Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • The Guest è il film di Adam Wingard che cambierà la vostra idea di film d’azione

    The Guest è il film di Adam Wingard che cambierà la vostra idea di film d’azione

    Il militare David si reca in visita dai genitori di un commilitone morto in battaglia, venendo accolto con commozione e stabilendo un legame emotivo con i familiari: ma chi si nasconde davvero dietro di lui?

    In breve. Sano action-movie come da tradizione ottantiana (si parte dagli stessi presupposti del primo Rambo): trama accattivante e divertimento per il pubblico, a cominciare dalle citazioni a finire dai dialoghi essenziali ed ontologicamente tamarri (nel senso migliore del termine). Ci si diverte con stile, e solo questo conta.

    Girato da Adam Wingard (giovane guru dell’horror noto per You’re Next, The ABCs of Death e recentemente Death Note) con un budget di circa 5 milioni di dollari, The Guest è strutturato con le dinamiche di un film del terrore – tranquillità iniziale, crescendo di tensione e rivelazione/i finale/i – senza pero’ sfruttarne pienamente le dinamiche espressive. Ciò che emerge è un buon thriller molto contenuto (stranamente per Wingard) a livello di sangue e violenza, girato con gusto e recitato in modo gradevole, ben calato nella realtà americana – e strizzando l’occhio ad Halloween (nella sequenza finale, soprattutto). L’idea del film arriva dalla penna di Simon Barret, partito da un’idea di classico film a sfondo revenge, che poi è stata abbandonata causa complicazioni e trasformata dal regista in ciò che il film è: in parte prevedibile dopo un po’, forse, ma assolutamente dignitoso.

    La cosa più affascinante di The guest è legata sicuramente al suo rendersi inclassificabile per circa un’ora di film, almeno fin quando iniziano a delinearsi i tratti essenziali della trama; lo guardi con interesse, e non riesci a capire se vedrai uno slasher, una spy-story, un action puro o un horror cruento. La verità è che non importa granchè, perchè la trama incuriosisce ed avvince lo spettatore, che difficilmente potrà immaginare la sorpresa finale (per quanto, ripensadoci, abbia un che di “grezzo” nel senso accennato all’inizio, tutto sommato divertente). Certo Wingard ama il cinema di genere, anzi in certe sequenze lo venera spudoratamente e lo tributa senza pudore, a cominciare dalla scelta delle musiche puramente ottantiane di Steve Moore. Tanto per capire l’atmosfera, Moore ha sfruttato gli stessi sintetizzatori suonati da Carpenter e Howarth per Halloween 3: Season of the Witch (1982), ed il feeling sembra proprio quello.

    Stevens, protagonista del film, impersona l’enigmatico soldato che irrompe nella vita ordinaria di una famiglia americana, quale archetipo del “buono” in grado di sedurre, combattere e dominare la scena in lungo ed in largo. La sua parte è particolarmente complessa soprattutto per ciò che implica, ed in funzione della sua reale identità, e questo lo rende particolarmente affascinante. Quasi sempre padrone della scena ed egocentristicamente coi riflettori sempre puntati addosso, ha dovuto sostenere un allenamento specifico per sfoggiare il fisico necessario ad impersonare un militare. La cosa è stata talmente voluta da Wingard da spingere il regista a rinviare fino all’ultimo una delle scene clou, per dare il tempo allo stesso di allenarsi e girare la scena del trailer.

    Un buon film, quindi, che riserva qualche discreto colpo di scena ed una buona dose d’azione, in definitiva. Per come viene impostato fin dall’inizio, nonostante gli ammicamenti (pesantissimi nel finale, peraltro) The Guest si allontana dai lidi dell’horror per approdare su quelli del thriller d’azione, citando il cinema ottantiano tutto. Al tempo stesso, The Guest piacerà agli appassionati di cinema di genere che non amino le spiegazioni troppo dettagliate – per dire, il pubblico selezionato per il test screening ha convinto Wingard e lo sceneggiatore a togliere di mezzo lo “spiegone” che illustrava con molti dettagli l’ identità dell’ospite, ma questo a ben vedere non lascia spiegazioni in sospeso, per cui va bene così.

  • Fantozzi: un esordio col botto, quasi 50 anni dopo

    Fantozzi: un esordio col botto, quasi 50 anni dopo

    La moglie del ragionier Ugo Fantozzi non ha notizie del consorte da diciotto giorni: si scopre che è stato murato vivo all’interno del proprio ufficio.

    In breve. Il capostipite di una saga che ha fatto la storia del genere: sfruttando uno stile parodistico e grottesco, che deve moltissimo allo slapstick ed al paradosso, il romanzo di Villaggio diventa un film semplicemente leggendario.

    Il mega-direttore galattico. Le Allucinazioni Mistiche. La mega ditta dal nome impronunciabile, ItalPetrolCementThermoTextilPharmMetalChemical. La mitica partita a calcetto Scapoli vs. Ammogliati, in un campo di calcio pieno di dossi e pozzanghere. Le vacanze a Courmayeur con l’amore impossibile, la signorina Silvani. E poi la Contessina Alfonsina Serbelloni Mazzanti Viendalmare, il ragionier Filini, il geometra Calboni.

    Personaggi e tormentoni che hanno costruito un immaginario che nasce, letteralmente, in questo film – ma che per la verità Villaggio aveva già formalizzato in un triplice romanzo. Un successo straordinario, già all’epoca, rimasto impresso nella coscienza (non solo linguistica) di moltissimi italiani: fantozziano è diventato ufficialmente un aggettivo, per intenderci. Fantozzi esce nelle sale il 27 marzo 1975 e da allora diventa un cult assoluto, anche grazie ai numerosi passaggi nelle TV commerciali negli anni successivi.

    Il taglio registico di Salce è molto influenzato dal personaggio del libro, che Villaggio ha interpretato per molti anni – quale prototipo di dipendente umile, deriso dai superiori e dai colleghi, impacciato con le donne ed assegnatario delle peggiori umilazioni. Come se non bastasse, Fantozzi in questo film diventa pure comunista, conoscendo l’incubo del mobbing (in un periodo in cui, probabilmente, nessuno l’avrebbe chiamato così) e finendo per incontrare il Mega-Direttore in persona – con la sua poltrona in pelle umana e la metafora forse più bella di tutto il film: un vero e proprio acquario, nel quale i dipendenti più meritevoli hanno il privilegio di nuotare liberamente.

    Se molte delle trovate di questi (ma anche dei successivi) film di Fantozzi sono surreali, lo si deve alle scelte anarchiche di Villaggio e del regista, che non perdono occasione per proporre al pubblico i classici slapstick del cinema muto (cadute rovinose, soprattutto), ma anche – per non dire soprattutto, se vediamo il film da adulti – dialoghi leggendari che il pubblico ha assimilato e imparato a memoria negli anni, neanche si trattasse di un classico della letteratura in chiave pop. Perchè Fantozzi, soprattutto qui (un po’ meno nei seguiti, progressivamente meno innovativi) inventa un nuovo tipo di comicità: fisica o corporale, certo, sicuramente efficace e debitrice della satira graffiante e del grottesco puri, il che per molti verso potrebbe richiamare quello (più esasperato e colto, se vogliamo) che proponevano i Monty Python (il parallelismo potrebbe avere senso con Il senso della vita, ad esempio, che uscì quasi dieci anni dopo). Se le disavventure di Ugo Fantozzi fanno già ridere di per sè, la sua storia è tragica: è la storia che fa parte del vissuto ed in cui è possibile quasi sempre identificarsi, tra le frenesie psicotiche della vita di ogni giorno (Fantozzi che prende l’autobus al volo sulla Casilina pur di timbrare in orario), i compromessi dettati dal conformismo e dalla convenzione, il grottesco instillato da personaggi che fanno ridere, ma anche commuovere (Fantozzi che prende le difese della figlia, ferocemente derisa dai colleghi, per poi esprimere loro “i più servili auguri” di buon anno).

    A quel punto potremmo addirittura scomodare Arthur Schopenhauer, nel descrivere un film che nei suoi frammenti è fortemente comico, ma nel suo complesso è un vero e proprio dramma: La vita d’ogni singolo, se la si guarda nel suo complesso, rilevandone solo i tratti significanti, è sempre invero una tragedia; ma, esaminata nei particolari, ha il carattere della commedia.

    Allora prenderò l’autobus al volo!
    No Ugo, l’autobus al volo no! No Papà!
    Sì, saltando dal terrazzino guadagnerò almeno 2 minuti!
    No Ugo non l’hai mai fatto, non hai il fisico adatto!
    Non l’ho mai fatto, ma l’ho sempre sognato!

    Incluso tra i cento film da salvare nel 2008, fu distribuito dalla Cineriz in doppio cut: uno di 103 minuti, e l’altro di 98. Se non l’avete mai visto o non lo ricordate troppo, è il caso di tornare sul pianeta Terra e provvedere all’istante.

  • Il primo film di Aldo Lado: “La corta notte delle bambole di vetro”

    Il primo film di Aldo Lado: “La corta notte delle bambole di vetro”

    Un giornalista viene ritrovato apparentemente morto dentro un parco: in realtà è ancora vivo, ma non riesco a muovere un muscolo pur avendo ancora la capacità di pensare.

    In breve. Il primo film di Aldo Lado (Chi l’ha vista morire?, L’ultimo treno della notte) è probabilmente uno dei più sorprendenti che abbia mai girato: segue la struttura di un giallo argentiano e riesce, soprattutto, ad accarezzare l’horror più incisivo senza inutili eccessi.

    Film decisamente interessante e poco valorizzato dalla critica, che tendenzialmente lo capì poco (le recensioni sul Davinotti, ad esempio, sono discordanti e quasi tutte impietose). Introdotto da una tagline piuttosto classica (When things are not what they seem, ovvero quando le cose non sono quello che sembrano) che sembra dire pochissimo di per sè (le apparenze decostruite diventeranno un classico del cinema horror, da Society in poi), ma che rivela un impianto molto originale. Qualcosa che all’epoca deve avere molto sorpreso il pubblico, che si trovano di fronte una realtà surreale e spaventosa: il protagonista è apparentemente morto, ma riesce ancora a pensare. Si scoprirà che questo stato catatonico è stato indotto da una serie di circostanze, per le quali molta critica arrivò a parlare di vera e propria fanta-politica.

    Dead? I’m dead? Can’t be. I’m alive. Can’t you tell I’m alive? I’ve got to make them see. You! Listen to me! Look at me! Can’t you hear me? Maybe it’s a nightmare. I’ll try to wake up. I’ve got to move. Yeah, a finger. Ca’ Can’t! I must! Don’t leave me like this. Help me! HELP ME!

    Vedere Greg Moore portare la propria compagna (Mira) ad un party in cui sono tutti ricchi, potenti ed anziani non potrà che far pensare al succitato cult di Brian Yuzna, tanto da suggerirne una potenziale ispirazione. La trama si sviluppa come un flashback dei ricordi del giornalista, intervallati dai tentativi di un amico chirurgo che cercherà in ogni modo di rianimarlo. Riuscirà Gregory a svegliarsi prima che la sua ora arrivi definitivamente? Lo scopriremo solo nell’ultima scena, quella che probabilmente ha consacrato la fama di questa opera prima di Lado, a mio modo di vedere, come uno dei migliori film di genere giallo-thriller.

    Esiste un piccolo mistero sulla scelta del titolo, dato che non è esplicitato quali siano le “bambole di vetro” (il titolo originale è The Short Night of the Butterflies, ovvero La corta notte delle farfalle, le farfalle – che, si dice nel film, “non volano più“, uno degli indizi per ricostruire l’enigma). A meno che non si voglia pensare alle bambole di vetro come alle ragazze tenute in stato catatonico e sostanzialmente controllate dalla setta, per quanto questa cosa non sia forse sufficentemente rimarcata dall’intreccio (a parte Mira, solo un’altra ragazza dimostra esplicitamente di aver subito questa sorte: l’americana presentata a Gregory durante il party, poco prima che la sua compagna scompaia nel nulla).

    C’è da sottolineare la parvenza rivoluzionaria dello spaventoso quid della trama, ovvero la capacità di tenere il cervello attivo di una vittima, dandogli esternamente la parvenza di morto. Il non-morto cerca disperatamente di comunicare con l’esterno ma non riescono a sentirlo, e questa cosa viene schiaffata in faccia allo spettatore dopo qualche minuto di film: uno spaventoso stato catatonico che evoca, almeno in parte, il soldato tenuto in vita forzatamente protagonista di E Johnny prese il fucile di Dalton Trumbo.

  • The Gift (Atiye): la serie TV turca sull’arte del dipinto

    The Gift (Atiye): la serie TV turca sull’arte del dipinto

    La serie TV “The Gift” è una serie televisiva turca del genere drammatico e fantastico, conosciuta anche con il titolo originale “Atiye”. La serie è stata distribuita sulla piattaforma di streaming Netflix.

    La trama di “The Gift” ruota attorno a una giovane pittrice di nome Atiye, che scopre un simbolo antico in uno dei suoi dipinti. Questo la porta a intraprendere un viaggio alla ricerca delle sue origini e del significato di questo simbolo, il che la coinvolge in misteri e avventure legate all’antica civiltà di Göbekli Tepe e a una profezia che riguarda il destino dell’umanità.

    La serie mescola elementi di archeologia, mitologia, mistero e avventura, creando un’atmosfera intrigante. È stata ben accolta da molti spettatori e ha attirato l’attenzione per la sua trama unica e per le sue ambientazioni suggestive.

    Il cast della serie TV “The Gift” include diversi attori noti nel panorama televisivo turco. Ecco alcuni dei membri principali del cast:

    1. Beren Saat nel ruolo di Atiye: È la protagonista della serie, una giovane pittrice che si trova coinvolta in misteri legati a un antico simbolo.
    2. Mehmet Günsür nel ruolo di Erhan: È uno degli altri personaggi principali e interpreta il ruolo di un archeologo che collabora con Atiye nelle sue ricerche.
    3. Melisa Şenolsun nel ruolo di Cansu: È un’altra figura chiave nella trama, interpretando il personaggio di una giornalista che si unisce alle indagini di Atiye.
    4. Metin Akdülger nel ruolo di Ozan: È il fidanzato di Atiye e un personaggio importante nella storia.
    5. Civan Canova nel ruolo di Serdar: È un personaggio ambiguo che riveste un ruolo significativo nella trama.
    6. Tim Seyfi nel ruolo di Serdar: È un altro personaggio rilevante, con un passato misterioso.
  • Begotten è la fiamma che brucia l’oscurità

    Begotten è la fiamma che brucia l’oscurità

    Begotten, per quanto mi risulta, è uno dei film in assoluto più bizzarri e incomprensibili mai visti su uno schermo: mescola al proprio interno trama e messaggi criptici, che diventano chiari (forse!) solo alla fine, lasciando lo spettatore quasi tramortito nel mentre. Ce ne vuole, ad essere onesti, perchè un arthouse puro del genere sia seriamente equiparabile alle allucinazioni lynchiane o alle complesse simbologie annidate negli oscuri horror nipponici o tedeschi: ma nel frattempo il pubblico resta annichilito, e della visione (alla fine dei conti) sopravvive poco o nulla. Sta di fatto che è uno dei film più noti di Merhige, partorito nel 1991 e parte della visionaria esperienza artistica di un regista che, tra le altre cose, ha diretto alcuni dei video musicali più famosi di Marylin Manson.

    In breve: guardare “Begotten” per intero è un progetto cinematograficamente suicida, una “mission impossible” da effettuarsi con tempi e modi quasi anacronistici, rispetto alla fruibilità “usa e getta” delle serie TV e dei cortometraggi virali a cui siamo abituati. Begotten è un viaggio di sola andata, che potrebbe cambiare per sempre la vostra idea del cinema, o – più probabilmente – farvi maledire il regista Merhige a vita. Se si riesce a vederlo tutto, senza sbirciare la trama, tanto meglio, ma il senso del film rimane sproporzionatamente più piccolo rispetto al linguaggio utilizzato.

    Come una fiamma che brucia l’oscurità, la vita è carne su ossa che si agitano sulla terra“: questa enigmatica frase chiude l’introduzione dell’opera di E. Elias Merhige, regista sui generis molto debitore dell’espressionismo (suo anche il film L’ombra del vampiro). Il regista di Begotten vuole stupire, questo è certo, e presenta un film essenziale, girato in bianco e nero, senza dialoghi con lo scopo di disturbare, causare shock e, in certa misura, fare discutere. Ma attenzione: qui non si tratta degli equilibrismi simbolici azzardati da Jorg Buttgereit in Der Todesking, i quali (nel loro morboso realismo) si mantengono sia pur vagamente comprensibili.

    Il regista Elias Merhige, classe 1964, il cui cognome dovrebbe pronunciarsi come marriage (matrimonio), è noto al pubblico soprattutto per L’ombra del vampito del 2000, e per aver diretto questo unicum del genere affiancato ad alcuni video musicali di Marilyn Manson (Cryptochild e Antichrist superstar, di quello che potrebbe considerarsi il periodo d’oro della produzione di Manson). Merhige esordisce a teatro e pensa a Begotten come opera di teatro sperimentale, mettendolo in scena per un breve periodo. Ad oggi dovrebbe lavorare esclusivamente sui palchi, dopo un terzo e ultimo lungometraggio dal titolo Suspect Zero, del 2002.

    Ascolta il podcast di questa recensione

    L’ermetismo di Begotten

    Nelle notissime Memorie di un malato di nervi l’autore Daniel Paul Schreber racconta della nascita della propria psicosi, seguito di un’educazione rigida e severissima da parte del padre, nei termini di una comunicazione tra i suoi stessi nervi e Dio in persona: scrive infatti che Dio propriamente, in base all’ordine del mondo, non conosceva l’uomo vivente e nemmeno aveva bisogno di conoscerlo: bensì aveva rapporti solo con cadaveri. In Begotten le danze si aprono sulla morte di Dio, intesa in senso letterale e sostanzialmente blasfemo dato che è Dio stesso a suicidarsi. Se quella era l’espressione del singolare misticismo materialista che vive l’autore, e che lo porta ad esprimere la propria visione nevrotica del mondo come agglomerato di raggi e nervi in grado di comunicare a distanza, in Begottone c’è una sequenza altrettanto lacerante e significativa. La morte di Dio che coincide con la nascita del mondo,

    All’interno di quella che sembra una piccola baracca, una figura vestita – descritta come “Dio che si uccide” nei titoli di testa – si sventra con un rasoio a mano libera e muore dopo avergli aperto l’addome e rimosso alcuni dei suoi organi interni. Una donna, che rappresenta la Madre Terra, emerge dai suoi resti mutilati. Porta il cadavere all’eccitazione e usa il suo sperma per fecondarsi. Il tempo trascorre e la Madre Terra, visibilmente incinta, sta accanto alla bara del dio morto. Vagando in un mondo vasto e desolato, dà alla luce il Figlio della Terra, un uomo malformato e convulso. Un figlio che verrà presto abbandonato dalla madre, lasciato a se stesso.

    Di Designer unknown. The film's production company is Theatreofmaterial. – Propaganda magazine no. 18 (Spring 1992), p. 38 (via the Internet Archive). A similar logo was later used on home media releases of the film—see, for example, the logo on the 1995 VHS tape. Extracted from scan into PNG by uploader., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=93449283

    La tendenza all’ermetismo in Begotten è ancora più estremizzata, ancora più accentuata nel mostrare crudeltà e violenza, e questo senza che ci siano dialoghi nel film e senza una trama che risulti lampante. Quindi è peggio ancora, se possibile, perchè in più parti lo spettatore non capirà cosa si stia guardando, e non è detto che questo sia un bene: nessun dialogo, nessuna musica, nessun vero punto di riferimento sull’intreccio – se non strane figure mascherate ed incappucciate, che effettuano strani rituali e sembrano vivere fuori dal tempo. Probabilmente, se non altro, un espediente efficace per obbligare il pubblico a vedere  il film fino alla fine prima di emettere giudizi.

    Significato di Begotten

    Begotten: letteralmente significa generato, procreato, il che suggerisce che il film abbia a che fare con il processo della nascita (e sembra proprio essere così). Ad un secondo livello, begotten sembra un termine utilizzato a livello mistico-religioso, con frasi che richiamano al concetto di unigenito (l’unico generato, nella teologia cattolica è Gesù).

    Il suicidio di un uomo mascherato all’inizio, il parto di un umanoide tremante, sevizie e violenze di gruppo, rappresentazione di un dolore senza redenzione, senza motivazione apparente, ed ampio spazio alla rappresentazione della natura (tramonti, albe, alberi e vegetazione in generale): per il resto preferisco non approfondire la trama perchè, in fondo, è davvero essenziale e sarebbe imperdonabile banalizzarla attraverso la sintesi. Begotten non è altro che un’insostenibile carovana di orrore distillato da cineforum, reso suggestivo da determinati tipi di inquadrature ed accortezze stilistiche, ed è fondamentalmente distante da qualsiasi stile riconoscibile: certo, si puo’ parlare di sperimentazione pura, ma questa è un’arma a doppio taglio per cui lo spettatore potrà, in molti casi (e comprensibilmente) abbandonare la visione dell’opera dopo neanche 15 minuti. Prendere o lasciare, in qualche modo.

    Resta il fatto che Begotten è insostenibilmente violento ed esplicito, e va visto con molta attenzione perchè è facile disorientarsi al suo interno. Il rischio è che il tutto venga declassato ad un delirante radical-chic intellettualistico e fine a se stesso: un rischio, a dirla tutta, abbastanza fondato, che serve – più che a sminuire il gusto e le doti artistiche di Merhige – a mettere in guardia il suo pubblico (chiunque esso sia) a capire un cinema fuori dal tempo (e non solo perchè film del genere sono rari, ed emergono davvero molto raramente). Se lo spettatore regge fino alla fine, del resto, solo dai titoli di coda riuscirà a comprendere il senso dell’opera, e non è detto che l’epifania sia  soddisfacente. A molti, tanto per dare un’idea in più, sembrerà di vedere una piece teatrale del Beckett più contorta, espressa in chiave horror-concettuale.

    Al di là del tema dell’ambientalismo, secondo me, diventa complesso fornire interpretazioni ulteriori che sconfinerebbero, a mio avviso, in discorsi privi di senso. Tutto sommato l’idea è buona, e nessuno mi toglierà dalla testa che come cortometraggio sarebbe stato decisamente più efficace (e non necessariamente più appetibile, che è una cosa ben diversa). A dirla tutta, come accennavo poco fa, l’idea è tutt’altro che stupida, solo che Merhige non possiede il dono della sintesi (o vi rinuncia deliberatamente), finendo per declinare il tutto in una sorta di elitarismo intellettuale. Forse, inoltre, si dilunga troppo a spaventare, disgustare ed insistere su dettagli poco chiari, col risultato che – alla peggio – rischia solo di annoiare.

    Le scene presentano comunque una fotografia notevole, tanto che il regista ha affermato che ogni singolo minuto di girato (72 in tutto) ha richiesto ben 10 ore di lavoro in fase di creazione dell’effetto “pellicola consumata” e del tutto priva di mezzi toni. Ad ogni modo un film che gli appassionati di sperimentazioni orrorifiche e psichedeliche potrebbero gradire e, alcuni, in ogni caso una delle più importanti pellicole di tutti i tempi a livello sperimentativo.

    Begotten è noto per il suo stile visuale unico e disturbante, creando una sensazione di surreale oscurità.  “Begotten” è un film sperimentale in cui il concetto visivo prevale sulla narrazione convenzionale. La trama è aperta all’interpretazione e il film si presta a una varietà di interpretazioni filosofiche e simboliche. Data la sua natura altamente sperimentale e avanguardista, il film è stato accolto con opinioni molto varie dalla critica e dal pubblico.

    I più curiosi, a questo punto, vorranno quasi certamente cimentarsi a vederlo.

    Regia e Ideazione

    Il film è stato diretto da E. Elias Merhige, che ha anche ideato il concetto. Merhige voleva creare un’esperienza visiva e cinematografica intensa, prendendo ispirazione da influenze artistiche come l’espressionismo tedesco e il cinema surrealista.

    Sceneggiatura

    La sceneggiatura di “Begotten” è stata scritta da E. Elias Merhige. La trama è minimalista e l’attenzione è posta principalmente sull’aspetto visivo e sperimentale del film. La trama segue il ciclo della creazione, morte e rinascita attraverso una serie di scene surreali e disturbanti.

    Produzione

    La produzione del film è stata realizzata anch’essa da E. Elias Merhige. A causa del suo stile unico e sperimentale, il budget del film è stato limitato. Merhige ha utilizzato tecniche di ripresa insolite per creare l’atmosfera inquietante del film, tra cui la sovraesposizione delle immagini e la manipolazione in post-produzione.

    Cast

    Il film presenta un cast molto ridotto e praticamente semi-anonimo, dato che l’accento è posto più sulla rappresentazione simbolica che sui personaggi identificabili. Alcuni dei membri del cast includono:

    • Brian Salzberg nel ruolo di “Dio”
    • Donna Dempsey in quello della “Madre”
    • Stephen Charles Barry in quello del “Figlio della Terra”