Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • Spogliamoci così, senza pudor… è la commedia erotica di Sergio Martino

    Spogliamoci così, senza pudor… è la commedia erotica di Sergio Martino

    Titolo: Spogliamoci così, senza pudor…

    Regia: Sergio Martino

    Anno: 1976

    Genere: Commedia erotica

    Cast

    • Edwige Fenech
    • Vittorio Caprioli
    • Lino Banfi
    • Carlo Delle Piane
    • Giuseppe Pambieri

    Storia e produzione

    “Spogliamoci così, senza pudor…” è un film italiano del genere commedia erotica diretto da Sergio Martino. Ambientato negli anni ’70, il film segue le vicende di un gruppo di amici che si trovano in situazioni imbarazzanti e impreviste in una località turistica.

    Sinossi

    Il film racconta le avventure e gli equivoci che si verificano durante le vacanze di un gruppo di amici in una località turistica. Le situazioni comiche si susseguono quando si trovano coinvolti in fraintendimenti romantici e imbarazzanti. La trama ruota attorno a equivoci amorosi e situazioni spiacevoli che mettono alla prova le relazioni e la moralità dei personaggi.

    Curiosità

    Il film appartiene al genere della commedia erotica all’italiana, che era popolare nel cinema italiano degli anni ’70. Queste pellicole spesso mescolavano umorismo e contenuti piccanti, creando un mix caratteristico del periodo.

  • Wanna: su Netflix la docuserie sulla televenditrice più discussa di sempre

    Wanna: su Netflix la docuserie sulla televenditrice più discussa di sempre

    Wanna è la docuserie lampo di Netflix (di appena 4 puntate) che racconta la storia di due tra i personaggi TV più iconici di sempre: Wanna Marchi e Stefania Nobile, coppia TV di madre e figlia, nella veste delle iconiche venditrici di prodotti cosmetici (e di lì a poco, di consulti magici, rituali del sale, del desiderio, del danaro, del corallo), dedite ad una singolare forma di upselling telefonico che venne, infine, giudicato come estorsione da una giuria. La scrittura della docuserie in questione è affidata ad Alessandro Garramone, già noto per la sceneggiatura di Italian Horror Stories, mentre produzione e regia sono affidate a Gabriele Immirzi e Nicola Prosatore.

    Tutti abbiamo bisogno di illusioni, nella vita! (W. Marchi)

    Si tratta di quattro episodi per una durata complessiva di circa due ore, visionabili su Netflix a partire da settembre 2022, con la presenza di Wanna Marchi, Stefania Nobile, Federica Landi, Roberto Da Crema, che vengono sia proposti in veste storico-televisiva. Da Crema, ad esempio, è il televenditore che oggi sarebbe probabilmente un meme internet, dal caratteristico tono di voce alto ed esasperato che, come ammette lui stesso candidamente, era inizialmente legato alla sua scarsa esperienza in ambito TV, che interpretava le proprie performance come fosse in un centro commerciale senza microfono. La docuserie è ricca di lunghe, personali e approfondite interviste, mentre viene esplicitato nel finale come le protagonisti abbiano scontato le loro pene e siano, ad oggi, libere cittadine. Wanna Marchi proviene da una famiglia di umili origini, con un marito con cui ha un rapporto complicato ed una figlia a cui è legatissima, tanto da farla esordire in TV come sua spalla fin da giovanissima (il documentario è infarcito di spezzoni TV d’epoca, ovviamente).

    La dinamica delle televendita viene spiegata dalla docuserie ben nel dettaglio: l’hype delle seminali e numerosissime TV commerciali (primi anni ottanta) si stava per scontrare con la necessità di fare cassa, cosa non facile per imprenditori a volte improvvisati o poco avveduti che, come avvenuto nel caso in questione, sfruttavano televendite “memetiche”, facilmente riconoscibili, dirette, molto aggressive, che portarono inaspettatamente a vendite stellari.

    Parliamo della vendita di cosmetici che poi, come viene mostrato, ad un certo punto più non basta: si passa alla vendita di “numeri fortunati” al lotto, di talismani contro la sfortuna e via dicendo, in una catena commerciale infinita che prevedeva, per inciso, l’interlocuzione diretta per telefono con tutti i clienti (circa 300 mila, di cui solo qualche centinaio accettò di testimoniare al processo subito nel 2006). Fa sensazione pensare a tutti questi italiano che “credevano“, come si meraviglia di ammettere una ex centralinista durante un’intervista: il che indica la generazione sottovalutazione del sentimento di credenza o credulità popolare, a nostro avviso, mettendo in luce – cosa che viene apertamente ammessa – come il successo del trio Marchi, Nobile, Do Nascimento fosse da imputare più a cosa (e come lo) dicevano, che ai prodotti in sè. Non importa se poi fossero, come è stato, cure dimagranti o per la cellulite, numeri del lotto, talismani, fino ad arrivare alle televendite telefoniche basate sull’urgenza, sul pericolo imminente quanto non sulla minaccia ai clienti, a livello implicito o esplicito. Non importava perchè il prodotto si situava in un territorio borderline che, ad un certo punto, sfugge di mano alle stesse protagoniste.

    La Marchi auto-assume (con grande personalità ed una buona dose di sfrontatezza, mescolata ad una incoscienza di fondo che quasi certamente fu presente tra gli “ingredienti” di questa storia) il ruolo di leader aziendale, guadagnando tantissimi soldi grazie ad una capacità teatralizzante di effettuare vendite, sfruttando la credenza di cui sopra. Il tutto fino a  insospettire la Finanza, grazie ad una celebre segnalazione al programma Striscia la notizia ed una signora che si prestò a fare da “gancio” per avviare l’inchiesta (un format, quello di Mediaset, che possiede forse un’idea discutibile della comicità e della satira, ma che su questi frangenti è sempre stato molti passi oltre chiunque altro). Fa ancora più impressione, del resto, la linea difensiva delle Marchi, che si muove (estremizzando un po’ la sintesi) sulla falsariga del darwinismo sociale, per cui non sarebbe affatto un delitto raggirare degli ingenui.

    La sua aggressività iconica, in barba a qualsiasi criterio di razionalità e tabù moderno sul body shaming (la Marchi appellava fin dall’inizio come “grasse” le clienti target a cui si rivolgeva, e questa cosa era uno dei tratti distintivi del suo registro di comunicazione), sembrava far parte di una strategia psicologica (probabilmente non del tutto consapevloe) quanto alla prova dei fatti efficace: l’attacco frontale e senza mezzi termini serviva a sbarazzarsi della reticenza nell’acquisto, costruendo un bisogno nel futuro acquirente e facendolo sentire in dovere di fare come dicevano dall’altra parte del telefono.

    Cosa che portò la tele-venditrice più famosa d’Italia negli anni ottanta e novanta a guadagnare molti soldi, salvo doversi confrontare con situazioni non sempre trasparenti (al dramma familiare si aggiunge, ad esempio, la circostanza con cui il suo negozio viene in una circostanza preso di mira, incendiato da ignoti). Niente male, a conti fatti e dopo il trascorrere di qualche tempo, per una persona che nasce e cresce nella promozione di prodotti cosmetici, e che racconta le circostanze incredibili con cui ha arricchito la propria esistenza, fino a scontrarsi con un fallimento negli anni novanta e un processo per truffa e associazione a delinquere.

    Approfondimento esterno: Psicologia e manipolazione mentale

    Wanna colpisce nella lucidità delle testimonianze presentate dai protagonisti delle vicende, ed è interessante cogliere una sostanziale (e poco ovvia, per certi versi) riflessività della vicenda: se accettiamo che personalità del genere siano tipi psicologici più o meno “machiavellici“, il fatto che siano riuscite a vendere l’improbabile a varie gradazioni non le immunizza, come potrebbe sembrare, dal dare per scontato che il loro target fosse altrettanto sincero. In pratica, stando a questa visione psicologica, se è vero che la manipolazione c’è stata è altrettanto vero che non sarebbe comunque facile, per loro, notare a loro volta se qualcuno stesse mentendo

    Magra consolazione, per le vittime, ma tant’è: se una personalità machiavellica tende per sua natura mentire, il rovescio della medaglia è che non per forza si accorgerà se l’Altro mente, a sua volta. Il che suggerisce una escalation di significanti per cui, per associazione di idee neanche troppo arbitraria, che ciò che hanno fatto non siano le sole ad averlo fatto, che insomma il mood trasmesso da Wanda sia stato quasi riciclato da certe multinazionali digitali, per non parlare dei vari settori borderline di vendita-fuffa di cui il web è zeppo. A quel punto non puoi nemmeno farne una questione personale, per così dire, e non ti resta che chiederti: ma come hanno fatto, in quegli anni, a vendere più prodotti di quel tipo che cellulari costosi? Altro interrogativo non da poco consisterebbe, poi, nel chiedersi se quanto avvenuto sia così localizzato, o sia diventato, al contrario, emblematico di un certo modo di vendere abusando della buonafede altrui (con vari gradienti di gravità, s’intende) mediante leve psicologiche, cosa a cui dovremmo essere abituati un po’ tutti, peraltro, a giudicare dal ritmo e dal tenore delle telefonate di marketing da cui siamo tragicamente tempestati.

    Il sistema di vendita della Marchi, così come viene descritto nella docuserie in questione, ricorda in parte quello proposto dalla versione moderna del telemarketing, il digital marketing nelle sue forme più aggressive, anche lì basato sulla costruzione di bisogni e su vari gradi di upselling – ad un certo punto si iniziano a vendere numeri del lotto vincenti e, nel caso in cui non uscissero, si proponeva la lettura delle carte da parte dell’iconico, anche qui, Mário Pacheco do Nascimento. Nulla che in effetti su internet non sia ampiamente diffuso da anni, e sul quale sono cambiate certe modalità di erogazione, in parte, ma non la sostanza: la distrubuzione mediante ads ambigue di info-prodotti fake, pseudo-formazione e via dicendo, rimane ancorata al registro dell’aggressività, dello sminuire il prossimo, con marketer ambiziosi, sprezzanti ed egotici (oltre che moralmente discutibili), dell’”io so’ io e voi non siete un cazzo” di marco-grilliana memoria, uno strano mood che dovrebbe soltanto infastidire ma che, a conti fatti, accresce solo il senso di urgenza dell’acquisto nelle persone più fragili, in un delirio di iperboli e tecniche di manipolazione (implicita ed esplicita) che, spiace riconoscerlo, continuano a funzionare ancora oggi.

    La canzone “prendimi” della colonna sonora di Wanna è il brano Cinque minuti di te di Don Antonio, The Graces. Wanna è disponibile in streaming su piattaforma Netflix.

  • L’invenzione di Morel di Emidio Greco è pura fantascienza italiana anni Settanta

    L’invenzione di Morel di Emidio Greco è pura fantascienza italiana anni Settanta

    Cosa rimane degli attimi trascorsi piacevolmente assieme ai nostri amici, oppure ai nostri cari? Dove viene fisicamente riposto il passato che scorre inesorabile? Sono le tematiche affrontate dal cultL’invenzione di Morel“, girato dal regista Emidio Greco, tratto dal romanzo omonimo di Adolfo Bioy Casares e presentato a Cannes nel 1974.

    “L’invenzione di Morel” è stata una piacevole scoperta che ho fatto grazie a “Fuori Orario” di Enrico Ghezzi su Rai Tre qualche anno fa: si tratta di uno dei più atipici ed alienanti sci-fi che abbia mai visto, realizzato con pochi mezzi tecnici ma con altrettanta intensità. In esso si narra di un naufrago che approda su un’isola deserta, e che scorge quasi immediatamente delle persone distinte che sembrano risiedere sul posto: tra gli altri scorge Faustine (Anna Karina), la prima che cerca di avvicinare ma che, stranamente, sembra non considerarlo affatto. La cosa ancora più strana è che, penetrando in una enorme villa, il naufrago (Giulio Brogi)  si rende conto che tutti i suoi inquilini lo ignorano: deciso a scoprire la verità su quella paradossale situazione, assiste ad una riunione indetta dal padrone di casa, Morel (John Steiner), il quale rivela di un esperimento che avrebbe eseguito a loro insaputa durante i loro sette giorni di permanenza.

    “Noi stiamo recitando anche in questo momento: tutti i nostri atti sono rimasti registrati. Avrei potuto dirvi, appena arrivati: vivremo per l’eternità…”

    Nella propria folle e romantica filosofia di vita, Morel ha fatto in modo che i momenti trascorsi assieme alla donna amata ed ai suoi amici più cari venissero immortalati da una macchina-registratore in modo talmente fedele da renderli replicabili ed indistinguibili dalla realtà. A tale scopo ha creato il macchinario – appunto, la sua “invenzione”, che registra tutto quello che accade attorno alla stessa e lo ripete all’infinito, omaggiando così la piacevolezza di quegli attimi e cercando di renderli eterni per i presenti.

    Così il povero naufrago-evaso si trova, suo malgrado, a vivere dentro quel mondo fatto di mere proiezioni: persone artificiali che hanno già vissuto e che non possono, loro malgrado, interagire con lui. Del resto sulla solitudine del singolo che sfida la morte verso l’eternità, espressa dal trovarsi letteralmente “dentro un’opera d’arte” (in quel caso un quadro) sarà un’idea di Sacchetti e Fulci qualche anno dopo nel celebre ed inquietante “…e tu vivrai nel terrore! L’aldilà”. Allo stesso modo il naufrago è coinvolto in un mondo creato da un altro essere umano, talmente realistico da sembrare vero.

    Praticamente impazzito dopo aver scoperto la verità, e consapevole di essere innamorato di una semplice immagine, il naufrago tenta di manipolare la macchina allo scopo di entrare anche lui nella proiezione, in modo da poter essere notato da Faustine. Alla fine si accorgerà che la macchina sta distruggendo il suo corpo reale, e spaccherà disperatamente il marchingegno, mentre il suo corpo sta visibilmente invecchiando: quelle persone, infatti, sono vissute molti anni prima del suo arrivo.

    Noi tutti vivremo in quella fotografia… sempre!

    Uno dei capolavori, forse tra i più sottovalutati, della storia della fantascienza italiana.

  • Il western di Lucio Fulci: “I quattro dell’Apocalisse”

    Il western di Lucio Fulci: “I quattro dell’Apocalisse”

    I quattro dell’Apocalisse sono il baro Stubby (Fabio Testi), la prostituta Bunny (Lynne Fredrick), un folle e un ubriacone; essi si trascinano tra panorami desolati e territori inospitali, condividendo il viaggio con Chaco (Thomas Milian), un bandito messicano infido e crudele che farà impazzire il più debole dei quattro, trasformando il viaggio in un incubo…

    In breve: uno dei tre western diretti da Lucio Fulci, molto rivalutato al giorno d’oggi anche se altrettanto diluito in interminabili sequenze: la buona interpretazione di Milian fa salire la media, gli altri personaggi rasentano la sufficenza. Secondo dei tre western diretti da Fulci (gli altri due: “Le colt cantarono la morte…e fu tempo di massacro” e “Sella d’argento“), si tratta di una storia piuttosto cupa nella quale il difetto principale è dovuto alla sceneggiatura stessa, che ricalca vagamente gli stereotipi del genere rielaborati in modo “anarchico” – e vagamente sconnesso – dal regista romano. Nonostante alcuni spunti originali ed accattivanti come i fanatici incappucciati, l’uomo “che parla coi morti” e la lezione di stile dei classici americani, siamo piuttosto lontani dal capolavoro: questo film è la conferma che il western, già di per sè complesso da realizzare nella sua limitatezza scenografica, fu forse il genere meno “adatto” alla verve artistica del regista romano. In effetti nonostante si creino degli ottimi presupposti nella prima parte dell’opera, il tutto si smarrisce clamorosamente nella seconda, tra dialoghi un po’ fuori luogo, qualche falla narrativa ed una sceneggiatura poco solida.

    A poco serve, quindi, la figura di Chaco, un bandito crudele che non possiede, all’interno della trama, nè lo spazio narrativo nè la dimensionalità che verrà ad esempio riservata a Milian in “Milano odia..“, oppure – per restare sullo stesso regista – nel capolavoro “Non si sevizia un paperino“. Ispirato da una serie di racconti dello scrittore Francis Brett Harte, ambientato in scenari apocalittici con le consuete sparatorie, aggressioni di banditi senza futuro e rapine in villaggi sperduti, “I quattro dell’Apocalisse” ha dunque diversi elementi che faranno riconoscere il tocco di personalità di Fulci (la tortura dello sceriffo a colpi di lama, oltre ad una scena di cannibalismo che fu una delle tante “bombe” con cui il regista fece “deflagrare il genere“), anche se altri momenti – pur concepiti con una certa poesia e sensibilità, come il finale straziante – possono risultare semplicemente noiosi agli occhi dello spettatore moderno.

    Credo che il problema principale, come scrivevo prima, sia dovuto alla limitatezza dell’ambientazione, alla necessità di dare certe dinamiche alla storia, che rendono il tutto piuttosto debole sia come impianto scenografico che come interpretazione (Fabio Testi è poco credibile nel complesso, anche se il suo personaggio sembra piuttosto promettente). Del resto western di genere davvero imperdibili a livello di “terrorismo” di genere – penso a Se sei vivo spara – ce ne sono pochi in giro, e “I quattro dell’Apocalisse” mi sento di consigliarlo solo al pubblico di appassionati di Fulci, suggerendo a tutti gli altri un qualsiasi giallo o un horror del periodo d’oro.

  • Saw – L’enigmista: il thriller modello argentiano di J. Wan

    Saw – L’enigmista: il thriller modello argentiano di J. Wan

    Lawrence e Adam, un chirurgo e un fotografo, si ritrovano imprigionati dentro il bagno di quello che sembra essere un edificio abbandonato; kafkianamente, sono stati rapiti senza conoscerne il motivo. Nel frattempo L’enigmista, un sadico serial killer, ha preparato per loro una trappola dalla quale i due dovranno provare ad uscire…

    In breve. Gran film: tensione, gore, ottima regia e recitazione ne compongono l’andamento. Dentro c’è davvero tutto: suggestioni iniziali alla “Cube”, thriller psicologico, cenni alla Dario Argento dei tempi d’oro, horror e splatter. Un vero e proprio filmaccio che eleva la media del genere, inchiodando a più riprese alla poltrona lo spettatore, e raccontandoci gli orrori del nuovo millennio.

    Bel tipo questo James Wan: idee valide, assoluta padronanza della macchina da presa, ricostruzione asettica e distaccata degli ambienti, buona conoscenza del cinema di genere e, soprattutto, giovane età all’epoca dell’uscita del film. Sembra essere un dato di fatto, del resto, che in molti casi i migliori horror escano fuori nei momenti di gioventù dei registi: nel caso di “Saw – L’enigmista” questo aspetto, pur essendo importante, è forse uno dei meno interessanti.

    Il primo di quella che diventerà una celebre saga (si è perso il conto dei seguiti, che ricalcano bene o male sempre la medesima idea) è un thriller incalzante e violento, dal forte feeling claustrofobico e che si distacca dalla tradizione dell’orrore “vedo-non vedo“, in grado di schiaffare sulla faccia dello spettatore la cruda realtà. Due persone vengono tenute imprigionate da un maniaco che si manifesta esclusivamente mediante una voce (o, al massimo, un video). Si tratta di un crudele serial-killer, “l’enigmista”, dalla storia piuttosto complicata (che i seguiti della saga chiariranno un po’ per volta), il quale ha deciso di imprigionare gli sventurati per un motivo preciso. Nel frattempo, quasi a voler loro insegnare il gusto della vita attraverso una estrema minaccia di morte, ha preparato delle micidiali prove di sopravvivenza, per superare le quali le vittime dovranno ricorrere al proprio istinto e capacità di improvvisazione. Sì, perchè il killer in fondo – paradossalmente – ama la vita, e non sopporta chi, come loro, mostra di averla disprezzata o di viverla in modo passivo.

    “Tecnicamente non è un assassino: lui fa in modo che le sue vittime si uccidano da sole.”

    Simile al predatore di esseri umani de “Il centipede umano“, strizzando l’occhio a Dario Argento in più di un’occasione, disseminando le strade della morte di indizi snervanti ed incomprensibili, “L’enigmista” sembra quasi suggerire un carpe diem in salsa splatter che farà la gioia di centinaia di appassionati, con effettacci insostenibili e situazioni spaventose distribuite in modo uniforme nella pellicola. In effetti questo primo episodio è un carosello del gore mica da ridere: Adam viene costretto a cercare in un putrido cesso un seghetto con il quale, per liberarsi da una catena, sarà costretto a segarsi un piede. Amanda (un’ennesima vittima, perchè – come si scoprirà – ce ne saranno parecchie), tossicodipendente, dovrà cercare la chiave per sbloccare una trappola mortale nelle viscere del suo compagno di cella (narcotizzato, ancora vivo), e così via. Il “gioco” del protagonista è, in sostanza, quello di costringere le sue vittime a ripetere gli stupidi gesti che commettevano nella propria vita, pena un grottesco suicidio se non dovessero riuscire nell’intento.

    Probabilmente uno dei pochi film del genere capace di rendersi interessante anche – secondo me – per chi non fosse, di suo, uno sfegatato fan dell’orrore.