Salvatore

  • Quante lettere ci sono nell’alfabeto italiano?

    Quante lettere ci sono nell’alfabeto italiano?

    L’alfabeto italiano è un elemento fondamentale per la trascrizione dei fonemi della lingua italiana. Composto da 21 lettere, è integrato nella pratica da ulteriori 5 lettere di origine straniera o latina, formando così un insieme di 26 lettere noto come alfabeto latino. Storicamente, anche la lettera J (i lunga) faceva parte dell’alfabeto italiano, sebbene oggi il suo uso sia limitato a nomi, cognomi e toponimi specifici. Questo sistema, caratterizzato da una buona corrispondenza tra fonemi e grafemi, rappresenta una base essenziale per la comunicazione scritta, nonostante non sia completamente perfetto.

    Quante lettere ci sono nell’alfabeto italiano?

    L’alfabeto italiano è l’insieme delle lettere usate nel sistema di scrittura alfabetico utilizzato per trascrivere i fonemi propri della lingua italiana ed è composto, di fatto, da 21 lettere. Nella pratica tuttavia vengono utilizzate anche altre 5 lettere (lettere straniere), per parole di derivazione per lo più straniera o latina; per l’insieme di tutte le 26 lettere si usa invece il termine alfabeto latino.

    In passato la lettera J (i lunga) faceva parte dell’alfabeto italiano, ma oggi è usata solo in alcuni nomi, cognomi e toponimi.

    Abbiamo pertanto 21 lettere nell’alfabeto italiano, 26 nel cosiddetto alfabeto latino.

    Le 21 lettere dell’alfabeto italiano sono:

    A, B, C, D, E, F, G, H, I, L, M, N, O, P, Q, R, S, T, U, V, Z.

    L’alfabeto latino, utilizzato anche nella lingua italiana, comprende le seguenti 26 lettere:

    A, B, C, D, E, F, G, H, I, J, K, L, M, N, O, P, Q, R, S, T, U, V, W, X, Y, Z.

    Immagine: De KB_United_States.svg: User:Denelson83derivative work: Vale maio (talk) – KB_United_States.svg, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=6257160

  • Uno di noi (let him go): trama, recensione, cast, spiegazione finale

    Uno di noi (let him go): trama, recensione, cast, spiegazione finale

    “Let Him Go” è un thriller neo-western del 2020, diretto, scritto e co-prodotto da Thomas Bezucha, con protagonisti Diane Lane e Kevin Costner. Il film si basa sul romanzo omonimo del 2013 scritto da Larry Watson. La trama ruota attorno a un ex sceriffo (interpretato da Kevin Costner) e a sua moglie (Diane Lane), che tentano di salvare il loro nipote da una famiglia pericolosa che vive in isolamento. Il cast include anche Lesley Manville, Kayli Carter, Will Brittain e Jeffrey Donovan.

    Il film è stato distribuito nelle sale cinematografiche statunitensi il 6 novembre 2020 da Focus Features. “Let Him Go” ha ricevuto recensioni positive e ha incassato oltre 11,6 milioni di dollari.

    Il Concetto di Neo-Western

    Il termine “neo-western” si riferisce a una rielaborazione moderna dei temi e degli elementi classici del genere western. Mentre i western tradizionali si concentrano su avventure epiche, la lotta tra il bene e il male e l’espansione verso l’ovest degli Stati Uniti, i neo-western tendono a esplorare temi più complessi e realistici, spesso ambientati in contesti contemporanei.

    Nel caso di “Let Him Go”, il film incorpora elementi tipici del western—come la lotta per la giustizia e il confronto con una forza ostile—ma lo fa attraverso una lente moderna. L’ambientazione isolata e la dinamica familiare pericolosa ricordano i paesaggi e le tensioni dei western classici, ma i personaggi e le situazioni riflettono problematiche contemporanee, come l’isolamento sociale e il conflitto familiare.

    Il neo-western, quindi, non solo rende omaggio ai film western tradizionali, ma li aggiorna e li adatta ai temi e alle preoccupazioni del presente, offrendo una prospettiva nuova e più sfumata su una narrativa ben conosciuta.

    Cast

    Diane Lane nel ruolo di Margaret Blackledge
    Kevin Costner nel ruolo di George Blackledge
    Kayli Carter nel ruolo di Lorna Blackledge
    Ryan Bruce nel ruolo di James Blackledge
    Otto e Bram Hornung nel ruolo di Jimmy Blackledge
    Lesley Manville nel ruolo di Blanche Weboy
    Will Brittain nel ruolo di Donnie Weboy
    Jeffrey Donovan nel ruolo di Bill Weboy
    Will Hochman nel ruolo di Tucker
    Connor Mackay nel ruolo di Elton Weboy
    Adam Stafford nel ruolo di Marvin Weboy
    Booboo Stewart nel ruolo di Peter Dragswolf
    Greg Lawson nel ruolo di Gladstone Sheriff
    Bradley Stryker nel ruolo di Sceriffo Nevelson

    Recensione e trama

    Nel 1961, in Montana, l’ex sceriffo George Blackledge e sua moglie Margaret vivono con il loro figlio James, la moglie di James Lorna e il loro bambino Jimmy. Dopo che James muore tragicamente, Lorna sposa Donnie Weboy per ricevere il suo supporto. Tuttavia, quando Margaret osserva Donnie trattare male Jimmy, decide di intervenire. Scoprendo che Lorna e Jimmy sono in pericolo, Margaret e George partono per salvarli. Il loro viaggio li porta a Gladstone, North Dakota, dove cercano Bill Weboy, zio di Donnie, e incontrano diverse difficoltà. Alla fine, la loro missione culmina in una violenta resa dei conti con la famiglia Weboy, culminando in una serie di eventi tragici.

    “Let Him Go” ha ricevuto una risposta critica generalmente positiva. Su Rotten Tomatoes, il film ha ottenuto un elevato tasso di approvazione dell’84% da parte della critica, con una valutazione media di 7 su 10, suggerendo che, sebbene non perfetto, è stato ben accolto dalla maggior parte dei recensori. Il consenso critico sottolinea che la combinazione di dramma e thriller è ben gestita grazie alla forza interpretativa di un cast esperto. Metacritic, con un punteggio medio di 63 su 100, conferma che le recensioni sono per lo più favorevoli, ma non senza riserve.

    Dal punto di vista del pubblico, le risposte sono state miste ma positive. CinemaScore ha indicato una valutazione media di “B−”, suggerendo una risposta generalmente positiva ma con alcune riserve. Tuttavia, PostTrak ha rivelato che una percentuale considerevole di spettatori (82%) ha apprezzato il film, e metà di questi lo raccomanderebbe senza esitazioni.

    Le recensioni critiche lodano in particolare le interpretazioni di Kevin Costner e Diane Lane. Owen Gleiberman di Variety ha sottolineato come i due attori offrano una performance intensa e sincera, elevando il film. Barry Hertz di The Globe and Mail ha descritto il film come un thriller ben realizzato, sebbene orientato verso un pubblico più maturo che predilige drammi con elementi di violenza. Tuttavia, la qualità della realizzazione consente al film di intrattenere anche spettatori al di fuori di questo target specifico.

    (SPOILER da qui in poi)

    Il finale di “Let Him Go” è intenso e drammatico. Dopo aver subito gravi lesioni durante l’assalto da parte della famiglia Weboy, George trova la forza di lanciarsi in un’ultima azione disperata. La scena culminante vede George, armato di un fucile, tentare di liberare Jimmy dalla casa dei Weboy, che è stata messa a fuoco per distrarre i suoi nemici.

    George riesce a trovare un fucile sul retro della casa e si prepara a confrontarsi con Donnie. Tuttavia, la situazione si complica rapidamente. Blanche e Donnie, insieme ad altri familiari, attaccano George, ma lui riesce a neutralizzare Donnie e a prendere Jimmy. L’azione si sposta all’esterno dove Blanche, armata di pistola, viene colpita accidentalmente mentre tenta di fermare George. Nel caos, George lancia Jimmy a Lorna, che lo prende al volo, mentre Blanche spara a George, uccidendolo.

    Margaret, assistita da Peter, si precipita a salvare George ma arriva troppo tardi. Blanche, sconvolta e furiosa, continua a sparare e uccide anche Marvin ed Elton. Margaret riesce infine a impadronirsi del fucile e uccide Blanche, mentre la casa dei Weboy brucia.

    Alla fine, Margaret e Lorna, con Jimmy al sicuro, tornano a casa. Sebbene distrutta dalla perdita di George, Margaret trova una certa consolazione nella sicurezza di Jimmy, segnando la conclusione di una lunga e dolorosa lotta per la salvezza familiare.

  • Che cos’è l’ipotiposi

    Che cos’è l’ipotiposi

    L’etimologia del giorno: Ipotiposi

    Parola: Ipotiposi

    Origine e storia: La parola “ipotiposi” deriva dal greco antico ὑποτύπωσις (hypotýpōsis), composto da ὑπό (hypó), che significa “sotto”, e τύπος (týpos), che significa “immagine” o “figura”. Originariamente, il termine indicava una rappresentazione vivida e dettagliata, quasi come un’immagine visiva, di una scena o di un evento. Questo termine è stato adottato in retorica per descrivere una figura retorica che mira a creare un’immagine vivida e dettagliata nella mente dell’ascoltatore o del lettore.

    Uso nella storia: L’ipotiposi è stata utilizzata fin dall’antichità nelle opere letterarie e nei discorsi oratori per coinvolgere il pubblico e rendere le descrizioni più vivide e impressionanti. Retori come Cicerone e Quintiliano ne hanno discusso nelle loro opere, evidenziando l’importanza di questa tecnica per l’arte della persuasione e della narrazione.

    Significato moderno: Oggi, l’ipotiposi è ancora utilizzata nella letteratura, nella poesia e nella retorica per creare descrizioni particolarmente vivide e dettagliate. È una tecnica che permette agli scrittori e agli oratori di far “vedere” ciò che descrivono, coinvolgendo i sensi del lettore o dell’ascoltatore in modo più intenso.

    Curiosità: L’ipotiposi è spesso usata nei discorsi politici e nelle arringhe degli avvocati per evocare immagini potenti che possano influenzare l’emotività del pubblico o della giuria. Anche nelle opere di narrativa, questa tecnica è impiegata per rendere le scene più coinvolgenti e realistiche.

    Esempi celebri: Un esempio famoso di ipotiposi si trova nell’oratoria di Cicerone, che descrive con dettagli vividi e drammatici le scene di crimini o ingiustizie per convincere i suoi ascoltatori. Anche Dante Alighieri utilizza frequentemente l’ipotiposi nella “Divina Commedia” per descrivere le scene dell’inferno, del purgatorio e del paradiso con una vividezza impressionante.

    Connessione con altre lingue: In altre lingue, la figura retorica dell’ipotiposi è conosciuta con termini derivati dal greco o da radici simili. In inglese, ad esempio, si usa il termine “hypotyposis” per indicare la stessa tecnica di rappresentazione vivida e dettagliata.

    Conclusione: La parola “ipotiposi” rappresenta una potente tecnica retorica e letteraria che permette di creare immagini vivide nella mente del lettore o dell’ascoltatore. Utilizzata fin dall’antichità, continua a essere uno strumento efficace per rendere le descrizioni più coinvolgenti e persuasive.

    Immagine di copertina: Di User:Rodasmith – Photo of Bellevue College ASL student Keri Roggenbeck by User:Rodasmith, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=6599011

  • Guida pratica alla mano a pigna

    Guida pratica alla mano a pigna

    Che vuoi?

    Anche se il gesticolare è un fenomeno presente in tutte le culture, la gestualità italiana è generalmente riconosciuta come una delle caratteristiche distintive degli abitanti del Bel Paese. Nel febbraio del 2020, il Consorzio Unicode ha approvato la proposta di un imprenditore amalfitano di rendere il tipico gesto della “mano a pigna” un’emoji. Il simbolo è stato aggiunto con il nome di “pinched fingers” nel rilascio di luglio 2020. La nuova emoji è stata introdotta come ed è diventata parte integrante dello standard tecnologico Unicode 13.0 : si può ottenere in markup HTML con

    • 🤌
    • 🤌

    oppure usando:

    0x0001F90C

    mediante la codifica Unicode UTF-32 (UTF a 32 bit).

    Codice U+1F90C

    • U: Sta per “Unicode” e indica che si tratta di un carattere codificato nello standard Unicode.
    • 1F90C: È il codice esadecimale che rappresenta l’emoji specifica.

    Emoji pinched fingers – Che vuoi?!

    C’è anche una pagina Wikipedia dedicata al tema.

    Mano a Pigna: Significato e Uso

    Che vuoi?, descritto in alternativa come ma che vuoi?, ma che dici?/ma che stai dicendo? (“di cosa stai parlando?“), o semplicemente che? (“cosa?”), è uno dei gesti delle mani più conosciuti in Italia. In inglese, a volte viene chiamato “pinched finger” o “finger purse” (italiano: mano a borsa), ha lo scopo di esprimere incredulità verso ciò che l’altra persona sta dicendo o facendo e/o eventualmente ridicolizzare le sue opinioni.

    La mano a pigna, conosciuta anche come mano a tulipano, è un gesto distintivo in cui le dita vengono raccolte insieme in modo da ricordare la forma di una pigna o di un tulipano. Questo gesto comporta l’oscillazione della mano verso l’interlocutore e può avere un doppio significato: interrogativo o di critica.

    • Significato Interrogativo: In questo contesto, la mano si muove rapidamente e il gesto può essere tradotto in parole con l’espressione “che vuoi?”. È un modo per chiedere chiarimenti o esprimere perplessità.
    • Significato di Critica: Quando il gesto ha una connotazione critica, la mano oscilla più lentamente, sottolineando una posizione di disapprovazione o incredulità nei confronti dell’interlocutore. In questo caso, il gesto può essere interpretato come “ma che dici?!” o “niente affatto”.

    La mano a pigna è considerata uno dei gesti più caratteristici del linguaggio non verbale italiano, particolarmente espressivo e spesso utilizzato per accompagnare il parlato.

    Esempio Letterario

    Un esempio aulico dell’uso di questo gesto è presente nell’opera di Carlo Emilio Gadda, che descrive vividamente questa azione nel suo stile caratteristico:

    “Raccolte a tulipano le cinque dita della mano destra, altalenò quel fiore nella ipotiposi digito-interrogativa tanto in uso presso gli Apuli.”

    Vediamo di spiegare la frase  in questione:

    • “Raccolte a tulipano le cinque dita della mano destra” significa che le dita della mano destra sono state unite e piegate in modo da formare una figura che assomiglia a un tulipano, con le dita che si uniscono in un punto e si curvano verso l’alto.
    • “Altalenò quel fiore” utilizza la metafora del “fiore” per riferirsi alla mano raccolta a tulipano. Il verbo “altalenò” indica che la mano viene mossa avanti e indietro, come un’altalena.
    • “Nella ipotiposi digito-interrogativa” fa riferimento a una figura retorica, l’ipotiposi, che consiste nel descrivere qualcosa in modo così vivido da farlo apparire visivamente chiaro nella mente dell’osservatore. In questo caso, “digito-interrogativa” significa che il gesto fatto con le dita serve per porre una domanda o esprimere interrogazione.
    • “Tanto in uso presso gli Apuli” indica che questo specifico gesto è comunemente utilizzato dagli Apuli, una popolazione dell’antica Puglia. Questo suggerisce che il gesto è una tradizione culturale tipica di quella regione.

    In sintesi, la frase descrive una persona che unisce le dita della mano destra in una forma simile a un tulipano e la muove avanti e indietro in un gesto tipico degli Apuli, usato per esprimere una domanda o una perplessità.

    Chi sono gli Apuli?!

    Gli Apuli erano un antico popolo italico che abitava la regione conosciuta oggi come Puglia, nel sud-est dell’Italia. La cultura degli Apuli era caratterizzata da tradizioni e usanze particolari, molte delle quali sono sopravvissute e si sono integrate nella cultura pugliese moderna. L’uso di gesti espressivi, come la mano a pigna, può essere visto come una continuazione di queste antiche tradizioni culturali, contribuendo alla ricca e variegata comunicazione non verbale italiana.

  • Simulare simulacri: guida pratica allo scambio simbolico di Baudrillard

    Simulare simulacri: guida pratica allo scambio simbolico di Baudrillard

    In italiano, la parola “simulacro” deriva dal latino “simulacrum“, che significa “immagine” o “rappresentazione”. “Simulacrum” a sua volta è composto da “simul”, che significa “allo stesso tempo” o “insieme”.

    In origine, il termine si riferiva a una rappresentazione o immagine di qualcosa, come statue o idoli. Nel tempo, il significato di “simulacro” si è ampliato per includere non solo rappresentazioni fisiche ma anche imitazioni che non riflettono necessariamente la realtà. In ambito teorico o filosofico, un simulacro può riferirsi a una rappresentazione che ha preso il posto della realtà stessa o che è considerata più reale della realtà originale. Nell’informatica, un classico simulacro può essere considerato ad esempio una videochat.

    Come aveva provato a spiegarci tempo fa un’intelligenza artificiale, Baudrillard sostiene che la realtà sia modellata dal linguaggio (in parte sulla falsariga di Lacan), e concepisce lo scambio simbolico come uno scambio di merci in funzione puramente simbolica. Questo, in altri termini, significa che gli oggetti hanno valore in funzione del prestigio o l’appartenenza che conferiscono e non della loro reale utilità. Alla lunga, lo scambio diventa fuorviante e può trasmettere un’idea o un’immagine distorta della realtà.

    Iperrealismo

    Per Baudrillard il reale e l’immaginario non sono distinguibili, per cui finisce tutto per spostarsi sul piano dello (scambio) simbolico. Il lavoro, radicalmente, è una morte lenta e inesorabile per l’uomo in contrapposizione a quella veloce e violenta che avviene realmente. Reale e virtuale sono talmente similari che il reale è collassato nell’iperrealtà: passando di medium in medium, infatti, il reale si dissolve progressivamente, diventando un reale che somiglia a se stesso e provoca una autentica vertigine di simulazione realistica.

    Se il reale è ciò di cui è possibile fare una riproduzione equivalente, ovvero risponde al principio di riproduttività, l’iperreale si troverà dentro una simulazione, un simulacro di terzo ordine.

    Simulacri

    Il concetto di simulacro assume un significato differente a seconda del livello a cui fa riferimento, ma potrebbe farsi risalire a Lucrezio (1 secolo AC), che nell’opera De rerum natura definisce i sottili veli che ricoprono le cose come forma e apparenza, per l’appunto, come simulacri. Se in senso lato un simulacro è una forma di modello per una macchina, con particolare riferimento alla sua forma esterna

    Nella dottrina epicurea, esposta da Lucrezio (sec. 1° a. C.) nel IV libro del De rerum natura, pensare ai simulacri significa credre in una dottrica per cui dalle cose si staccherebbero dei sottili veli atomici, del tutto identici alle cose, i quali, venendo in contatto con i sensi, determinerebbero sia le percezioni sia i sogni. Nella tecnica, modello al vero di una macchina o di una parte di essa, generalmente riproducente la sola forma esterna.

    Simulacri di primo, secondo e terzo ordine (Baudrillard)

    Vengono chiamati da Baudrillard simulacri

    • del primo ordine quelli legati al concetto di contraffazione, risalenti all’epoca classica,
    • di secondo ordine quelli legati alla produzione (età industriale)
    • del terzo ordine quelli relativi alla modernità.

    La tecnologia e la conseguente tecnocrazia sono già presenti da tempo, radicati nella società, e si fondano sui simulacri dell’organizzazione statale, scolastica e via dicendo.

    I simulacri di terzo ordine sono, infine, veri e propri modelli di simulazione, governati dal principio di digitalità e rispondenti alla logica binaria basata su 0 e 1. La stessa che Leibnitz chiamava “l’eleganza mistica del sistema binario” non introduce solo un codice di rappresentazione, come l’informatica teorica ha sempre insegnato: è un vero e proprio spirito di fondo, che crea sistemi automatici di domanda e risposta in cui non esistono sfumature, e tutto è bianco/nero, pro/contro e via dicendo.

    L’ordine neocapitalistico cibernetico

    Il medium è il messaggio. (McLuhan)

    Si fonda così un “ordine neo-capitalistico cibernetico” (concetto poi ripreso da Nick Land) in cui la digitalità assilla tutti i messaggi, ed appare soprattutto in forma di test e/o sistema domanda/risposta, prettamente binari ed in cui non esistono terze o quarte possibilità: ne esistono soltanto due, 0 e 1. La logica binaria diventa, secondo Baudrillard, l’essenza della modernità.

    Il sistema di terzo ordine è infido, secondo Baudrillard, perchè induce instantaneità di giudizio, si pone come sistema di test perpetuo per l’utente umano. Gli stessi messaggi inviati e ricevuti nel sistema non hanno più un ruolo informativo, bensì di test e sondaggio degli utenti.

    L’oggetto non è più funzionale, non vi serve – scrive Baudrillard ne Lo scambio simbolico e la morte –  semmai vi sottopone ad un test. Il test, di fatto, serve a tradurre ogni conflitto o problema complesso in un gioco di dualità forzato, in cui sarai sempre pro-zero oppure pro-uno (oppure, dualmente, contro-zero / contro-uno). Lo schema binario di domanda e risposta disarticola ogni discorso, introducendo una logica di realtà di tipo iper-reale. I sondaggi ad esempio fanno riferimento pertanto al simulacro dell’opinione pubblica e “manipolano l’indecidibile“.

    Ciò provoca una circolarità totale, perchè gli interrogati si dipingono sempre come la domanda li immagina e li sollecita ad essere, [il che diventa] una modalità di profezia che si autoavvera (per l’accelerazionismo, una iperstizione).

    Automi e robot

    la contrapposizione tra automi e robot è fondamentale in Baudrillard: i primi afferiscono ai simulacri del primo ordine, e ancora a questo stadio assumono una differenza o una faglia tra reale e simulacro.

    Nello specifico, l’automa è una contraffazione del reale, mentre il robot lavora in automatico e rappresenta un simulacro di secondo ordine, in grado di liquidare il reale ed annullare la divergenza tra i due livelli (realtà e simulazione).

    Foto di copertina: Baudrillard di fronte ad un simulacro simile ad uno smartphone, in versione cyberpunk (generato da StarryAI)