Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • C.H.U.D.: l’orrore nelle fognature

    C.H.U.D.: l’orrore nelle fognature

    Nella città di New York si verificano ripetute scomparse di persone di ogni estrazione sociale: il capitano di polizia indaga sul caso, scoprendo progressivamente una incredibile verità.

    In breve. Poco noto in Italia, probabilmente, ma rientra nelle chicche del genere completamente da non perdere. Per intenditori del genere anni ’80, e per pochi altri.

    Chi si nasconde nei bassofondi delle fogne di New York? Secondo una diffusa leggenda urbana, con un fondo di verità, dei coccodrilli o dei caimani: la versione più popolare di questa storia impone che siano grandi, grossi, affamati e albini, per via della manca di luce solare. I coccodrilli nel sistema fognario di NY sono una delle urban legend più potenti mai raccontate, ed in questo film di Douglas Cheek si respira, fin da subito, aria di urban legend. Solo che non si tratta di rettili, in questo caso, bensì di creature umanoidi dagli occhi luminosi, che sembrano cibarsi degli esseri umani e che, secondo una certa opinione pubblica, non sarebbero altri se non i barboni che affollano le strade. Col tempo, un fotografo ed un poliziotto scopriranno la verità.

    Le creature hanno il potere di chiudere il cielo…

    C.H.U.D. – che è un acronimo che fa riferimento sia a “Cannibalistic Humanoid Underground Dweller” che a “Contamination Hazard Urban Disposal” – parte col botto, senza preamboli nè orpelli narrativi: un campo lungo su una strada desolata, con una donna che porta in giro il proprio cane. Da un tombino fuoriesce uno strano fumo; la donna si avvicina un po’ troppo e, neanche a dirlo, viene trascinata in basso da una creatura misteriosa. La dimensione è quella del classico horror anni 80 che tutti conosciamo, del resto a metà anni 80 l’horror era così: diretto, immediato, senza complimenti. Un film che, peraltro, presenta anche una certa importanza come cult, tant’è che in tempi recenti è stato apertamente citato come ispirazione per US di Jordan Peele.

    Nel film si intrecciano più storie parallele, dimensione atipica per un horror del genere che, in genere, ne racconta quasi sempre una, focalizzandosi su al massimo un paio di protagonisti o di villain. I personaggi minacciosi della storia sono volutamente indefiniti, ma si intuisce senza neanche troppo sforzo che vivono nelle fognature e ogni tanto si affacciano per cibarsi di qualche essere umano. I vari personaggi saranno successivamente destinati ad incontrarsi nel seguito, mentre la trama introduce il sospetto che dietro le sparizioni possa esserci un complotto del governo americano.

  • Espressionismo, simbolismo e follia dentro “Il gabinetto del Dottor Caligari”

    Espressionismo, simbolismo e follia dentro “Il gabinetto del Dottor Caligari”

    Follia contro ragione, fantasia contro realtà: uno dei più celebri masterpiece dell’orrore mai realizzati.

    In breve. Film stra-cult perchè ha inventato molti consolidati stereotipi thriller, e per la meravigliosa forma espressionistica, a tratti impensabile per l’epoca. Contiene un interessante doppio finale “involontario” davvero clamoroso.

    Davvero singolare questo esempio di cinema muto risalente alla Germania del 1920, contato tra i primissimi horror della storia (Nosferatu di Murnau uscirà solo due anni dopo, così come Freaks di Browning). Girato secondo i canoni dell’espressionismo, si presenta come un film seminale adatto, oggi, probabilmente solo agli appassionati di cinema “assoluti” o, al limite, agli hacker di pellicole alla ricerca di immagini insolite. Com’è ovvio non esiste parlato a livello di suono, ma solo una lunga ed alienante colonna sonora curata da Giuseppe Becce.

    La storia è quella di un ipnotista che usa come un fenomeno da baraccone Cesare, un sonnambulo con la capacità singolare di predire il futuro delle persone. Dopo due misteriose morti avvenute in zona, una delle quali realizza esattamente la “profezia”, esce fuori che l’inquietante ipnotista avrebbe trovato un modo per controllare la volontà del giovane e costringerlo, durante il sonno, a compiere omicidi. Inoltre l’uomo si sarebbe immedesimato nella figura del Dottor Caligari, che aveva compiuto secoli prima delle approfondite ricerche sull’argomento ipnosi: come rivelazione definitiva si scopre che egli è, di fatto, il direttore di un manicomio che ha perso, neanche a dirlo, i lumi della ragione (i richiami al celebre “Dottor Catrame e Professor Piuma” di E. A. Poe sembrano sostanziali).

    Finita qui? Non proprio: non è infatti possibile discutere de “Il gabinetto del Dottor Caligari” senza considerare la parte iniziale e finale, inserite per imposizione del governo dell’epoca allo scopo di cambiarne il significato, letto addirittura come sovversivo. E così la versione definitiva del film viene farcita con un “panino” esterno, capace di stravolgere il messaggio di fondo e facendo apparire  il tutto come l’allucinazione di un pazzo, che avrebbe inventato quella storia avendo in odio il direttore del manicomio in cui è rinchiuso. Col senno di poi, una volta tanto potremmo dire che la censura è riuscita a fare qualcosa di buono, anche se così facendo 1) il sottotesto del film viene annullato del tutto e 2) si è indotti a fare considerazioni piuttosto brutali contro il cinema stesso e, come ha scritto molto giustamente Exxagon, far apparire che “la visione espressionista sia quella di una folle, ovvero l’arte moderna non ha senso ed è pura pazzia“. Ad ogni modo questo particolarissimo espediente narrativo del doppio finale “innestato” diventerà un classico di un certo thriller moderno, nel quale la demolizione delle apparenze è condizione necessaria per svelarà la cruda realtà dei fatti.

    La trama non è troppo lineare, il film rimane comunque interessante mentre, a onor del vero, gli elementi bizzarri de “Il gabinetto del Dottor Caligari” non sono pochi, anzi occupano parte preponderante della pellicola: tuttavia, considerando l’epoca ed i mezzi annessi, l’opera è di livello davvero notevole e finirà per piacere anche a chi non ama particolarmente certi virtuosismi. Molto degni di nota gli effetti visivi globalmente presenti, mentre la sequenzialità della storia è resa in modo ottimale dalla successiva colorazione della pellicola (avvenuta nel 1996) che scandisce, ad esempio, i notturni in azzurro.  Tra le curiosità più prettamente cinematografiche, infine, vi è l’interpretazione data da alcuni riguardo al misterioso Cesare, che – per via del comportamento e del suo dormire in una cassa di legno – sembrerebbe una specie di proto-zombie, il che smentirebbe White Zombi del 1932 come primo film di questo tipo. L’ipotesi è indubbiamente affascinante ma, di fatto, non mi pare nè smentibile nè confermabile sulla base a quello che vediamo.

  • Cospirators of pleasure: il surrealismo di Svankmajer alla sua massima espressione

    Cospirators of pleasure: il surrealismo di Svankmajer alla sua massima espressione

    Sei individui insospettabili (tre uomini e tre donne) hanno delle forme di feticismo molto particolari, che coltivano segretamente.

    In breve. Un capolovoro di cinema surrealista, vero marchio di fabbrica di Švankmajer.

    La Praga dei giorni nostri (siamo a metà anni ’90, periodo di uscita della pellicola) è l’ambientazione di questo particolare film di Švankmajer, successivo a Lekce Faust ed incentrato, questa volta, sulle ossessioni sessuali e sui feticci di sei personaggi apparentemente comuni e senz’anima.

    Conspirators of Pleasure (Spiklenci slasti, in Italia Cospiratori del piacere) assume spesso e volentieri i toni della commedia grottesca alla Monty Python, dove le situazioni assurde sono non soltanto all’ordine del giorno, ma lo sono a tal punto da risultare disorientanti per lo spettatore. Che potrebbe strizzare gli occhi a più riprese, incredulo o in presa ad un riso isterico, chiedendosi cosa stia realmente guardando – ed è già un’ottima notizia, visto che una trama sostanzialmente non esiste e si sfrutta, se vogliamo, un meccanismo narrativo abbastanza sulla falsariga di Slacker (la pura prossimità ambientale per sequenziare le scene, personaggi presi sostanzialmente dalla strada, la casualità degli avvenimenti).

    Presentato per la prima volta al Festival di Locarno nel 1996, Cospirators of pleasure si apre con immagini fortemente allusive (sesso con animali, masturbazione e varie forme di coito, inclusa una carriola con tanto di ruota) ma poi, a dispetto delle premesse, non contiene nulla di realmente esplicito. I sei personaggi sostanzialmente non si conoscono, se non per sguardi che vorrebbero dire tutto senza dire nulla, e poi scoprono avere qualcosa in comune: tre sono attratti dai rimanenti in modo segreto, a volte ricambiando a volte no, sempre con la costante di non vivere alcun rapporto fisico.

    Così assistiamo alla giornalista televisiva che ama farsi succhiare gli alluci dai pesci che nasconde nella camera, il marito coi baffi che si gode il proprio feticismo tattile per spazzole, chiodi e pennelli da barba, l’edicolante che sogna sessualmente la giornalista e si costruisce un complesso macchinario per farsi masturbare mentre la guarda in TV, l’uomo camuffato da gallo che sogna un rapporto sadico o voodoo con la propria vicina (senza sapere che quest’ultima si sta costruendo un suo feticcio ripieno di paglia, con lo scopo di torturarlo), la postina che modella pazientemente palline di pane che infila nel naso e nelle orecchie prima di andare a dormire. Ci sarebbero alcuni parallelismi con il Cronenberg più estremo e fetish (Crash, naturalmente, ma anche Videodrome: impossibile non pensarci mentre vediamo l’edicolante leccare lo schermo), ma Svankmajer basta a se stesso e soddisfa la visione appieno: l’unico patto da rispettare, da parte dello spettatore, è quello di avere presente cosa sia il surrealismo. Altrimenti il doppio livello di realtà e surrealtà, di avvenimenti sarebbero impossibili da comprendere, e si frammenterebbero in una storia fine a se stessa (ammesso che quest’ultima sia davvero delineabile senza “surrealtà”); il tutto, a formare un caleindoscopio emotivo di quelli difficili da dimenticare.

    Nel film, peraltro, non esiste alcun dialogo, gli effetti sonori sono volutamente esasperati e la musica classica accompagna quasi la totalità del film. Il messaggio di fondo, in effetti, è disperato quanto grottesco: ogni personaggio finisce per soddisfare un desiderio sessuale inappagato costruendosi accuratamente degli oggetti per soddisfarlo o, al limite, collezionando qualcosa che possa “riempirli” (le briciole di pane) o soddisfarli quantomeno a livello tattile (le spazzole, le mani meccaniche).

    Neanche fossero cuochi ispirati quanto esigenti, si inventano – con l’aiuto della gamma più incredibile di oggetti, animali, dispositivi che siano – il proprio “piatto” preferito, unico modo per anelare ad un orgasmo totale. Non c’è altro modo per descrivere Cospiratori del piacere che non quello di ricorrere a simili analogie o sinestesie, piaccia o meno. Una postina, un negoziante, un presentatore televisivo, un detective e due coinquilini scovano gli oggetti di cui hanno bisogno ricorrendo agli espedienti più fantasiosi: ed è tutto qui, o quasi. In fondo la vita non è che il background sul quale costruire esperienze sessuali stimolanti, sembra suggerire il regista: ma l’erotismo di Svankmajer è poco esplicito, ed è prima di tutto anticonvenzionale (il collage di riviste erotiche utilizzato per costruire il gallo di cartapesta).

    Con questo film qualcuno ha scomodato Sade, moltissimi Freud, ma rimane una semplice considerazione di fondo: questa è avanguardia, prima di tutto, e come espressione tale si affida esclusivamente alla suggestione, all’inconscio, agli istinti repressi che accomunano i personaggi e che (suggerisce la storia) sono destinati a non risolversi, mai. La stop-motion inserita nella pellicola è il tocco di genio determinante, poi, per definire questo film uno dei capolavori surrealisti contemporanei.

    Per molti, probabilmente non per tutti.

  • Revenge: il revenge movie della Fargeat che (non) lascia il segno

    Revenge: il revenge movie della Fargeat che (non) lascia il segno

    Tre uomini e l’amante di uno di loro si ritrovano in una villa sperduta per una battuta di caccia: la donna, bellissima quanto frivola, attira le loro attenzioni facendo degenerare la situazione.

    In breve. Eccessivo e violento, si incentra sulla martirizzazione di un corpo femminile che sembra nato per l’eros: in questo, la Fargeat compie una nobile operazione anti-maschilista, filmando un’opera autenticamente sovversiva, che farà parlare di sè per buone ragioni. Per altri versi, pero’, il film non regge, e non è credibile come dovrebbe sembrare.

    Nell’intero suo concepimento, e per come finisce per presentarsi al grande pubblico, questo Revenge sembrerebbe avere le carte in regola per essere considerato un film di livello: del resto, già solo l’inquadratura insistita e dettagliata che lo caratterizza (l’enorme deserto nella zona del Grand Canyon) è un biglietto da visita fin troppo eloquente.

    Sono anche chiari i modelli di riferimento che sono stati sviluppati: Wes Craven (che sembra quasi ovvio, ma non era banale riprendere certi temi oggi), ma anche Lucio Fulci per alcune sequenze splatter (gli occhi trafitti da una lama, il cadavere che riemerge dall’acqua).

    L’insieme di dettagli che caratterizza Revenge finisce, però, per risultare vagamente sconnesso, soprattutto per il suo insistere sulla quantità di sangue finto – che, a quanto pare, fu largamente sottostimato in termini di litri necessari. C’è tanto plasma sgorgante in Revenge, insomma, che nemmeno in uno splatter puro: questo per molti è diventato un pretesto per far notare quanto rischiasse di essere poco verosimile. Da un lato personaggi che non muoiono (pur “avendo il dovere” di farlo), e soprattutto (a mio parere) la circostanza di sopravvivenza della protagonista si prefigura, forse, come la meno realistica in assoluto. Ed è proprio  da qui che si diparte il clou della trama, ed è questo che mi ha convinto meno di qualsiasi altra cosa.

    Coralie Fargeat è la regista (esordiente) alle prese con il modello del rape’n revenge, ad oggi considerato antisociale a priori da gran parte della critica e del pubblico; ma qui siamo di fronte alla classica eccezione che smentisce il trend. Una regista donna che gira, con la piena consapevolezza dei propri mezzi tecnici ed espressivi, un film contro la mercificazione dell’immagine femminile, dando un ampio saggio della bellezza, innegabile, del corpo di Matilda Lutz per poi capovolgere l’assunto e renderlo selvaggio, irrazionale e violento. Se nulla, poi, in Revenge sembra casuale o “buttato lì”, troppo spesso la trama finisce per scontrarsi con la logica, distrando così dagli intenti più nobili, e anche solo dal semplice godersi il film. D’accordo che poi, in ambito exploitation, è consuetudine effettuare degli “azzardi” poco coerenti come sviluppo narrativo; non bisognerebbe nemmeno dimenticare che Revenge è sostanzialmente un b-movie – per quanto girato “alla Tarantino” (ovvero facendo elegantemente finta di avere pochi mezzi). Per cui la critica più razionale, per quanto lecita, finisce per doversi attenuare, un po’ per forza di cose un po’ perchè il film è impostato così.

    Non c’è dubbio, comunque, che il film funzioni da molti altri punti di vista: la scelta dei personaggi è azzeccata, a cominciare dall’inaspettata protagonista (prima frivola e incosciente, poi determinata e feroce) a finire alle tre figure maschili, tre declinazioni di “orchi” molto diversi tra loro, sia per spessore che per potenzialità.

    La regista sembra aver voluto creare un sano exploitation incentrato sugli stereotipi del genere, giocando sui consueti contraccolpi a sorpresa, e regalando al pubblico momenti violentissimi quanto frustranti (o liberatori) all’interno della trama. Del resto, chiunque abbia visto La casa sperduta nel parco, ad esempio, non dovrebbe avere difficoltà a riconoscere il modello che è stato seguito: i presupposti sono quasi identici – per quanto ci fosse forse maggiore credibilità nel lavoro di Deodato.

    L’unico modo per visionare Revenge senza farsi trascinare da una critica inutilmente feroce, che il film a conti fatti non sembra meritare del tutto, è quello di farsi avvolgere dal clima puramente ottantiano che lo caratterizza, divertendosi anche a cogliere le citazioni cosparse nella pellicola (The descent, Rambo). Revenge sarebbe forse potuto essere qualcosa di meglio, essenzializzando e rinunciando a simbolismi suggestivi quanto improbabili: l’insistere sulle tracce di sangue nel rapporto predatore-preda, soprattutto, che farà venire ai più sarcastici spettatori la voglia di fare un esposto all’Avis per tutto il plasma sprecato. E soprattutto: mai chiedersi – nel modo più assoluto, direi – come sia possibile che i personaggi sopravvivano e riescano a maneggiare armi quasi completamente dissanguati. Questo è un b-movie puro, nel bene e nel male – e finchè morte non ci separi.

    Menzione particolare per la scelta delle musiche, infine, ispirate ai lavori – tra gli altri – di John Carpenter.

  • Calvaire: un horror pazzesco che dovresti vedere assolutamente (Fabrice Du Welz, 2004)

    Calvaire: un horror pazzesco che dovresti vedere assolutamente (Fabrice Du Welz, 2004)

    Un cantante francese gira negli ospizi per fare le proprie serate, in prossimità di Natale: ma il furgone su cui viaggia si guasta, e l’uomo è costretto a farsi ospitare da un cordiale ex umorista…

    In breve. Exploitation belga di buona fattura, ricco di richiami impliciti al primo Wes Craven ed al cinema di genere “estremo” di moda negli anni 70 (I spit on your grave è il riferimento più corposo). Tutti i ruoli dei personaggi sono stravolti, e l’apparente normalità degenera nel terrore con la “naturalezza” di una piece teatrale dell’assurdo.

    Se fai cinema horror senza pretese, è facile che tu venga tacciato di superficialità, specie se non riesci a dare una giustificazione accettabile a quanto rappresenti sullo schermo: ancora ricordo Grotesque e la sensazione non troppo positiva che mi ha suscitato (buona forma ma pochissima sostanza). In parte, Calvaire sembra suggerire le stesse sensazioni, anche perchè – nella sua brutale essenzialità – parte dai presupposti più classici che possano esistere (il protagonista si perde in un bosco, il furgone si guasta, esce fuori poco dopo lo psicologicamente instabile di turno). Ma se si riesce ad andare oltre i primi 20 minuti senza cedere alla tentazione di vedere un altro film, si troveranno numerose, ed interessanti, sorprese; il cinema del belga Du Welz è niente affatto banale, e molto ben congegnato. I riferimenti al cinema horror classico non mancano, in particolare riguardo l’exploitation anni 70. Una struttura rigida e piuttosto prevedibile di per sè, in cui il regista è riuscito (in collaborazione con Romain Protat) ad inserire vari elementi di novità, tanto da renderlo alquanto originale.

    https://www.youtube.com/watch?v=1owrlQlLExY

    I limiti, in questo caso, sono dettati dalla struttura stessa del film, e da un ritmo claustrofobico che spaventa, avvince e cattura per buona parte della narrazione, forse con qualche pecca nel ritmo giusto nella seconda metà. Lo spettatore che cerchi effetti speciali strabilianti, non sopporti la violenza anche accennata o diversamente si aspetta uno splatter puro, rimarrà deluso e dovrà guardare altro.

    Caratteristica di Calvaire sta nel fatto che i personaggi vivono una duplice identità, tracciata in linee piuttosto essenziali, ma altrettanto efficaci: l’effetto straniante deriva molto da un alto dalla figura del protagonista, dipinto come un menefreghista per cui sarà quasi impossibile simpatizzare, e dall’altro dal villain di turno, uomo fragile che, racconta, ha perso il proprio senso dell’umorismo dopo essere stato lasciato dalla moglie. Eppure tutti i personaggi gravitano attorno a Marc, per una forma di attrazione nei suoi confronti Ed è proprio qui che scatta un meccanismo interessante a livello narrativo: il passato oscuro di Bartel viene “rivissuto” attraverso Marc, lentamente identificato dal proprietario dell’albergo con la moglie persa.

    E se può sembrare ovvia queste identificazione che, agli occhi di un folle, arriva a far rivivere in replay le crudeltà fisiche e psicologiche subite dalla donna, meno ovvio è che tutti gli abitanti del villaggio (con la sola eccezione di Boris, forse) “vedano” in Marc la donna, l’unico elemento femminile della zona nonchè morboso oggetto del desiderio di molti. I riferimenti a Cane di paglia e I spit on your grave si sprecano e sono leciti, con la differenza che in questa sede manca completamente l’elemento vendetta, in favore di una pietas nichilista che esalta la natura ambigua, imprevedibilmente folle dell’essere umano.

    Sulla natura animalesca dell’uomo e sul lato oscuro, evidentemente, è stato già scritto e detto fin troppo sullo schermo: l’elemento di novità di Calvaire (il nome “mistico” del film sembrerebbe derivare da un preciso riferimento alla crocifissione) sta proprio nel fatto che al posto della solita scream queen c’è un uomo, costretto suo malgrado ad interpretare una donna – con cui condivide la fragilità di fondo – che non ha mai conosciuto, solo perchè il mondo sembra identificarlo in essa. La stessa morbosa ambiguità  che troviamo, in toni differenti, all’interno uno dei più sottovalutati film di Cronenberg (M Butterfly), che condivide con Calvaire il “gioco di ruolo” sessuale accettato dal protagonista, accecato da pulsioni sessuali e da pretese d’amore.

    Menzione particolare per la colonna sonora, praticamente un unico macabro tema eseguito al piano da uno dei protagonisti, capace di creare uno siparietto grottesco – quasi da teatro dell’assurdo – nonchè un preciso omaggio al film del 1968 Una sera… un treno.