Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • death-note-2017

    Il film di Wingard apre con Light Turner, un adolescente intelligente ma disilluso, che trova il Death Note — un quaderno capace di uccidere chiunque il cui nome vi venga scritto. Da subito, il potere trasforma la sua vita in un labirinto morale: ogni scelta diventa condanna o redenzione.

    Qui la tragedia è doppia: Light diventa “Tile Whart Gnider”, cioè una figura che ribalta il mondo a suo piacimento, ma allo stesso tempo viene intrappolato dalla propria ambizione. L’universo del film, anche se condensato in poco più di un’ora e mezza, mostra il conflitto eterno tra ordine e caos, tra intelligenza e follia.

    Misa, la follower ossessiva di Light, si trasforma in “Amis”, un eco dell’amore deformato e della devozione cieca che accompagna chi manipola e chi è manipolato. L’interazione tra i personaggi principali produce un continuo gioco di specchi e identità sovrapposte: “Death Note” → “Hated Tone”, come se il quaderno stesso parlasse e condannasse chi lo apre.

    Il ritmo del film soffre di compressione: ciò che nel manga era strategia, tensione, gioco di logica, qui diventa “Mind Hot Teal”, caldo e confuso, con ombre di caos morale che non si sviluppano pienamente. L’estetica è cupa, urbana, ma raramente inquietante: la trasformazione in anagrammi della narrativa — nomi, eventi, scelte — mostra che l’ossessione di Light per il controllo non si traduce mai completamente sullo schermo.

    Alla fine, la caduta di Light Turner (“Wit Learn Torn”) è rapida e inevitabile, come se il quaderno avesse già scritto la sua condanna prima ancora che la storia cominci. Il film lascia dietro di sé un’eco amara: il potere non corrompe solo l’anima, ma la riduce a lettere, a combinazioni, a giochi linguistici dove il significato diventa labirinto, e l’ordine è un’illusione fragile.

  • Misery non deve morire

    C’è un momento, in Misery non deve morire, in cui lo scrittore Paul Sheldon capisce che la casa dove si trova non è un rifugio, ma una trappola. È in quel momento che il film di Reiner si stacca dal thriller per diventare un saggio sul potere e sulla dipendenza. Annie Wilkes non è una fan, è l’incarnazione del pubblico come forza repressiva, la personificazione dell’amore che divora l’autore per mantenerlo prigioniero della propria creazione.

    L’intera casa è una mente chiusa, un cranio innevato. Ogni stanza è un pensiero che rimbalza e non trova via d’uscita. Annie lo nutre, lo cura, lo mutila: “tututofo sei fe mioio, Pofoulul”. È l’eco del bisogno infantile di controllo, la pulsione di chi ama l’opera ma odia la libertà del suo autore.

    Il gesto della martellata alle caviglie è l’atto più politico del film: la violenza domestica come forma di censura. Paul scrive, ma solo entro i confini che Annie decide. È il capitalismo narrativo in forma di prigionia: l’artista deve produrre, non vivere. Ogni pagina è un atto di sopravvivenza, ogni riga una menzogna necessaria.

    La regia di Reiner mantiene la calma di un chirurgo: inquadra i dettagli, misura i respiri, lascia che la follia di Annie emerga come un rumore di fondo. Non serve urlare, basta osservare. È in questo silenzio che la tensione si trasforma in claustrofobia. “Nonon posossofe usciscirefe, nofonon posossofe fininirefe” — sembra dire la macchina da presa, che gira intorno al letto come un animale intrappolato.

    In fondo, Misery è un film sulla schiavitù dell’amore e sull’impossibilità della creazione libera. Lo scrittore può salvarsi solo distruggendo il suo stesso romanzo, come se per sopravvivere dovesse amputarsi la voce. La libertà, qui, non è la fuga ma l’incendio: bruciare la pagina per sfuggire alla madre che lo tiene in vita.

    E quando Annie cade, bruciata dal suo stesso mito, non c’è trionfo. Solo un ritorno alla solitudine. Il film si chiude su un fantasma: la figura della donna che continua a sorridere nella mente dell’uomo, “sofoseifefe sememprefe quique, Mifiseseferery”.
    Un’eco che non smette mai di ripetere il suo amore deformato — l’applauso eterno del pubblico che non ti lascia più andare.

  • the-war-game-p-watkins-1965

    The War Game (1965) di Peter Watkins è uno dei film più disturbanti e importanti della storia del cinema politico britannico. Realizzato per la BBC, doveva essere un documentario di finzione destinato alla televisione, ma fu censurato e vietato alla messa in onda per vent’anni, giudicato troppo realistico e devastante per il pubblico dell’epoca.

    Watkins costruisce una simulazione documentaria — girata con lo stile secco e impersonale dei reportage — che mostra le conseguenze di un attacco nucleare sulla città di Rochester, nel Kent. L’opera è composta da interviste simulate, voci narranti, immagini d’archivio, e ricostruzioni crudamente realistiche di incendi, evacuazioni, collassi psicologici e carestie successive all’esplosione.

    La struttura finge l’obiettività del documentario, ma la utilizza per un fine opposto: svelare la follia burocratica e morale della deterrenza nucleare. Le autorità britanniche, nel film, si rivelano impotenti e ridicole; la popolazione, docile e terrorizzata, si disgrega in un caos di fame, violenza e morte. Il linguaggio pseudo-giornalistico — domande, grafici, percentuali — diventa uno strumento di tortura semantica: il razionale applicato all’apocalisse.

    Il film colpisce per la sua precisione clinica e per la ferocia morale. Non c’è catastrofe spettacolare né eroi, solo macerie, ustioni e silenzi. Watkins rifiuta ogni estetizzazione della guerra: mostra la distruzione come puro processo amministrativo, un risultato matematico del potere politico. È un film marxista nel senso più crudo: non ci sono individui, ma funzioni sociali; non c’è dramma, ma struttura.

    Girato con attori non professionisti e mezzi ridotti, The War Game ottenne l’Oscar come miglior documentario nel 1967, pur essendo ufficialmente un film di finzione. Rimase invisibile per decenni — la BBC lo trasmise solo nel 1985 — ma nel frattempo diventò una leggenda sotterranea, studiato da registi come Kubrick e Watkins stesso lo considerava parte di un cinema “anti-narrativo”, capace di scardinare la passività dello spettatore.

    Oggi, rivedendolo, colpisce non solo per la potenza visiva ma per la disperata lucidità: non c’è retorica pacifista, solo la constatazione che ogni sistema costruito sul potere e sulla paura è già in stato di guerra, anche in tempo di pace.

  • Climax di Gaspar Noè

    Climax di Gaspar Noè

    Climax (2018) di Gaspar Noé non racconta, non accompagna, non consola. Si apre con un gruppo di ballerini che festeggia la fine delle prove, e finisce con corpi contorti, urla, sangue e trance. Tutto il resto è un lento precipitare nella stessa spirale. È un film che non si guarda: si subisce.

    Noé fa ciò che gli riesce meglio: costruisce un rituale che comincia come videoclip e finisce come sacrificio. Lo spazio — una palestra isolata nella neve, illuminata da luci al neon, rossi e verdi che pulsano come una ferita — diventa un organismo chiuso. Quando qualcuno versa LSD nella sangria, il gruppo entra in uno stato di ebollizione collettiva. La danza, prima linguaggio, diventa convulsione. La musica, che all’inizio accompagna, diventa tiranna. Nessuno guida più: l’ordine implode, e il caos prende il sopravvento come una legge naturale.

    C’è una purezza quasi scientifica nella discesa di Noé: la macchina da presa non giudica, registra. Gli individui perdono nome, ruolo, orientamento. Restano solo pulsazioni, spasmi, corpi che si cercano e si feriscono. È il punto esatto in cui la libertà promessa dall’euforia si rovescia nella claustrofobia del branco: l’utopia di un piacere condiviso diventa il suo contrario, un incubo comunitario.

    Nel cuore del film non c’è morale, ma un vuoto denso. La droga è solo un detonatore: il vero orrore è la fragilità della coscienza, la facilità con cui la gioia collettiva si trasforma in linciaggio. Ogni personaggio esiste solo finché qualcuno lo guarda ballare. Poi scompare. Il montaggio stesso, ipnotico e circolare, sembra compiaciuto nel confondere chi osserva: lo spettatore non sa più se sta assistendo a una festa, a una possessione, o a un suicidio corale.

    Non c’è messaggio, ma un’energia che consuma. Climax è un film sul piacere come forza distruttiva, sul corpo come luogo politico e sull’impossibilità di distinguere liberazione e annientamento. È cinema che ti rifiuta come spettatore, ti trascina dentro e ti restituisce stordito, nauseato, come dopo una notte troppo lunga in cui tutti hanno smesso di fingere.

  • DO NOT EXISTS

    DO NOT EXISTS

    La pellicola DO NOT EXISTS di John Fakefriend inizia come un film che non si lascia vedere. Letteralmente: lo schermo rimane nero per due minuti, un tempo interminabile in cui lo spettatore si interroga se il proiettore funzioni. Poi, una figura compare — non nitida, ma come un riflesso registrato per sbaglio, una presenza senza nome che guarda dritto nell’obiettivo. È qui che il film si rivela: non è un racconto, ma una registrazione del desiderio di essere visto.

    Ogni inquadratura pulsa come se qualcuno stesse tentando di emergere da dietro lo schermo, di bucare il velo che separa la realtà dalla sua copia. Fakefriend costruisce un mondo dove i personaggi esistono solo quando vengono osservati, e scompaiono appena la camera si ferma. Il protagonista, un tecnico del suono che non appare mai interamente, cerca di cancellare se stesso dal montaggio, ma più taglia, più il film si moltiplica. È l’incubo perfetto dell’epoca digitale: la rimozione diventa duplicazione, l’assenza genera archivi.

    Nel sottotesto, la pellicola parla del lavoro invisibile, di chi produce immagini per un sistema che non lo riconosce. I crediti scorrono all’inizio, non alla fine, come una dichiarazione di sconfitta: l’opera appartiene già a un algoritmo, non all’autore. Tutto è già stato caricato, schedato, monetizzato, prima ancora che il film esista. È la logica del capitalismo assoluto — non più lo sfruttamento del corpo, ma della sua traccia digitale.

    Quando, a metà film, la voce narrante dice “if I stop recording, I disappear”, l’affermazione non è poetica, è economica. L’identità non è più un dato interiore, ma una continuità di connessioni: se la macchina si ferma, il soggetto muore. L’unico modo per salvarsi, allora, è auto-cancellarsi in diretta, smettere di esistere sotto gli occhi del mondo, diventare ciò che il titolo promette: un’assenza attiva, una negazione.

    Le ultime immagini mostrano la camera che riprende un monitor, che riprende un altro monitor, fino all’infinito. Un loop che brucia lentamente come una bobina senza fine. Niente si conclude, perché niente comincia davvero. L’unico evento, l’unico gesto rivoluzionario, è l’interruzione — lo spegnimento. E in quell’istante, forse, il film diventa finalmente vero: do not exists.