Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • Mr. Nobody: un viaggio tra universi paralleli

    Mr. Nobody: un viaggio tra universi paralleli

    2092: Mister Nobody è ufficialmente l’uomo più anziano al mondo. L’attenzione mediatica è talmente concentrata su di lui che decide di raccontare la propria vita ad un giornalista. Racconto che si rivela, pero’, contraddittorio in vari punti, come se il protagonista non sapesse o non volesse scegliere tra fantasie e realtà.

    In breve. Una fantascienza in pieno stile Nolan pregna di originalità ed elementi accattivanti. Una forma che tende pero’ a surclassare la sostanza, vagamente autoreferenziale, diluita e didascalica: troppo per urlare al vero e proprio capolavoro.

    Terzo lungometraggio di Jaco Van Dormael, regista belga avvezzo allo sperimentalismo ed influenzato apparentemente dai salti spazio-temporali di Nolan – come dalle trovate grottesche di Terry Gilliam, che scrive e dirige Mr. Nobody presentando un universo non lineare composto di possibilità di ogni tipo. L’intreccio racconta, a ritroso o mediante flashback disordinati, la storia della vita di Nemo Nobody, chiaramente nomen omen interpretato da Jared Leto, simbolo dell’uomo in generale e “signor nessun” per eccellenza. Il protagonista è al centro dell’attenzione all’interno di una società futuristica del 2092 , che viene solo accennata (e che non sembra diversa dagli scenari modello Blade Runner o The zero Theorem). La cosa essenziale, che rende il focus della narrazione profondamente umano e fonte di facile identificazione per il pubblico, è che sembrerebbe trattarsi dell’ultimo mortale rimasto sulla terra (mentre il resto della popolazione sembrerebbe composta da androidi semi-immortali).

    L’autobiografia di Nemo, tuttavia, è contraddittoria in vari punti, dato che contempla 3 matrimoni diversi, circa 4 modi diversi in cui sarebbe morto ed una serie di problemi da affrontare di ogni ordine e grado (tra cui un probabile disturbo bipolare di una delle consorti). La sliding door principale sembra comunque essere legata al divorzio dei genitori, che lo pongono fin da bambino in una situazione impossibile da dover scegliere: stare con il padre o con la madre, il tutto – forse in modo vagamente didascalico, in una stazione dal nome Choice. Ma l’autentica stranezza è rappresentata dal racconto di più storie in parallelo, dove in ognuna attraversa eventi differenti, si innamora di donne diverse, fa lavori differenti (dal fisico divulgatore al tecnico pulitore di piscine) e sembra, peraltro, “ricordare” o collegarsi alle possibili identità che lo avrebbero caratterizzato. Nemo sembra anche morire più volte durante la storia, per i motivi più vari: per uno scambio di identità, per annegamento, per via di un incidente stradale. In alcune versioni della propria vita Nemo è stato felice, innamorato e appagato lavorativamente, in altre era insoddisfatto e covava rabbia nei confronti della moglie.

    Se la storia tende ad indurre un discreto livello di confusione nello spettatore, è possibile quantomeno rimanere ancorati ad una narrazione centralizzata, che è sempre ricollegata ad un protagonista ultra-centenario che racconta, compone, ricombina le storie (e sembra anche divertirsi a farlo), mandando sempre più in crisi il povero giornalista che vorrebbe saperne di più. Sembra di avere a che fare con un mix di ricordi autentici e falsi ricordi del protagonista, tanto più che il tempo trascorso è parecchio, in alcuni frammenti familiarizza con personaggi che non riconoscere in successivi episodi e c’è di mezzo, peraltro, un significativo viaggio su Marte (per fare il quale Nemo si è dovuto ibernare per qualche mese).

    Mr. Nobody e i suoi pregi

    A livello registico ci sono un paio di cose da osservare: le riprese sono accattivanti, incuriosiscono e catturano lo spettatore – giocando su allusioni, richiami e non detti. È uno stile che cerca, forse un po’ troppo pedissequamente, di imitare quello di Nolan, cosa apprezzabile quanto in parte poco soddisfacente, dato che Van Dormael non sembra disporre della sistematicità e delle “regole” che caratterizzano quei film. Il livello di storie intrecciate è fin troppo fitto, considerando la morale del film che viene affidata ad una celebre citazione di Tennessee Williams, che funziona discretamente, in effetti, un po’ a prescindere da quello che si vede sullo schermo. Se questo depone a favore della grandiosità del messaggio, lascia la vaga sensazione che potesse andar bene anche la storia di Giannino il tecnico del gas, al posto di quella di Nemo fisico, fotografo o operaio addetto alla pulizia delle piscine. Cosa che rimane come considerazione ironica e mera apparenza, dopo aver visto il film, ma che lascia comunque la sensazione di aver visto due ore di film-impossibile zeppo di salti temporali in lungo, in largo ed in diagonale in cui sostanzialmente non puoi capire cosa sia reale e cosa, invece, non lo sia (ancora peggio: sono i personaggi stessi che si interrogano apertamente sull’essere reali o meno!). In ottica spirituale – testimoniata dall’antefatto degli angeli che segnano i bambini “dimenticandosi” di Nemo – sembra quasi che la realtà finisca per non avere alcuna importanza, dato che ogni storia, in fondo, merita di essere raccontata (per carità, nessuno dica una cosa del genere ad un qualsiasi aspirante scrittore).

    Non tutto, nel film, funziona davvero

    Non mancano alcune banalità altisonanti, per la cronaca (un paio di uova di colombo del tipo: Finché non scegli, tutto è possibile), ma alcuni intermezzi come quello in cui si spiega l’effetto farfalla sono davvero deliziosi. Sono notevoli anche le sequenze simil-lynchiane, come quello di Nemo bambino dentro un teatro, o ancora Nemo adulto che batte a macchina la propria storia intrecciandola con teorie sugli universi paralleli. C’è anche un riferimento al gioco degli scacchi, in cui si applica il concetto desueto di zugzwang, parola tedesca che indica la situazione in cui il giocatore è obbligato a fare una mossa – e qualsiasi mossa farà, dovrà necessariamente subire una perdita o subire uno scacco matto. In genere il film da’ una discreta impressione in positivo per quanto, alla fine, i dubbi restino e sia difficile emettere un giudizio su quello che si è visto, proprio per il gran numero di dettagli e per via del fatto che viene il dubbio, in fondo, se abbia davvero senso razionalizzare quelle storie.

    Il messaggio c’è ed è profondo, e suona anche svilente ridurlo ad una rielaborazione didascalica della massima del drammaturgo statunitense (per inciso: “Anything might have been anything else and had as much meaning to it“, che è anche il modo più scontato per trovare una spiegazione coerente di un finale abbastanza criptico, per la verità). Al tempo stesso è altrettanto complesso spiegare meglio ciò che si è visto: si può dire tutto ed il contrario di tutto, e non a caso su Mr Nobody imperversano vari spiegoni che lo rendono, di fatto, uno dei tanti film più discussi che visti.

    Il finale di Mr. Nobody

    Sul finale è stato scritto parecchio: l’apice della storia coincide con la fine della vita del protagonista, che dimostra (?) di avere doti di preveggenza ma anche un’eccellente memoria, la quale risulta evidentemente viziata da falsi ricordi su ciò che sarebbe stato e su un rimuginio incessante sul proprio passato. La “beffa”, se vogliamo, è che solo una delle linee temporali è quella corretta e nessuno ci dice quale sia, come se il film scaricasse sullo spettatore l’onere di sceglierla – fermo restando che sono considerate tutte egualmente degne di essere state vissute.

    La struttura narrativa

    Dormael dirige sulla falsariga di film come Inception, presentando i medesimi personaggi che vivono storie differenti e “parallele” tra loro, al tempo stesso sembrerebbero riuscire a comunicare accidentalmente tra un livello e l’altro. In questo senso la scelta di ambientare il tutto nella medesima città (come sembrerebbe) appare un po’ forzosa quanto, probabilmente, necessaria per motivi pratici. Nemo in effetti riconosce un altro se stesso da altre linee temporali in almeno un’occasione, anche se poi la spiegazione effettiva non viene data nemmeno qui – e si opta per un surrealismo che, alla lunga, sa più di esercizio di stile che altro.

    Per quanto la formalizzazione di quelle storie rimanga per molti versi piuttosto vaga, comunque, il film suscita una discreta curiosità fin dall’inizio, per poi altalenare tra momenti intensi ed altri francamente poco coinvolgenti, senza contare il diluirsi del lavoro in sotto-sottostorie non sempre significative o pregnanti. In definitiva, un discreto film da riscoprire ancora oggi, a patto di sottostare al più classico dei patti regista-spettatore e non avere la pretesa che ci venga spiegata qualsiasi cosa.

  • Heat – la sfida: cast, produzione, sinossi, curiosità e spiegazione finale del film

    Heat – la sfida: cast, produzione, sinossi, curiosità e spiegazione finale del film

    Cast

    • Al Pacino nel ruolo del Tenente Vincent Hanna
    • Robert De Niro nel ruolo di Neil McCauley
    • Val Kilmer nel ruolo di Chris Shiherlis
    • Tom Sizemore nel ruolo di Michael Cheritto
    • Jon Voight nel ruolo di Nate
    • Ashley Judd nel ruolo di Charlene Shiherlis
    • Natalie Portman nel ruolo di Lauren Gustafson

    Produzione

    Il film “Heat – La Sfida” è stato diretto da Michael Mann ed è stato rilasciato nel 1995. Il regista ha lavorato a lungo sulla sceneggiatura e ha assemblato un cast di attori di grande calibro per i ruoli principali.

    Sinossi

    Il film segue il tenente Vincent Hanna (Al Pacino), un determinato detective di Los Angeles che è sulle tracce di un gruppo di rapinatori di banche guidato da Neil McCauley (Robert De Niro). McCauley e il suo team sono abili professionisti che pianificano attentamente le loro operazioni, cercando di evitare l’attenzione della polizia. Hanna è deciso a catturare McCauley e la sua banda, ma la linea tra il bene e il male si fa sempre più sfumata mentre entrambi i protagonisti si trovano ad affrontare scelte difficili e sfide personali.

    Curiosità

    • “Heat – La Sfida” è noto per la celebre scena in cui Al Pacino e Robert De Niro condividono lo schermo per la prima volta, nonostante i due abbiano recitato in “Il Padrino Parte II”, non condividevano mai una scena insieme in quel film.
    • Per catturare l’autenticità delle scene di sparatorie, il regista Michael Mann ha collaborato con esperti di tattiche di polizia e di armi da fuoco.
    • Val Kilmer e Ashley Judd, che interpretano una coppia nel film, sono diventati successivamente marito e moglie nella vita reale.

    Spiegazione Finale

    Avviso spoiler

    Nel clou del film, Hanna e McCauley si ritrovano faccia a faccia in un ristorante. Durante questa conversazione intensa, entrambi i personaggi riconoscono il rispetto reciproco e la comprensione delle loro vite parallele. McCauley riconosce che Hanna è troppo determinato per lasciare che lui sfugga di nuovo, e quindi decide di abbandonare il suo piano di fuga e affrontare Hanna.

    La scena finale mostra McCauley e Hanna in una sparatoria, dove entrambi rimangono feriti. McCauley muore in aeroporto mentre cerca di scappare, e Hanna lo guarda spirare. Questa sequenza riflette l’ossessione di Hanna nei confronti del lavoro e il rispetto che ha sviluppato per McCauley durante la loro caccia reciproca.

    Il finale del film sottolinea la complessità dei personaggi e delle loro motivazioni, mettendo in luce il conflitto tra giustizia e la vita criminale, oltre a esplorare temi di identità e destinazione.

  • Videocracy è un simulacro nell’ombra dei canali TV

    Videocracy è un simulacro nell’ombra dei canali TV

    All’interno del suggestivo documentario del 2009 intitolato Videocracy, diretto da Erik Gandini, emerge un’affascinante teoria espressa dal regista del Grande Fratello Fabio Calvi. Secondo Calvi, il flusso ininterrotto di immagini che pervade la televisione di Silvio Berlusconi (1936-2023) rappresenterebbe il riflesso stesso della sua personalità: una sorta di finestra sulla sua mente, sui suoi sogni, sulla sua visione del mondo.

    Jean Baudrillard, uno dei più influenti teorici della postmodernità, ci offre una visione straordinariamente critica e provocatoria del mondo contemporaneo. Secondo Baudrillard, viviamo in una società in cui la realtà stessa è stata sostituita da simulacri, copie senza un originale autentico. La sua teoria mette in discussione il concetto di verità oggettiva e ci invita a considerare il mondo come una serie di rappresentazioni, di simulazioni che mascherano la realtà stessa. Questo specchio mediatico, dove donne dai tratti sinuosi ed estenuanti, ricchezze sfavillanti e opportunità senza fine prendono vita, si è rapidamente trasformato nell’immaginario collettivo degli italiani. Baudrillard sosteneva del resto che nel nostro mondo ipermediatizzato, i media e le immagini giocano un ruolo centrale nella costruzione della nostra percezione della realtà. Attraverso la proliferazione dei mezzi di comunicazione di massa, siamo immersi in un flusso incessante di immagini, informazioni e segni che ci pervadono. Tuttavia queste immagini non ci offrono una rappresentazione accurata della realtà, ma sono piuttosto una distorsione, una finzione che ci viene presentata come realtà (iperrealtà). Secondo Baudrillard, viviamo in una società in cui la simulazione ha preso il sopravvento sulla realtà stessa.

    Per i giovani millennial, che hanno vissuto la loro infanzia immersi in programmi televisivi iconici come Bim Bum Bam e si sono abituati a donne che danzano in costumi succinti mentre cenano durante i game show serali, Berlusconi si è insinuato nella loro coscienza come un’incarnazione dei loro ricordi più cari.  Nel contesto un ipotetico affascinante romanzo cyberpunk, Videocracy ci permette di entrare nel mondo virtuale dei canali televisivi di Berlusconi e nei misteri che nasconde, prima ancora che quest’ultimo avesse una qualsiasi accezione di mondo virtuale dominato da internet. Svelerà le verità nascoste dietro le immagini e i suoni che hanno permeato le nostre vite, e seguiremo il percorso di un giovane ribelle che lotta per riportare la verità e la libertà nella società.

    Ho avuto modo di visionare questo discusso prodotto italo-svedese, del quale ho apprezzato lo stile documentaristico, mentre ho trovato realmente spiazzanti alcune sue parti (da film dell’orrore, in tutti i sensi). Non sono certo dalla parte dell’attuale presidente del consiglio: eppure, senza scadere ina affermazioni che potrebbero apparire qualunquiste, il punto è che guardando questo film si colpisce duramente un modo di pensare per intero (altro…)

  • Der Todesking è l’horror underground definitivo

    Der Todesking è l’horror underground definitivo

    Agli occhi di una bambina (che lo disegna nella prima e nell’ultima scena del film) non sarà altro che uno scheletro un po’ naive, con una semplice corona in testa, dal quale sembra non debba esserci nulla da temere. I vari suicidi sembrano causati dalla lettura della lettera della setta (il vecchio sito di Exxagon riportava il contenuto esatto, che ho ricopiato di seguito), ma questa in fondo è solo una spiegazione razionale (o quasi) di una catena di suicidi-omicidi che mostrano la pochezza della natura umana: fragile, contraddittoria, e come se non bastasse spesso anche violenta.

    In breve: uno dei capolavori di Buttgereit, il re del cinema orrorifico tedesco low-cost.Concettualmente studiatissimo, macabro, estremamente violento e senza tregua. Data la tematica trattata (7 modi per suicidarsi), alcune scene molto forti e lo stile “amatoriale” (molto, molto realistico) puo’ risultare decisamente inadatto ai più sensibili. Gli altri, forti e cinici, si accomodino pure a visionare.

    Il cadavere in putrefazione in vista nel film ha fatto scatenare interpretazioni di ogni genere, anche se quello che rimane è la cruda, realistica e se vogliamo agnostica verità: la morte non è altro che la decomposizione di un cadavere, cosa che spesso funerali pomposi e bare benchiuse ci fanno dimenticare. I vermi che divorano il cadavere sono ancora più disgustosi perchè sono affiancati a gesti banali e comuni nella vita di ogni giorno, come scrivere una lettera, mangiare cioccolatini, vedere un film, fare un bagno, spiare i vicini dalla finestra o sfogarsi con un conoscente.

    Ingannata dalla vita, questa creatura cerca di dare un ultimo segnale, di darealla sua vita un significato postumo con la sua morte. La frustrazionedella sua stessa esistenza e la negligenza di una società spietatamente progressista si manifesta in questo atto universale di vendetta. Il suicida sembra puntare a tutti quelli che l’hanno sempre ignorato. Per una volta LUI fa la storia, è alle luci della ribalta, e finalmentele persone sono interessate alla sua vita. Fugge da una vita “morta” verso una morte “viva”, sapendo che, per lo meno per qualche giorno, avrà quasi l’intera attenzione del pubblico. Questoassurdo desiderio… è probabilmente molto più autentico e genuino di tutta la sua virtuale non-esistenza precedente. Egli, “assassino-di-massa-senza-movente”, è il martire del Post-modernismo (tratto dal video-testamento di sabato)

    Se non avete visto questo film, spero che queste righe possano stimolarvi a farlo: vi avviso comunque che non è  assolutamente un’opera per tutti, ed ha la capacità di lasciare profondamente scossi, se non si guarda con cinismo. Si tratta di un film molto bello, che riesce a dare profondità ad una marea di argomenti (e a tratti quasi a commuovere), a patto di NON avere come pubblico persone troppo sensibili o impressionabili, gente che vuole essere allegra a tutti  i costi, aspiranti suicidi reali ed i famigerati tizi che credono nella “iella”.

    Lunedì: un impiegato, prima di licenziarsi definitivamente dal lavoro, scrive una lettera. Tornato a casa, primi piani su una palla di vetro con  un pesce rosso all’interno.: l’uomo (che viene impietosamente paragonato ad un animale acquatico intrappolato in una vasca, ovvero casa sua) mangia una scatoletta, fa un bel bagno  caldo e si ingozza di medicinali fino a morire annegato.

    Martedì: un ragazzo noleggia il film nazisploitation “Vera – Todesangel der Gestapo” presso la videoteca “Videodrom” (dove peraltro c’è “Nekromantik” in bella vista!). Jorgi Butti & Francesco Tortellini sono i beffardi  (!) pseudonimi dei registi del  (falso)film, che rappresenta varie atrocità naziste tra cui l’evirazione di un prigioniero (che, casomai interessasse qualcuno, avviene con una cesoia non troppo affilata e viene mostrata in primo piano!). Nel frattempo rientra la fidanzata del nostro cinefilo, il quale non trova di meglio da fare che sopprimerla con un colpo di pistola in testa, ed incorniciare la macchia di sangue sul muro. Per qualche motivo la scena è stata vista in un televisore (il regista gioca un po’ col meta-cinema, e gli riesce anche bene) di un appartamento in disordine, con un gatto nero che divora delle briciole sul letto mentre un uomo (non inquadrato) si è appena impiccato.

    Mercoledì: una donna cammina tristemente sotto la pioggia, tormentata da ricordi  non precisati che lascia cadere da una lettera in una pozza d’acqua . Uno sconosciuto seduto su una panchina le racconta dei problemi  sessuali con la moglie, in un lungo sfogo  di frustrazione mai sopita. Il problema sembra peraltro toccare più lui che la consorte, in quanto colpito nel suo orgoglio maschile che degenera previdibilmente in sopraffazione violenta (“non potevo più sopportare la sua gentilezza“). Il marito personifica, in un monologo delirante, le aspirazioni subdole di un certo maschio-medio che, portando la moglie al museo ed “in un ristorante costosissimo“, insomma rispettando lo stereotipo del “bravo marito gentile“, pretende di avere una macchina da sesso al proprio servizio. Le sue aspettative l’hanno condotto all’omicidio della consorte (per sua stessa ammissione mediante decapitazione): a questo punto la mora vista all’inizio spara al violento, il colpo non è in canna, quest’ultimo prende la pistola, carica il colpo e si suicida (non inquadrato). Da notare l’effetto rallentamento utilizzato dal regista nel momento più intenso del racconto, al fine di distorcere la voce del protagonista, manipolare le immagini in modo “cinematografico di vecchio stampo” ed eliminare, soprattutto, il riferimento-audio all’arma utilizzata.

    Giovedì: viene mostrato un ponte mentre passano in sovraimpressione nomi di persone, età e professioni a formare un’anagrafica di suicidi. Quello che colpisce è la gamma di professioni mostrate (apprendista, attore, casalinga, pensionato, …) e delle età (da 17 a 71 anni), quasi a voler dimostrare che nessuno di noi è immortale. Il sonoro è un macabro naturale proveniente dal posto, nel quale si sentono correre le macchine sull’asfalto e nient’altro rende più sostenibile la visione. Semplice, geniale e raggelante. Ancora di più se si considera l’ironia – abbastanza macabra – celata dietro l’episodio: i nomi sono delle storpiature demenziali come Bettina “Pfister” (“scoreggia”). Suicida per un orribile cognome mai voluto: non è ancora peggio?

    Venerdì: si passa a mostrare l’appartamento di una signora di età avanzata, la quale spia con interesse una giovane coppia che abita di fronte. Ancora una volta la solitudine è causa di depressione e di morte: in preda ad una sorta di frustrazione, la signora prova a telefonare nell’appartamento, e non ricevendo risposta inizia a leggere la lettera di una setta che ha appena ricevuto. Successivamente beve da una bottiglietta, mangia qualche cioccolatino e si addormenta, sognando di vedere i propri genitori fare sesso. Al risveglio l’occhio dell’inquadratura ritorna sulla finestra della coppia, che viene poi inquadrata a letto, dove entrambi i ragazzi sono morti dopo essere stati probabilmente seviziati. Non è chiaro il collegamento, ma sembra che l’omicidio l’abbia commessa l’anziana signora.

    Sabato: dopo una dichiarazione delirante lasciata su una bobina – come una sorta di video-testamento – una ragazza indossa una specie di imbragatura con una cinepresa sulla spalla, in modo da poter riprendere in soggettiva l’omicidio che sta per commettere. Recatasi in un cinema dove si sta svolgendo un concerto rock (il gruppo si chiama “Overture Socialdeath”), spara l’uomo all’ingresso, il cantante del gruppo e ripetutamente il pubblico. La scena viene inquadrata prima in soggettiva, poi dal fondo del cinema: primo piano sulla ragazza, e fine dell’episodio.

    Domenica: torniamo in un appartamento nel quale un ragazzo si è appena svegliato.  Dopo aver fissato il vuoto, inizia a piangere senza dare spiegazioni ed a contorcersi nel proprio letto con le mani sulla testa.  Avvolto nella disperazione più cupa, la sua soluzione sarà di iniziare sbattere la testa al muro con violenza. Dopo un’ulteriore angosciante attesa di colpi ripetuti, gli ultimi urti lo portano alla morte.

    Quasi a volerci rassicurare (come se fosse possibile!), nella scena finale viene mostrata la bambina della scena iniziale che proclama con innocenza: “questo è il re della morte, che fa desiderare alle persone la morte”, mentre mostra il disegno che ha appena fatto. Successivamente foto del re della morte in bianco & nero, con teschio in mano e bambino seduto ai suoi piedi: fine del film. I titoli di coda – spoiler alert, ma in questo caso credo non abbia troppo senso avvisare, tanto risulta sovvertita la narrazione – mostrano foto di bambini (probabilmente i vari protagonisti degli episodi da giovani), quasi a lasciare un monito. Un messaggio: non perdere mai l’innocenza del tutto, al fine di non affogare nella melma ipocrita delle relazioni umane degli adulti che il pubblico ha avuto modo di vedere nel film: depressi, chiusi in se stessi, potenziali-stupratori, invidiosi, omicidi, pervertiti e quant’altro. Quantomeno, questa è l’interpretazione che mi sento di dare dopo averlo visto tre (!) volte: spero che non sia troppo diversa dalla realtà.

    La mia traduzione del pezzo succitato è riportata di seguito, assieme al brano originale, per cui ho cercato di rispettare lo stile di scrittura abbastanza asciutto (quanto inquietante).

    PERDIAMO LA VITA CON GIOIA (Lautréamont). Questa è una catena di Sant’Antonio (chain-letter nell’originale, ndt). E questo è un messaggio. E questa è la parola finale, per finire una lunga lotta. Quando riceverai questa lettera, SAREMO MORTI. E vogliamo che tu, dopo aver inviato più copie possibili ai “non ancora morti”, TI SBARAZZI DELLA TUA VITA senza esitazione. Secondo la nostra percezione: MUOIO, QUINDI SONO!! La vita è illusione e diventa ridicola e priva di significato una volta che la affrontiamo. L’unica sicurezza che è in grado di offrire è LA MORTE. Miriamo tutti A LUI, siamo promessi A LUI e prima ci sono solo agonia ed assurdità. L’uomo viene al mondo da solo, e resta solo. La sua vita è una lotta senza fine su di lui, una lotta contro questo antico desiderio, l’impulso più dolce, che ci tiene TUTTI nelle sue mani: THANATOS, il desiderio di morire. Tutto ciò che vi chiediamo è di seguire questo desiderio. È quasi ora … La vita è un anacronismo. In sei giorni, dio ha creato il cielo e la terra. Il settimo giorno si è suicidato … LASCIATECI MORIRE Il vangelo secondo “La fratellanza del settimo giorno”. (Originale: WE LOSE OUR LIFE WITH JOY (Lautréamont). This is a chain-letter. And it is a message. And it is the final word, to end a very long struggle. When you get this letter, WE ARE DEAD. And we want you, after you have sent as much copies as possible to the “not-yet-dead”, TO TAKE YOUR OWN LIFE without hesitation. According to our realization: I DIE, THEREFORE I AM!!. Life is an illusion and become ridiculous meaningless once we face it. The one security life has to offer is DEATH. We aim towards HIM, we are promised to HIM and before there’s just agony and absurdity. Man comes alone and remains alone. His life is an endless fight put upon him, a struggle against this ancient desire, the sweetest urge, that holds ALL of us in its hands: THANATOS, the longing for death. All we demand of you is to follow this longing. It’s about time… Life is an anachronism. In six days, god created heaven and earth. On the seventh day he killed himself… LET US DIE The gospel according to “The Brotherhood of the Seventh Day”.)

  • Nightmare – Dal profondo della notte è l’atto di nascita del mostro di Elm Street

    Nightmare – Dal profondo della notte è l’atto di nascita del mostro di Elm Street

    Un gruppo di adolescenti americani scopre di avere un sogno ricorrente in comune: un uomo che li perseguita e che sembra in grado di trasformare ogni incubi in realtà.

    In breve. Uno degli horror storicamente più importanti per atmosfera, storia, interpretazioni e “morale”. Standing ovation per la regia.

    Commentare un film del genere a (più di) quaranta anni dalla sua uscita (1984) è un’impresa che richiede, come primo passo, la piena comprensione filologica del contesto in cui nasce: diversamente si rischia di ritenere che Fred Krueger sia nato come un villain da fumetto. La regia di Craven veniva dall’esperienza precedente (1982) di aver diretto la versione cinematografica di Swamp Thing (fumetto della DC Comics) il quale, guarda caso che (forse) non è un caso, parlava di un personaggio assassinato che torna in vita da una palude. La filmografia del regista che diventerà di culto per questo film è fino ad allora molto tormentata: ci sono due grandi successi exploitation: Le colline hanno gli occhi e L’ultima casa a sinistra, autentici saggi di pessimismo sociologico, almeno un film per adulti e qualche altro titolo poco noto o mal distribuito. Partire dalla cronaca che ispirò la scrittura del soggetto è forse il modo migliore per introdurci in una saga che la cultura pop ha declinato – forse erroneamente – più come un’icona fumettistica che come un simbolo di un orrore profondo, inesprimibile, atavico. In effetti Nightmare – come Venerdì 13 – è più noto come saga che come film originale, e questo naturalmente deriva dall’averlo reso un brand: ma sarebbe un delitto non sottolineare i meriti di questo cult del genere, invecchiato benissimo e ancora oggi spaventoso e sorprendente.

    Una citatissima cronaca di fine anni Settanta raccontava di un gruppo di rifugiati cambogiani della tribu Hmong: sfuggiti alle persecuzioni di Pol Pot, si erano nascosti negli Stati Uniti. Molti di loro soffrivano di frequenti incubi, al punto di rifiutarsi di addormentarsi, pur di non farne. Fu ritenuto opportuno curare la loro insonnia con dei medicinali, e l’unico risultato che si ottenne fu farli dormire brevemente, farli risvegliare urlando e – a quanto sappiamo – morire sul colpo poco dopo. Ad essere vittime di questo singolare caso che Wes Craven sicuramente conosceva (e che stimolò la sua fantasia) fu il caso di un ragazzino scomparso senza una causa clinica evidente. Moltissime creepypasta e leggende urbane, del resto, hanno a che fare sia con un uomo misterioso che aggredisce le proprie vittime, approfittando (spesso e volentieri) della loro curiosità, sia con dipartite più o meno bizzarre, accidentali o casuali.

    «One, two, Freddy’s coming for you,
    three, four, better lock your door,
    five, six, grab your crucifix,
    seven, eight, gonna stay up late,
    nine, ten, never sleep again!»

    Quando si addormentò, i suoi genitori si erano forse illusi che il problema fosse risolto. Poi sentirono delle urla nel cuore della notte e lo trovarono morto. Morto nel mezzo di un incubo” – raccontava Craven in un’intervista. La storia del piccolo rifugiato dal genocidio, terrorizzato dal dormire per paura di essere attaccato nei sogni e di non svegliarsi mai più, fu la molla che fece inventare Fred Krueger, vittima a sua volta di abusi da piccolo e diventato un mostro vendicativo che si muove dentro gli incubi.

    Nell’atmosfera familiare in cui si ambienta il film la storia di Freddy sembra stonare malamente: solo i ragazzi si accorgono della sua presenza, facendo tutti lo stesso sogno con il medesimo “uomo nero” a tormentarli. Quelli che sembrano comuni incubi che lasciano scossi per qualche minuto per poi dileguarsi diventano casi di omicidio: alcuni ragazzi muoiono nel sono nei modi più cruenti, e uno di loro viene anche accusato dell’omicidio della fidanzata. Sarà Nancy, la giovane figlia dello sceriffo, a sfidare apertamente il mostro, mentre i genitori mostrano di nascondere qualcosa (sono stati loro a uccidere Freddy, si scoprirà). Il tema della giustizia sommaria è ampiamente trattato in questo Nightmare come già avvenuto, del resto, in altri celebri film del regista, e in un caso avevamo assistito a dei genitori che si imbattono casualmente negli assassini dei figli. In questo caso la logica è invertita, perchè sono i genitori ad aver ceduto alla vendetta: Fred era stato condannato per aver molestato e ucciso dei bambini, ma è uscito dal carcere per un errore burocratico. A quel punto i genitori della città hanno stabilito di ucciderlo dando fuoco alla fabbrica in cui si trovava, per poi seppellire il gesto nel proprio inconscio e dimenticarlo.

    È frequentissimo, infatti, che la madre di Nancy inviti la figlia sempre più irrequieta a riposare, a nascondersi nell’oblio del sonno a dimenticare tutto, come se questo potesse cancellare quanto avvenuto ed evitare che possa rivoltarsi contro. Nightmare non è, a questo punto, solo una di saga del villain crudele che colpisce in modo seriale e senza limiti: è la materializzazione del senso di colpa di una generazione di genitori che non solo si sono fatti giustizia da soli, ma rifiutano di dare spiegazioni ai figli anche quando ci vanno di mezzo le loro vite.

    Basandosi su quella storia in bilico tra cronaca e urban legend, Wes Craven costruisce una saga horror tra le più famose e citate al mondo – oggetto in questo primo capitolo di un remake di qualche anno, di tutt’altro sapore e fattura –  e consegnando al pubblico una storia dai tratti epici o addirittura mitologici: un assassino che opera tra sogno e realtà, in grado di fuoriuscire dagli incubi delle sue vittime e diventare carne e ossa. Un qualcosa che solo la cultura classica di Craven (che nel film cita anche Shakespeare, ad un certo punto) poteva concepire, aspetto che rende l’idea dell’originalità del film già di per sè.

    In questo primo Nightmare i personaggi si muovono tra incubo e realtà, e questo confine viene apertamente valicato dal mostro che, ad un certo punto, sembra essere entrato nel nostro mondo. Cosa di cui lo spettatore non è mai sicuro, in effetti: come tradizione amava girare in quegli anni, non si fa capire allo spettatore dove cominci l’incubo e dove finisca la realtà, conferendo così molto hype alla storia e rendendola affascinante. Tale caratteristica rende spaventoso un film che, senza questo accorgimento, poteva essere uno dei tanti slasher ottantiani (prodotti spesso senza infamia e senza lode). Nightmare è un rarissimo slasher sovrannaturale come pochi ne sono stati girati: un’ombra impalbabile, un uomo nero che sbuca da ogni angolo e terrorizza per vendetta i figli di chi l’ha ucciso. È uno dei leitmotiv più celebri dell’arte, quello delle colpe dei padri che ricadono sui figli, e non sorprende che sia arrivato anche in film non propriamente horror come Il sacrificio del cervo sacro. Quel senso di colpa, forse, non si è mai estinto sul serio.

    Con la partecipazione di John Saxon (Donald Thompson), dell’icona del cinema horror Heather Langenkamp (la giovane Nancy) e la comparsa di Johnny Deep appena ventenne (Glen), Freddy (ovviamente Robert Englund) tormenta i sogni dei figli di coloro che lo hanno ucciso, attivando una singolare vendetta varcando le porte del sonno, senza perdere mai quel suo tocco di humor nero che lo rendono “più villain” di qualsiasi altro. Da un lato, infatti, le gag di Freddy servono ad accentuare la sua componente malvagia e aumentare il distacco dallo spettatore, dall’altro è piuttosto chiaro che questo personaggio simboleggi, più di qualsiasi altro, il senso di colpa collettivo che grava sull’umanità, colpevole di ergersi al di sopra degli altri, giudicandoli e spesso addirittura eliminandoli sulla base di un giudizio inappellabile. Ovviamente nessuno riuscirà mai a simpatizzare per un villain del genere – eccezion fatta, naturalmente, per i cinefili di vecchia scuola – o potrà mai essere colto dal dubbio che Freddy paghi per una colpa che non ha mai commesso. Non è questo il punto e probabilmente non vale la pena discuterne: eppure l’essenza di Freddy come personaggio rimane stregonesca, tant’è che viene mandato al rogo e poi torna in vita (in forma di demone) per farla pagare all’umanità.

    Questo primo episodio è un film incalzante, spaventoso e con numerose scene cult: l’artiglio che esce fuori dalla vasca da bagno durante il bagno di Nancy, ad esempio, oppure il povero Glen che viene “risucchiato” nel proprio letto. Tutte scene non semplicemente “di cassetta”, ma cariche di valenza simbolica, con riferimenti alla scoperta della sessualità, al passaggio traumatico all’età adulta e al classico evergreen degli adulti che non ascoltano i ragazzi (ogni segnalazione della presenza di Freddy viene regolarmente bollata come una stupidaggine, o viene comunque minimizzata dai genitori). In questo senso Nightmare esprime la propria grandiosità come una critica sferzante a certa genitorialità, ai figli fatti per onorare le aspettative sociali, ai figli da esporre come trofei senza mai badare alla loro vita, ai loro problemi, ai loro incubi. E viene il forte sospetto che Freddy esprima esattamente questo tipo di orrore, a livello quantomeno inconscio, anche in considerazione del fatto che si tratta di un film moderno, veloce, atmosferico e senza fronzoli, per il quale il tempo non sembra essere trascorso.

    Il fatto che sia stato ripreso nel 2010 nel remake di Samuel Bayer – il regista di Transformers, ad esempio – suggerisce ovviamente che, nell’industria cinematografica moderna, le idee scarseggino da un po’: per certi versi rifare “Nightmare – Dal profondo della notte” oggi è come chiedere a una persona di ringiovanire di quaranta anni, aspettandosi che lo faccia all’istante ed indignandosi se non riuscisse. Il film di Bayer non è male, a ben vedere, ma non riesce a ricalcare l’ombra autentica di questo originale, che è pur sempre un horror ispirato ad un fatto di cronaca e che ha fatto scalpore all’epoca, come farebbe oggi qualsiasi film si ispirasse a un fatto di sangue avvenuto in Italia, immaginando che l’assassino sia prima linciato dalla folla e torni a vendicarsi dei giornalisti che scrivevano titoli clickbait. Un’idea articolata del genere, probabilmente, poteva funzionare solo nei vecchi anni Ottanta, dove l’horror viveva una delle sue ennesime crisi creative e per rilanciarlo ogni regista era spesso costretto a ricorrere al surreale.

    In fondo lo spessore di Nightmare conferito da Wes Craven in questo primo episodio, che aveva fatto scomodare più di un critico a riguardo, era annesso allo scherno sarcastico delle sue vittime, con il quale esacerbava la propria immoralità. Sebbene i temi principali del film siano la perdita dell’innocenza e la mancanza di comunicazione tra generazioni, Freddy diviene  simbolo di un Male che, come spesso in Craven, finisce per ritorcersi contro giovani sprovveduti, mentre gli adulti stanno semplicemente a guardare.

    Nel nostro paese esistono due versioni del film: una più corta di circa con il taglio delle scene più violente, e la “Director’s Cut” integrale che comprende varie scene censurate, inserite nella versione digitale, dove si nota che alcune parti non sono state nemmeno doppiate in italiano (sono in lingua originale). Per quanto riguarda la questione del finale, esiste una notissima “happy end” razionale che suggerisce si sia trattato di un semplice incubo, e due versioni “pessimistiche” in cui Freddy sbuca fuori in due modi imprevedibili (tutto questo materiale è disponibile nel DVD come “alternate endings“).

    Per chi volesse tuffarsi nella croni-storia del personaggio, trovate su questo sito le recensioni di tutti i film “ufficiali” della saga (ad esclusione dei vari spin-off): Nightmare – Dal profondo della notte, Nightmare – La rivincita, Nightmare – I guerrieri del sogno, Nightmare – Il non risveglio, Nightmare 5 – Il Mito, Nightmare La fine.