non avrebbe neanche amato più di tanto). Lo ha fatto con quello stile unico, fatto di allusioni e uso sapiente di circonlocuzioni orrorifiche, uno stile ricercato e a suo modo altamente innovativo – per quanto certi suoi lavori siano considerati ostici da leggere, e ciò derivi anche, per inciso, da certe traduzioni italiane un po’ grossolane (ne ho una del Miraggio dello sconosciuto di Kadath, di circa 20 anni fa, che è quasi incomprensibile – per usare un eufemismo).

    Lo scrittore di Providence, la città in cui crebbe e passò gran parte della sua vita, fu personaggio schivo e singolarissimo, quanto controverso sia socialmente che politicamente, e fu anche in grado di inventare un genere nuovo, a cavallo tra horror e fantascienza, elevandolo a Letteratura riconosciuta da chiunque. Lovecraft influenzò Stephen King (tra gli altri) ed è anche il “non filmabile” per eccellenza, come il caso di Reanimator ha lasciato ai posteri (non che Yuzna abbia diretto un brutto lavoro: è proprio che c’entra poco con Lovecraft). Per fortuna non mancano le eccezioni a questa – fin troppo citata – “legge” non scritta.

    Anche solo a livello cinematografico, per chi proprio non fosse amante della lettura, film tratti dalle sue opere sono considerati imprescindibili per il genere: penso a Il colore venuto dallo spazio (a chi sarebbe mai venuto in mente di creare un villain immateriale di quel tipo?) o La vergine di Dunvich (orrore epico e tenebroso, che ha fatto scuola), che trasudano paura in senso modernissimo e accattivante, senza contare la trilogia del terrore di Fulci, in particolare Paura nella città dei morti viventi – che è lovecraftiano, per quello che vale, quasi a pieno titolo.

    Un mockumentary del genere, per quanto non sia probabilmente nemmeno l’unico caso al mondo, è comunque un azzardo, anche perchè rischia ciò che tutti temono: che quelle circonlocuzioni tenebrose e allusive diventino iper-splatter oppure, banalmente, non-detto, depotenziandone l’effetto in entrambi i casi. Cosa che in Road to L. non succede, almeno per larga parte, nonostante non tutto il film sia ritmato in modo uniforme, mentre i punti di tensione autentica siano, al massimo, tre in tutto.

    Road to L.

    Già il titolo è piuttosto intrigante, evidentemente concepito per un mercato internazionale: peraltro con un minaccioso gioco di parole all’interno (Road to L suona esattamente come Road to hell, la strada per l’inferno). Calembour a parte, come ogni mockumentary che si rispetti, la storia si basa su un racconto filmato on the road: vediamo in sostanza quello che dovrebbe essere il “dietro le quinte” della realizzazione del cortometraggio di cui sopra, con tanto di tecnici, sceneggiatori e registi all’opera e letteralmente sulle tracce di H. P. Lovecraft. Rileggendo il manoscritto man mano, tecnici e regista ripercorrono le strade che avrebbe fatto l’autore nel suo ipotetico (e mai confermato) viaggio in Italia, utilizzando la tecnica dello pseudobiblion che ha fatto la fortuna, per inciso, del celebre Necronomicon.

    Road to L. risulta sostanzialmente un meta film sull’autore di Providence, dall’ambientazione sinistra nelle più oscure tenebre padane, proposto in forma di mockumentary e rientrante, per questo, in una tradizione controversa di suo. Lo sappiamo bene, ad oggi, che questo genere di lavori è più facile odiarli che amarli: sono film quasi sempre difficili da giudicare per una varietà di ragioni.

    La sua carriera fu la realizzazione dei suoi incubi da bambino.

    Da un lato perchè appaiono troppo scarni, in media, a livello di trama o sceneggiatura, tanto da sembrare improvvisati alla meno peggio (non è questo il caso, peraltro). Dall’altro difficilmente coinvolgono cast di livello, tendono a ricorrere a stilemi fotocopia (il non-detto di cui sopra, un’arma a doppio taglio tra il genio e la noia), mostrano quasi sempre poco o nulla (chi ha visto Blair Witch Project lo sa) e danno la sensazione al pubblico di essersi persi qualcosa per strada (cosa che qui in realtà succede, sia pur parzialmente). A dircela tutta, senza filtro da fan, sono davver pochi i falsi documentari ben realizzati, se si pensa che sono passati quasi sessanta anni dal seminale The war game e che, ad oggi, il genere è consolidato in fin troppe opere dubbie, dal background quasi sempre complottistico / sensazionalista. Road to L. rimane sostanzialmente promosso, come vedremo, con l’unica pecca del finale, che ho trovato confuso, più che ambiguo come voleva sembrare.

    La storia inizia a fine anni ’90, con la storia di uno studente di folklore locale – sì, Road to L. è anche un protofolk horror, molto prima che diventasse di moda parlarne sulla falsariga di The Vvitch: si chiama Andrea, e sta scrivendo una tesi molto suggestiva. Tratta la possibilità che H. P. Lovecraft possa aver preso ispirazione, per i suoi racconti, dai racconti popolari più macabri narrati oralmente sul Delta del Po. Che l’horror possa o debba prendere spunto dal folklore è, del resto, un fatto assodato: basterebbe leggere L’almanacco dell’orrore popolare per capacitarsene. Nel film, pero’, il giovane Andrea è scomparso: sia la madre che la fidanzata non hanno idea di dove possa trovarsi, o se sia vivo o morto. L’unico indizio è la sua auto, trovata aperta nel pressi delle zone di cui parlerebbe Lovecraft nel fantomatico manoscritto, e anche il suo cadavere non si trova da nessuna parte. Questi sono i presupposti, narrati in modo anti-casuale, da cui tra vediamo la troupe del film partire per iniziare a girare il documentario, recandosi prima nella Biblioteca Marciana a Venezia (una delle biblioteche più fornite d’Europa, ci viene detto) e poi, sulle tracce del manoscritto, fino ai più isolati paesini o villaggi sul Delta del Po.

    Il manoscritto di cui si parla è, a ben vedere, una specie di libro proibito, che nessuno dovrebbe leggere, e su cui nessuno dovrebbe tantomeno indagare: sfruttando un classico topos lovecraftiano, la troupe viene accolta con diffidenza dagli abitanti del posto, diffidenza che in alcuni casi diventa vera e propria ostilità. Si narra poi di un antico culto diffuso nella zona del Polesine (nei pressi di Rovigo) in cui alcuni frati (osteggiati al tempo dalla chiesa cattolica) porterebbero avanti un culto segreto: i Fradei (fratelli) di Loreo. È qui che la L. del titolo assume il significato di Loreo, la località del Polesine in cui i protagonisti si recano. L’affermazione del regista “we’re in L.” non andrebbe semplicisticamente tradotta come “siamo a Loreo“, peraltro, bensì a livello inconscio come “siamo all’inferno“. Il culto è segreto, non si può raccontare e – se si prova ad insistere – succederà qualcosa di molto brutto.

    Tra i racconti popolari – un mix di tradizione e paura diffusi, peraltro, praticamente in qualsiasi regione d’Italia – vengono citati i racconti di Filò, narrati di notte attorno al fuoco e a cui la troupe ha il privilegio di poter assistere, accompagnati da una guida del posto. Ma la situazione non può durare: l’equilibrio tra i protagonisti e l’ambiente si spezzerà, saranno respinti da tutti, il documentario rimarrà impatanato sul non detto e, soprattutto, molti elementi diventeranno di vera e proprio minaccia nei loro confronti. C’è tempo anche per una digressione ufologica, peraltro, in cui viene intervistato un esperto in materia che racconta di avvistamenti dell’homo saurus (una via di mezzo aliena tra uomo e anfibio, dagli occhi che sbattono in verticale) in zona, in grado di immergersi nelle acque del Po e avvistato da alcuni abitanti della zona. L’idea non sarebbe male, di per sè, se non fosse che questa narrativa è stata fin troppo annacquata da avvistamenti fake e figuranti vari nella storia dell’ufologia, senza dimenticare figure come quelle di Bob Lazar. Da un certo punto di vista è un twist narrativo non da poco, ma l’effetto generale rischia di risultare fiacco, proprio perchè si fa appello ad una narrativa poco credibile da troppi punti di vista (considerando che la suggestione del film fa decisamente appello alla sospensione di credulità dello spettatore).

    Il finale di Road to L.

    Qui arriva forse la nota dolente definitiva, ovvero il finale del film, costruito su un climax di tensione in cui la fidanzata di Andrea consegna l’ultima videocassetta in cui si vede il suo ragazzo ancora vivo: durante la narrazione di una di quelle storie ancestrali e tenebrose, infatti, una presenza esterna si avvicina al casolare, e quasi certamente il ragazzo ne rimane vittima. Che si tratti di un homo saurus emerso dal fiume è più una suggestione che una certezza, anche perchè il finale è abbastanza povero di dettagli, mostra poco (e male, a dirla tutta) quello che succede, lasciando qualche punto interrogativo non tanto su cosa succederà alla troupe (che quasi certamente seguirà lo stesso destino fatale) quanto su come sia morto il ragazzo, lo stesso di cui si è parlato per la precedente ora e mezza. Questo climax “mancato” aleggia su ciò che temevamo accadesse in un film del genere, ovvero che il famigerato non detto prenda il sopravvento, che poi è la stessa critica che facciamo da sempre ogni volta che rivediamo mockumentary di ogni tipo. L’effetto è un po’ troppo straniante, in effetti, lascia un po’ disorientati ma è anche l’unico vero difetto di Road to L., che comunque si avvale di una storia coinvolgente, di una discreta recitazione e di un paio di picchi di tensione non da poco (sfido chiunque a restare indifferenti durante le perlustrazioni dei sottorranei, con quella presenza misteriosa appena inquadrata – un umanoide, probabilmente – oppure nella visita alla casa abbandonata, giusto mentre la ragazza del regista rimane nel camper a vedere l’inquietante videocassetta).

    Il manoscritto è autentico o no?

    Sulla veridicità del manoscritto, suggestiva per non dire clamorosa (perchè costringerebbe di fatto a riscrivere la biografia dell’autore, e a rileggere la sua produzione in chiave eventualmente rinnovata) non dovremmo neanche discutere, dato che si tratta di un mockumentary, falso per definizione. Il punto è che ad alcuni piace comunque credere cose non dimostrabili, tanto è vero che molta gente continua a cercare il “vero” Necromonicon nelle librerie e nelle biblioteche. Del resto in un mondo in cui un mockumentary sul falso allunaggio (manipolato sul web, ma tant’è) è riuscito a cementificare ipotesi di complotto che tocca smentire o discutere ancora oggi, vale la pena dare uno sguardo all’articolo A ottant’anni dalla morte di H. P. Lovecraft, scritto nel 2017 da Wu Ming 1 con la consueta lucidità. Un articolo ricco di dettagli sulla vita e le opere dello scrittore, oltre che sulla genesi del film e le ulteriori derivazioni della storia (tra cui un fumetto di Martin Mystere).

    Quell’articolo, del resto, sgombra il campo dalle ambiguità sul razzismo dell’autore (che è reale, piaccia o meno, e basta leggerlo con attenzione per farci caso), da improbabili revisionismi ammorbidenti da parte di alcuni fan in merito (fare benaltrismo e dire che erano tutti razzisti, ad esempio, non sembra nè vero nè una scusante valida) e dal fatto che l’ipotesi della veridicità del manoscritto è stata discussa (!) solo in certi circoli culturali nostrani. All’estero non c’è traccia di chi ci abbia anche lontanamente creduto (se è un dichiaratamente un mockumentary, del resto…).

    Il discorso a questo punto convergerebbe su numerosi ambiti sui quali, per brevità, non ci soffermiamo: basta comunque considerare che tantissima para-letteratura (ovvero esperti che parlano di opere) è spesso da rivalutare con occhio critico (leggasi: tanto vale leggere e vedere gli originali), per lo stesso motivo per cui le stroncature di film di 60 anni non implicano che quei film siano davvero così scadenti. In questo caso vale un po’ il contrario: Road to L. è un buon mockumentary con tanti pregi rispetto alla media, ma non è il capolavoro elogiato da tanti in modo sperticato, anche perchè lascia un senso di vuoto e di insoddisfazione, l’incompiutezza di cui parlavo all’inizio.

    La regia è di Federico Greco e Roberto Leggio. Road to L. è disponibile (gratuitamente e legalmente, dopo aver visto un po’ di pubblicità nel mentre) su Vvvvid.it. Vale la pena dargli una possibilità, se amate i racconti dello scrittore e se ancora non l’avete visto.

  • Guida perversa all’ideologia: la dottrina, il cinema, i Laibach

    Guida perversa all’ideologia: la dottrina, il cinema, i Laibach

    Che cos’è davvero l’ideologia nel mondo in cui viviamo? Secondo Slavoj Zizek è possibile raccontarlo attraverso l’analisi di alcune strutture narrative di celebri film di ogni genere. Analogamente a quanto fatto nella Guida perversa al cinema,  Zizek sceglie accuratamente dei titoli dagli anni 30 ad oggi ed esamina, con un discreto spirito cinefilo e sapore di riscoperta, una ventina di film che vanno dai primi ann 20 fino ad oggi.

    Per inquadrare fin da subito il discorso, Zizek parte dall’analisi di uno dei film più discussi e celebri di John Carpenter, Essi vivono. L’ideologia è qui vista come un qualcosa a cui ognuno di noi si adatta e, col tempo, si adagia: rinunciare a quei principi, ci viene detto da Zizek, è percepito tanto pericoloso quanto doloroso. Gli “occhiali di critica all’ideologia” (che sono gli occhiali da sole che, nel film, permettono di vedere le cose per quelle che sono, senza il filtro dell’autorità) sono alla chiave della decifratura dei reali messaggi dei cartelloni pubblicitari, e ci fanno pervenire ad una conclusione drastica: la verità (e come estrema conseguenza, la libertà) fa male, e questo è ben raffigurato dalla epica, altrimenti inspiegabile, scazzottata di quasi dieci minuti tra il protagonista ed il suo migliore amico. Amico che, ci dice il narratore, in termini psicologici rifiuta di vedere la realtà e non si fida, o teme che faccia troppo male, indossare quegli occhiali.

    Questo tema della scelta del filtro, e per estensione della scelta dei nostri sogni, sarà ripresa metodicamente in varie fasi di questo ennesimo saggio cinematografico-filosofico e psicoanalitico, in cui vedremo Zizek abilmente integrato in scenari celebri di varie pellicole sfruttando gli stessi colori o analoghe scenografia (il letto del protagonista di Taxi Driver, il bagno in cui avviene il suicidio di Full Metal Jacket e così via), il che aiuta a non appesantire la narrazione e, anzi, a renderla del tutto gradevole, nonostante la gravosità dei temi trattati. Nel film Tutti insieme appassionatamente (1965), viene raccontato, la suora protagonista non può, di fatto, esserlo perchè sente di avere una potenza amorosa e sessuale inespressa: la madre superiora, posta di fronte al problema, affronta i suoi successivi sensi di colpa mediante una canzone, che Zizek ci racconta essere stata censurata nell’ex Jugoslavia.

    La canzone – cantata nel film dal soprano Patricia Neway – è stata riproposta in chiave industrial dai Laibach, esattamente con le stesse parole ed un arrangiamento analogo, quasi un inno al soddisfacimento edonista del desiderio. Anche qui, torna prepotente il tema del desiderio, sublimato da ciò che viene indotto dal consumismo delle uova Kinder o della Coca-Cola:  ed è un desiderio insoddisfacibile per definizione, che si nutre di ulteriore desiderio e che non può mai essere pienamente soddisfacibile, per poter avere un senso.

    Climb every mountain
    Search high and low
    Follow every highway
    Every path you know

    I Laibach stessi, peraltro, così come i Rammstein e molti altri artisti della corrente industrial -nella sue complesse e spesso contraddittorie declinazioni – hanno spesso richiamato l’idea di un’ideologia “estesa”, non ferma alle mere apparenze politiche o propagandistiche, ma intendendole in modo più estensivo nelle forme artistiche più varie. E di questo, peraltro, Zizek parlerà apertamente anche nel film in questione.

    Altro aspetto a mio avviso interessante è incentrato su quelle che Zizek chiama immagini pseudo-concrete, ovvero una sorta di obiettivo o capro espiatorio (gli ebrei per il nazismo, ad esempio) che possano sobbarcarsi del senso perverso dell’ideologia, e delle sue successive declinazioni violente. Molti film di propaganda nazista vengono brevemente presentati e svelati nella loro essenza, così come avverrà in seguito con altrettanti film prodotti e fortemente voluto dal regime sovietico.

    A proposito di questo, peraltro, viene anche citato l’impianto scenografico dei concerti dei Rammstein, che in parte – come molte altre band del genere, peraltro – richiamano l’immaginario di era nazista ma lo fanno, secondo Zizek, in modo pre-ideologico, senza connotazioni fideistiche o realmente politiche, e ciò ci permette di vedere certe movenze ed iconografia senza, in qualche modo, doverci sentire in colpa.

    C’è poi un film molto significativo che, a questo punto, bisogna citare: La caduta di Berlino di Mikheil Chiaureli, un film sovietico del 1949 che racconta la fine della seconda guerra mondiale dal punto di vista dei russi. È secondo Zizek il film che spiega come funziona realmente l’ideologia nelle sue varie declinazioni: non incentrandosi sulla retorica staliniana di per sè (dato sicuramente presente e preponderante) bensì focalizzandosi su una coppia che si riforma dopo la guerra, dopo che lui aveva ricevuto consigli da Stalin in persona su come conquistare l’amata (questa scena, secondo Zizek, è stata tagliata in seguito in alcune versioni del film stesso). Ma questa analisi può essere condotta, secondo l’autore, anche nell’osservare film meno impegnativi come Titanic, ed è questo che corrobora la sua tesi, che convince proprio perchè è trasversale.

    L’ideologia è pertanto considerata questa forma di condizionamento, di credenza quasi religiosa che, spesso anche negli atei, finisce per condizionare la propria esistenza, non sempre in modo funzionale, degenerando in potenziale depressione o violenza. Sono molti i temi che vengono richiamati nel film, dopo aver citato un piccolo capolavoro di fantascienza distopica come Operazione diabolica (Seconds) di John Frankenheimer (1966), e che si prefigura come una documentario “di concetto” che cita particolarmente gli scritti di Lacan. Un’ottima scusa per curiosare tra il cinema più o meno noto e scoprirne pregi e virtù inattese, ancora una volta (come anche per la Guida perversa al cinema) senza necessariamente condividere il punto di vista, spesso radicale, dello studioso sloveno.

  • Razzismo, horror e tema del doppio: “Noi – Us” (J. Peele, 2019)

    Razzismo, horror e tema del doppio: “Noi – Us” (J. Peele, 2019)

    La vacanza di una famiglia americana viene bruscamente interrotta dalla presenza di alcuni estranei: sembrerebbe la più classica home invasion, ma si tratta di veri e propri “gemelli cattivi“.

    In breve. Horror diretto e coinvolgente, privo degli eccessi che – in questi casi – li caratterizzano, interpretato e diretto con grande stile. Alla base del soggetto varie suggestioni tratte dal meglio del genere horror e slasher.

    Scritto e diretto da Jordan Peele (noto per l’esordio Scappa – Get Out, un horror satirico ispirato al primo Romero), Noi è un film dalle svariate suggestioni, dotato anche di una buona dose di equilibrio: a differenza della media dei casi, infatti, riesce a bilanciare diverse componenti, senza mai appesantire la visione. Si prende spunto dagli stereotipi classici da thriller/horror, che poi vengono declinate con modalità slasher (o multi-slasher, dato che ogni personaggio ha il proprio antagonista). Tanto che, prima di iniziare le riprese, Peele distribuì una lista di undici horror al cast, in modo da disporre di un linguaggio condiviso ed una serie di punti comuni di riferimento. Un focus che nel film si evidenzia con una certa lucidità, e che attraversa Gli uccelli, Lo squalo, Shining, Babadook, passando per It Follows, Martyrs, Il sesto senso, Lasciami entrare e così via.

    Il film è, come nella tradizione carpenteriana, ripreso da continui ed insistenti simbolismi, spesso di natura biblica (Geremia 11:11: Perciò, così parla il SIGNORE: “Ecco, io faccio venir su di loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò.”) ma anche spudoratamente cinefila: Jason, ad esempio, è uno dei giovani protagonisti ed è un chiaro riferimento al cult Venerdì 13 (molte scene sono girate su un lago), e anche la continua comparsa della t-shirt di Thriller di Michael Jackson sembra avere più di una motivazione simbolica.

    Se all’inizio Noi non evoca suggestioni coinvolgenti – e anzi rischia di sembrare stereotipato o “già visto” – basta attendere i primi twist della pellicola per cambiare radicalmente idea: l’horror di Peele non solo è ben realizzato, ma è anche caratterizzato da una gradevole venatura di humour nero (il regista è anche un comico ed un produttore, per inciso, e la sequenza dell’aggressione a due personaggi con dispositivo simil-Alexa a supporto è, in ogni senso, magistrale). Il sarcasmo, del resto, aiuta a superare un problema (o almeno, ciò che potrebbe rivelarsi tale per alcuni spettatori) che affligge questo sottogenere fin dalle prime uscite, ovvero l’abuso del senso di sospensione (il piano sequenza disperato, drammatico e interminabile in Funny Games) e la facile degenerazione in sequenze inutilmente exploitation o torture porn (una tentazione a cui pochi registi, trattando questo genere, hanno saputo resistere). Peele fa la differenza: non solo ribalta l’assunto narrativo, mostrando dei protagonisti afro-americani e relegando agli attori bianchi un ruolo secondario, ma riesce a bilanciare ogni componente dell’intreccio, senza abusare del comico (il che avrebbe reso ridicolo o poco credibile il risultato) nè eccedere nella violenza (che in Us ovviamente c’è, ma è sempre funzionale alla storia).

    Dopo averci suggestionato con una sequenza chiave, quasi onirica –  che sembra citare Il tunnel dell’orrore, siamo proiettati in una dimensione nuova: una famigliola in vacanza in preda ai consueti alti e bassi (Adelaide, la madre, è la ragazzina dell’episodio visto all’inizio, ed è tormentata da un trauma infantile: si era persa in un labirinto di specchi deformanti, ha smesso di parlare ed è convinta di aver incontrario una propria gemella). Il tormento viene brutalmente interrotto da un problema nuovo: quattro estranei, sinistri e perfettamente immobili, si sono posizionati di notte all’esterno della loro casa, minacciando di entrarvi. Qui il riferimento più evidente sembra essere a film come You’re the next, ma bisognerebbe citare, come minimo, anche l’attitudine dei ragazzi di Funny Games. L’atmosfera diventa più rarefatta e sinistra, l’aggressività degli estranei sembra poco giustificabile ma, soprattutto, notiamo una particolare ritualità nei loro gesti. Proprio in questa teatralità mimica, in effetti, che caratterizzerà i villain con una particolarissima forma di coreografia, risiede uno dei punti di forza del film di Peele, unita alla particolare forma di disfonia di cui soffre il “doppio” del personaggio interpretato da Lupita Nyong.

    Una famiglia contro i rispettivi “gemelli cattivi”: un’idea semplice, funzionale quanto originale nelle conseguenze. Se l’impianto generale potrebbe essere tratto da un episodio de Ai confini della realtà (e in effetti esiste un episodio di una serie di fantascienza anni ’60, Lost in Space, dal nome The anti matter man, il quale racconta del viaggio dei due protagonisti in un mondo parallelo, in cui dovranno fronteggiare i rispettivi doppelgänger), concettualmente Peele si ispira anche all’horror alla Romero, in un modo che diventerà particolarmente evidente nella seconda metà del film. E se la sua conoscenza del genere (e relativa attitudine) è autentica, originale e più che degna di nota, bisognerebbe citare almeno un ulteriore film che potrebbe averlo ispirato, ovvero il cult Doppia immagine nello spazio – Doppelganger.

    Se il film riprende e rielabora i più classici stereotipi del genere, quindi, va anche specificato che lo svolgimento della trama si basa anche sul mito della caverna, di cui scrisse Platone nell’opera filosofica La repubblica. Insomma quello di Peele è un horror autoriale, compatto e credibile, sostanzialmente privo di difetti e con tanto di doppio finale: una piccola perla di cui il genere, ad oggi, sembra avere un bisogno vitale.