Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • Departures: Yojiro Takita

    Departures: Yojiro Takita

    Un film che ci porta alla scoperta delle antiche cerimonie giapponesi di preparazione dei defunti, il “Nokanshi”

    Una pellicola che ha diviso critica e spettatori in due opposte fazioni. La prima che lo considera un capolavoro cinematografico che tocca il cuore, con tutti gli ingredienti giusti: bellezza, musica, morte e abbandono. E la seconda che lo ritiene sopravvalutato. Se le uniche due certezze nella vita sono la morte e le tasse, allora Departures, di Yojiro Takita, film vincitore dell’Oscar 2008 come miglior pellicola straniera, è una certezza fondamentale, arricchita di profondo e macabro umorismo.

    Al centro della vicenda c’è Daigo (interpretato da Masahiro Motoki) giovane violoncellista costretto a lasciare il suo agognato lavoro in un’orchestra sinfonica di Tokyo, che viene sciolta per mancanza di fondi. Distrutto e deluso ammette, con riluttanza, a sua moglie, Mika (Ryoko Hisosue), di essere sprofondato nei debiti per l’acquisto del suo violoncello. Senza vedere all’orizzonte nessun’altra via d’uscita vende lo strumento, e torna alla sua sonnolenta città natale, nella casa che gli ha lasciato la defunta madre.

    Mika accoglie con gioia questo grande cambiamento nelle loro vite. È affascinata dalle storie e dai ricordi che la vecchia casa contiene. Soprattutto cerca di capire i motivi che si celano dietro all’allontanamento del padre di Daigo, che ha lasciato la famiglia quando lui aveva solo sei anni. Abbandono che lo ha profondamente turbato. Alla ricerca di una nuova carriera, Daigo risponde a un annuncio intitolato “Departures” (partenze), pensando si tratti del settore viaggi – in effetti lo è, ma si riferisce soltanto all’ultimo viaggio! ;-) Al momento del colloquio realizza, invece, che l’annuncio ha un errore di stampa: avrebbe dovuto trattarsi di “The Departed” (defunto).

    Il proprietario della società, Sasaki (Tsutomu Yamazaki – già presente in The Funeral di Juzo Itami), un uomo di poche parole, è un artista maestro del nokanshi”, cerimoniale funebre tipico giapponese. Attratto da un lauto stipendio e costretto dalla necessità, fa buon viso alle difficoltà iniziali e – pur inizialmente inorridito dalla realtà del suo lavoro – decide di accettare. Vergognandosi della sua nuova posizione, lo tiene segreto a moglie ed amici, fino al momento in cui Yamashita (Tetta Sugimoto), uno dei suoi amici d’infanzia, lo scopre e comincia ad evitarlo, stigmatizzandolo come a volerlo declassare ad un livello sociale inferiore. Anche Mika lo umilia e gli chiede di dimettersi perché lo trova “impuro”; vuole che abbia un lavoro “normale“, affermazione alla quale lui risponde “la morte è normale”.

    In questo passaggio è evidente la sostanziale differenza di concezione della morte, tra occidente ed oriente. Se fosse in occidente nessuno ci presterebbe particolare attenzione, e tutto si risolverebbe con una “toccatina” apotropaica e qualche battuta usurata. In Giappone, invece, la cosa ha ben altro senso: il rituale funebre, il legame con i morti, il tessere intorno a loro una specie di seconda vita con la cerimonia del “nokanshi”, è parte integrante e forte di quella cultura (da vedere, per esempio, la bellissima sequenza di Vivere di Kurosawa).

    Dopo il primo momento di rifiuto e disgusto, quasi una paura di contaminazione che forse ci detta anche l’istinto di sopravvivenza, che vuole allontanare il più possibile il contatto con la morte, Daigo comprenderà non solo l’importanza della compassione, ma anche quanto sia sottile la linea che separa vita e morte, anzi quanto facilmente si possa annullare la divisione per arrivare a capire che sono complementari: due facce della stessa medaglia. Emblematica in tal senso è la scena dei due salmoni che risalgono a fatica il fiume sfidando la corrente contraria, mentre uno, morto, ridiscende. Daigo si domanda il perché di tanto sforzo solo per andare a morire, e l’anziano che gli è accanto risponde che i salmoni vogliono morire laddove sono nati. Ogni cosa finisce dove è iniziata: Daigo diventerà un abile tanato-esteta.

    L’accurato cerimoniale inizia con la pulizia-purificazione del cadavere (senza che chi assiste veda anche un solo lembo di pelle), per prepararlo a iniziare il suo nuovo percorso, e proseguire riportando la bellezza della vita nei volti sfigurati dalla morte: come un ultimo gesto d’amore sia verso i defunti, che così manterranno la loro bellezza per sempre, ma soprattutto per coloro che li avevano amati, che potranno mantenere il ricordo di com’erano in vita i loro cari. Per completare il viaggio alla ricerca di se stesso e dell’armonia a Daigo manca un ultimo passaggio, quello della riconciliazione con il padre che lo aveva abbandonato da piccolo, e contro il quale mantiene il forte rancore di chi si sente rifiutato.

    Tra le scene ricorrenti c’è quella di Daigo bambino che suona il violoncello in riva al fiume, e dello scambio di due sassi tra padre e figlio, con la promessa, poi non mantenuta, che ce ne sarebbe stato uno ogni anno. Il significato di questo scambio di sassi resterà indelebile nella sua memoria, a differenza del volto di suo padre, che pur sforzandosi Daigo non riuscirà a ricordare.

    Ed è qui che appare evidente che Departures è anche un bell’esempio di come possa evolvere il complesso paterno. Questo spiega, a sua moglie mentre le porge un sasso:

    Nell’antichità, quando gli uomini non avevano la scrittura, per comunicare cercavano un sasso la cui forma esprimesse i loro sentimenti e lo inviavano ad un’altra persona.  Chi lo riceveva, dalla sensazione al tatto e dal peso capiva i sentimenti di chi lo aveva inviato. Un sasso liscio, per esempio, per comunicare serenità d’animo e felicità. Uno ruvido e spigoloso trasmetteva preoccupazione per l’altro”.

    Era questo che gli aveva spiegato suo padre: e quel sasso avvolto nello spartito e conservato con il violoncello era il sasso parlante che lui gli aveva dato.

    Daigo è arrabbiato: “Il fatto era che ci saremmo scambiati un sasso parlante ogni anno, alla fine, solo quella volta. Che idiota!”. Mentre ascolta la musica preferita del padre ha quel sasso tra le mani, ci giocherella, non riesce a staccarsene. L’energia è tutta lì, sia per odiare, ma anche per una specie di speciale attrazione che lo fa stare lì, su questa sua parte non risolta. “Mia madre mi ha allevato completamente da sola” dice Daigo. “Mio padre non è altro che un verme. Gestiva un piccolo caffè, ma poi è fuggito con la cameriera ed è scomparso: un padre inesistente.” Alla domanda “chissà cosa farà ora” lui risponde: “sarà già morto da tanto tempo” – “Se tu lo rincontrassi?” – “Lo picchierei”. Daigo racconta la sua ferita, ed i suoi commenti sul padre sono carichi di rabbia. La signora del bagno pubblico, vecchia amica di sua madre, confida alla moglie di Daigo:”Quando i suoi si sono separati, davanti alla sua mamma lui non ha mai pianto, mai, neanche una volta. Ma quando veniva qua ed era solo, piangeva, vedevo le sue spalle ossute scuotersi per i singhiozzi.

    Un dolore vissuto da solo, non condiviso, che ha scavato nel profondo e si è incistato chissà dove. Una ferita alimentata negli anni non solo dalla perdita del padre, ma anche dal dolore vissuto dalla madre. È tutto fermo lì. Fino al momento dell’incontro con il padre defunto. Quello che all’inizio era una negazione, diventa una possibilità. Arrivato a cospetto del cadavere di suo padre, un pescatore gli rivela aspetti di quell’uomo a lui sconosciuto. Un uomo che è arrivato da solo, ed è sempre stato solo.

    Non so da dove venisse. Era comparso in città un giorno. Era solo. Qua al porto si è sempre dato un gran da fare… era taciturno… era difficile strappargli una parola.

    Daigo si interroga:

    Che significato avrà mai avuto la vita di quest’uomo? Ha vissuto per più di settant’anni, e quello che lascia è una scatola di cartone”.

    All’arrivo degli addetti delle pompe funebri, che approcciano il defunto con i loro modi frettolosi e irrispettosi, si infastidisce e li ferma. Decide di preparare lui la salma.

    E qui l’incontro.

    Quei gesti di accudimento lo portano a scoprire, che suo padre è morto stringendo tra le mani il sasso che lui, bambino, gli aveva dato tanti anni prima. E qui si sciolgono tutte quelle emozioni rimaste congelate per anni, scendono le lacrime, cautamente, con pudore, Daigo finalmente sente il dolore di tutto quello che è mancato, a lui e a quest’uomo che ha appena incontrato. Pian piano il volto del padre si ricompone anche nel suo ricordo. Adesso che ha rincontrato suo padre, potrà anche lui essere padre.

    Questa pellicola, è innegabile, ha una sua originalità e una gradevolezza che viene da una piacevole mistura di umorismo e malinconia, soprattutto nelle prime scene. Nei primi piani del viso di Daigo, nelle sue smorfie, nei suoi continui spiazzamenti rispetto agli eventi della vita, nella ricostruzione puntuale del rito del “nokanshi”, nei tipici paesaggi nipponici (ciliegi fioriti che contrastano cime innevate, e l’immancabile monte Fuji).

    Si tratta di un’opera ben diretta, senza dubbio in grado di coinvolgere e commuovere lo spettatore. L’impianto narrativo studiato da Kundo Koyama, autore della sceneggiatura, segue perfettamente i dettami classici di scrittura: il percorso di crescita morale e di maturazione del protagonista procede attraverso un’ininterrotta sequela di ostacoli da superare.

    Unica pecca di questa pellicola: il netto contrasto tra incipit convincente e finale riscattato da un pathos in grado di coinvolgere anche i cuori più pietrificati, e un lungo segmento centrale eccessivamente statico, che inceppa il marchingegno narrativo e poi frana nella lunga digressione musicale che vorrebbe segnalare al pubblico lo scorrere del tempo. Per quanto la componente antropologica e sociale a cui fa riferimento sia intrisa fin nei minimi dettagli di cultura giapponese, Departures potrebbe definirsi un film hollywoodiano, nella sua perfetta parabola umana di caduta e rinascita, nonché di accettazione della propria memoria e della propria storia.

    Qualcuno ha addirittura definito questo film “politicamente scorretto”, perché osa parlare della morte in una società che tenta in ogni modo di allontanarla dall’orizzonte umano. Uno scandalo, in un mondo alla ricerca della ricetta dell’eterna giovinezza. Per questo è stata coraggiosa la scelta dei giurati dell’Academy Awards di premiare Departures con l’Oscar come miglior film straniero, avendo in lizza pellicole importanti come “La classe” (Palma d’oro a Cannes) e “Valzer con Bashir” (Golden globe).

    Coraggiosa anche la decisione di Takita di girare un film in cui la vera protagonista fosse la morte. Takita, regista che non definirei indimenticabile, con questo film sforna la sua creatura migliore, la più compatta ed evocativa. Affronta l’estrema nemica da un punto di vista originale, mettendo sul piatto della bilancia un carico di emozioni con le quali diventa veramente arduo non empatizzare, un perfetto equilibrio di tragedia compassionevole e umorismo grottesco molto ben raffigurato e sapientemente gestito.

    Un film sulla morte che riconcilia con la vita e con il ricordo dei propri cari che non ci sono più. È a loro che va l’ultimo pensiero, con le parole del regista Yojiro Takita:

    “è destino di tutti accompagnare qualcuno, è destino di tutti essere accompagnati”

    Il funerale in Giappone

    Le usanze funebri giapponesi variano molto da regione a regione, anche se alcuni aspetti sono standard in tutto il paese. Il 91% dei funerali giapponesi viene celebrato secondo la tradizione buddista.
 Subito dopo la morte, i parenti inumidiscono le labbra del defunto con acqua. Quando si verifica un decesso, i santuari all’interno delle abitazioni giapponesi vengono chiusi e coperti con carta bianca, per tenere lontani gli spiriti impuri. Talvolta viene posto un pugnale sul petto del defunto per scacciare gli spiriti maligni.

    Vengono posti anche un kimono bianco tradizionale, una fascia bianca con un triangolo al centro, sandali e soldi per pagare il pedaggio attraverso il fiume dei tre inferni, come vuole la tradizione buddista. 
Il corpo viene sistemato davanti all’altare di famiglia, mentre il parente più prossimo veglia accanto ad esso, fino al momento della sepoltura, senza lasciarlo mai da solo. Gli ospiti che giungono alla veglia per offrire le loro condoglianze lasciano una busta speciale avvolta da un nastro bianco e nero, contenente soldi: l’importo varia a seconda del grado di parentela dell’ospite e viene indicato all’esterno della busta, poi si avvicinano al feretro, suonano il campanello dell’altare e pregano.

    Una tavoletta di legno con inciso il nome del defunto viene posta sull’altare o davanti ad esso: si tratta del nome postumo assegnato dal sacerdote. Il nome postumo, o kaimyo, è un nome diverso da quello che la persona ha avuto in vita, e che si suppone aiuti ad evitare che il defunto ritorni ogni volta che viene pronunciato il suo nome. La lunghezza del nome dipende anche dalla durata della vita della persona, o più comunemente, dall’entità della donazione dei parenti al tempio: non è raro che alcuni templi facciano pressione sulle famiglie per l’acquisto di un nome più costoso. Le salme vengono cremate.

    I membri della famiglia assistono mentre la bara procede verso il fuoco e attendono che venga comunicata l’ora per andare a ritirare i resti. La famiglia torna poi a casa facendo un percorso modificato, per evitare che lo spirito del defunto segua la famiglia verso casa. Al momento stabilito, ad ognuno dei membri viene dato un set di bacchette per raccogliere i resti e posizionarli nell’urna. L’addetto di solito indica quali sono i pezzi importanti da raccogliere. Le ossa dei piedi vengono raccolte per prime, per ultime quelle della testa, questo per garantire che il defunto non sia a testa in giù nell’urna.

    Questa operazione viene effettuata contemporaneamente da tutti i membri della famiglia; questa usanza spiega il perché, quando due persone prendono un pezzo di cibo allo stesso tempo con le bacchette, esse tendano a ritrarsi immediatamente, in quanto ciò avviene unicamente per porre i resti di un defunto nell’urna.

    Titolo originale: Okuribito – (おくりびと)


    Traduzione letterale: “Persona che accompagna alla partenza”


    Genere: drammatico, psicologico


    Paese: Giappone


    Durata: 130 minuti


    Anno di uscita: 2008


    Tratto: storia originale, ma liberamente ispirata dal libro “Coffinman: The Journal of a Buddhist Mortician” di Shinmon Aoki

    Regista: Yojiro Takita


    Sceneggiatura: Kundo Koyama


    Musiche: Joe Hisaishi

  • Martyrs: l’horror viscerale e imprevedibile di Laugier

    Martyrs: l’horror viscerale e imprevedibile di Laugier

    Una bambina, in fuga da una fabbrica abbandonata, viene accolta in un orfanotrofio. Anni dopo, la vediamo da adulta irrompere in una casa, armata di fucile a pompa. Mentre l’amica di sempre si affretta a raggiungerla, una domanda assilla lo spettatore: per quale motivo la ragazza sta agendo così?

    In breve. Singolare storia thriller ad innesco multiplo, convulsa, imprevedibile, avvincente quanto ricca di momenti decisamente cruenti (non sarà facile guardarlo per intero). Il punto da focalizzare non è tanto l’osare, il trasgredire chissà quale tabù, quanto l’immettere in circolo un messaggio preciso e, a suo modo, ancora rivoluzionario. Il “gioco” di Laugier sembra essere quello di fare concetto sull’idea di martirio: A serbian film si è spinto anche oltre, ma qui non si scherza neanche.

    Non faccio parte dell’elite che scrive sui magazine e forma gran parte delle opinioni sui film; tantomeno mi piace cercare sottotesti quando non ce ne sono, anche se – senza una vera consapevolezza – della volte finisco per farlo lo stesso. Per queste ragioni vorrei improntare la mia recensione instradandola sui giusti binari da subito, dato che le cose da evidenziare in Martyrs sono tante, ed è molto facile divagare e perdersi in discorsi futili.

    Per analizzare il film mi sono basato su un’intervista a Laugier disponibile ancora oggi su Youtube, che parte da un’osservazione fondamentale: da Scream in poi, piaccia o meno, è nata una corrente di horror che (triste da riconoscere) sembra non credere più alle storie che racconta. A differenza dei classici dell’exploitation anni ’70, della corrente satanica e di poche, lodevoli eccezioni analoghe, la rappresentazione del terrore è diventata sempre più “popolare”, più legata a stereotipi di genere, fumettistici quanto a loro modo ammorbidenti, collocando spesso la narrazione su situazioni facili da prevedere, stereotipate, a prescindere. Il famoso caso in cui “si strizza l’occhio al pubblico” per accattivarsene i favori, e farlo al limite sentire più intelligente della media è tutto qui: ed è proprio ciò che Martyrs, senza dubbio, non è.

    Questo mi sembra il presupposto fondamentale per capire appieno lo spirito di “Martyrs“: in molti altri film si era fin troppo consapevoli che si trattasse di finzione e questo, secondo il regista, ha contribuito a smaliziare il pubblico e a renderlo (aggiungerei) particolarmente maleducato – nel senso di “non educato al Cinema“. La reazione a questo malessere, legato a problemi personali del regista, è stata la stesura di questa allucinante storia – e con risultati del tutto positivi.

    Martyrs“, a dispetto di chi ne ha criticato la violenza gratuita – manco fosse il più insulso dei naziploitation, è un horror molto complesso nel suo concepimento e, forse proprio per questo motivo, facile preda di banali critiche nazional-popolari, quanto a ben vedere affascinante. La recensione che segue potrebbe contenere, inevitabilmente, qualche micro-spoiler inevitabile, a cui ho badato, in una successiva revisione dell’articolo, a fare in modo che non fosse eccessivamente “compromettente” (nota di maggio 2022).

    Il regista francese Pascal Laugier, classe 1971 – che qualcuno ricorderà per “Saint Ange“, lavoro parzialmente sulla falsariga di The ward e Session 9 – è partito da uno scenario tipico nel cinema di genere (una storia di vendetta, un po’ alla Tarantino verrebbe da dire), per poi sviluppare la trama su altro, mediante una sequenza di colpi di scena uno più devastante dell’altro. E sa farlo, questo è innegabile. Il film possiede una capacità di inchiodare lo spettatore alla poltrona sfruttando situazioni sempre poco prevedibili, poco scontate, molto poco banali. E dire che la storia, al di là dei minuti iniziali, si sviluppa con un caso di “già vista” violenza casalinga apparentemente motivo, che finisce per fare da inquietante preavviso per il pubblico.

    Perchè Martyrs?

    Per martirio si intende, per definizione, il sacrificio della vita accettato in nome di una fede: un concetto che è risuonato minaccioso negli ultimi eventi che abbiamo vissuto a livello mondiale, dopo il collasso delle superpotenze polarizzate ed il consolidamento delle post verità personali. Laugier parla soprattutto del martirio accettato dai seguaci di una religione ma il discorso, ad oggi, potrebbe estendersi a qualsiasi credo politico, per dirla alla Zizek (o Lacan) un Grande Altro, foriero di perenne tensione morale e psicologica quanto, alla fine dei conti, identificabile con qualsiasi ideologia o principio ispiratore della propria vita.

    Dicevamo la complessità di Martyrs e questo, sia ben chiaro, deve essere messo in chiaro per evitare di descrivere ciò che il film non è: Laugier ha svolto un gran lavoro di ricerca etimologica sul martirio e sulle sue implicazioni di significato, a livello religioso come culturale. Per chi ama l’horror non dovrebbe essere neanche una novità, alla fine: per quanto si possa apprezzare ad esempio Cronenberg e la sua profondità concettuale, o anche solo “divertirsi” con mostri, serial killer o famiglie dedite al cannibalismo (anche qui il rischio banalizzazione è dietro l’angolo, come detto all’inizio), non sarà facile per il pubblico medio accettare un film come “Martyrs“. Che di una violenza considerevole non fa mistero, ma la usa sempre in modo funzionale al titolo: il martirio possiede una connotazione liberatoria, pura, angelica, tanto da renderlo realmente inquietante, come pochi altri titoli. Un qualcosa che riprende, a livello di linguaggio, la tradizione dell’orrore pulp e low-cost, quello che va bene a patto che sia realistico (Le colline hanno gli occhi, L’ultima casa a sinistra), prendendo le distanze dall’horror più scanzonato o “fumettaro”.

    Specialmente in tempi di crisi generalizzata come quelli che viviamo, il pubblico ha poca voglia di speculare e riflettere su ciò che ha visto – e tanta di cannibalizzare pellicole giusto per “fare numero”, per cui quando un film come questo ha qualcosa di serio da raccontare, è paradossale che il contenuto passi in secondo piano per parte del pubblico. Del resto la regia è solida, la sceneggiatura non fa una grinza e le interpretazioni sono tutte ineccepibili: Martyrs possiede un ritmo da film perfetto, ma per capire appieno quello che si è visto occorre pazientare un’ora e mezza, e a quel punto non sarà facile non distogliere lo sguardo. La violenza che sprigiona da circa la metà dei fotogrammi padroneggia e domina lo spettatore, mostrandogli sangue, umiliazioni e sottomissione psico-fisica che, come si scoprirà, sono dovute ad una vera e propria setta religiosa che finalizza la sofferenza del martirio, per l’appunto, alla ricerca dell’Aldilà e a spese delle povere vittime.

    Martyrs prende spunto (anche) da Clive Barker

    Se state pensando ad Hellraiser – il dolore per sublimare il piacere – siete quasi sulla giusta strada, in effetti, anche se qui le conseguenze sono spinte in modo molto più contemplativo, realistico e profondo di quanto non avvenga nel capolavoro di Barker. In tal senso i paragoni con Hostel di Roth sono fuori luogo (qualcuno ha equivocato in tal senso, in effetti) se non per la dinamica delle torture, aspetto secondario rispetto ai contenuti effettivi del film, che vanno al di là di una mera o compiaciuta pornografia dell’horror. Rimane forse come tratto comune tra queste ultime pellicole la sofferenza dell’uomo vista come un qualcosa di catartico, liberatorio e purificatore: l’asceta/vittima diventa un privilegiato, un essere superiore da idolatrare perchè del tutto immune al dolore, e sulla via della conoscenza. E se il mostro che hanno creato è così, è chiaro che sarà terribilmente più spaventoso di qualsiasi altro.

    Martyrs e il torture porn

    Ho letto che molti hanno scomodato il termine torture porn, espressione abusatissima fino a qualche anno fa in questo ambito, ma in questo caso la locuzione – per quello che vale – è assolutamente fuorviante ed inesatta: la violenza che subiscono le vittime di Martyrs non provoca piacere a nessuno, ma è comunque liberatoria, serve a far raggiungere uno status privilegiato (quello di martiri, ovviamente nella mente contorta degli aguzzini), e questo rende automatico riportare il discorso verso le varie forme di fanatismo (religioso ma anche, come dicevamo prima citando Lacan, politico e sociale).

    Altro colpo di genio, del resto, è il fatto di rappresentare una inquietante micro-società auto-organizzata, nella quale le giovani sono lentamente massacrate anche da altre donne, mediante violenza subdola ed arrivando a perdere progressivamente i propri tratti di femminilità. Una chiave di lettura che, a suo modo, richiama metamorfosi cronenbeghiane (per non dire kafkiane) ma anche il Potere brutale rappresentato dal celebre “Salò” di Pasolini, altro film molto apprezzato da diversi amanti dell’horror per quanto anch’esso propenso ad essere mal giudicato, per via di una forma che finisce per sovrastare la sostanza.

    Servono sicuramente anche film del genere, saggi di psico-horror o horror sociale che dir si voglia, e serve rivedere film del genere con uno spirito di ricerca: con più pellicole come Martyrs, probabilmente, non cambierebbero di una virgola le incomprensioni tra detrattori ed estimatori a priori ma – se non altro – la dignità del genere horror sarebbe sicuramente più preservata.

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  • Supervixens: la summa dei film Russ Meyer

    Supervixens: la summa dei film Russ Meyer

    Clint è il prototipo di “bravo ragazzo” onesto e lavoratore, fidanzato con la splendida SuperAngelica: una formosa ragazza tanto focosa quanto ferocemente possessiva. Un litigio particolarmente pesante tra i due darà inizio ad una pazzesca avventura erotica del protagonista…

    In due parole. “The sum total of all my films“, la summa erotica dell’arte meyeriana, priva dei fronzoli dei precedenti lavori ed incentrata su due aspetti: omaggiare la bellezza femminile come valore assoluto, e deridere la remissività del maschio represso medio. Il risultato finale, diluito in due ore che difficilmente riusciranno ad annoiare, sarà un vero spasso.

    Lanciato da una tagline all’insegna dell’eccesso (“Troppo… per un solo film“) “Supervixens” di Russ Mayer è probabilmente uno dei migliori film del famoso cineasta: un artista che seppe conferire un minimo di rilievo artistico ad un genere, quello erotico-pornografico, che tradizionalmente è ritenuto dalla “critica seria” di scarsa ampiezza e valore. Mayer sovverte questa convinzione mantenendo un tono scanzonato ed auto-ironico, per certe trovate strizzando l’occhio a certe trovate alla Monty Python, con grande stile.

    E come se non bastasse, realizza tutto questo mediante uno script costruito in circa una settimana, concretizzando una fotografia fuori dagli standard e – ci mancherebbe altro – sempre da vero amante delle più prosperose curve femminili. Tanto che, in questo film, delizia il pubblico con ben sei bellezze maggiorate: la mora Uschi Digard della locandina, Christy Hartburg, Colleen Brennan, Deborah McGuire, Haji – già vista in Motorpsycho e Faster pussycat… kill, kill! – e la splendida Shari Eubank, che interpreta il doppio personaggio SuperAngel / SuperVixen.

    Non c’è il tempo di cercare sottotesti o messaggi subliminali tra le immagini, di fatto, perchè l’intento è “solo” quello di far godere il pubblico, e questo mediante una visione erotizzata, umoristica, movimentata, estremamente allusiva per quanto – rispetto agli standard odierni – praticamente mai esplicita. Se alcune sequenze hanno certamente fanno scuola nel seguito della cinematografia di genere, l’inquadratura di seni giganteschi e  falli sproporzionati di alcuni protagonisti (che probabilmente provocarono il divieto del film ai minorenni) potrebbe ormai essere parte di un “ordinario” demenziale-erotico di oggi, ed in questo Meyer mostra di essere stato un fiero precursore: un po’ come il collega italiano Joe D’Amato, il quale – a prescindere da fenomeni di successivo cultismo dei suoi film – ha semplicemente saputo dare al pubblico quello che desiderava.

    Sfondando le porte delle ordinarie convenzioni, e liberandosi di qualsiasi sciocca inibizione (siamo pur sempre nella metà degli anni 70), Meyer immagina la storia del timido Clint Ramsey, benzinaio letteralmente sottomesso alle volontà di SuperAngelica, con la quale litiga perennemente per via della gelosia di lei. Dopo uno scontro particolarmente violento – la donna gli distrugge la macchina a colpi di ascia in una sequenza che rappresenta una sorta di proto-pulp – inizia un lungo peregrinare che fa diventare “Supervixens” un road movie erotico, una sequenza di avventure porterà il protagonista, dopo mille peripezie, verso la sua vera donna ideale (SuperVixen, neanche a dirlo).

    Tormentato fino al parossismo da splendide fanciulle che sembrano non aspettare altro che saltargli addosso (Meyer nel farlo, peraltro, abolisce l’idea di mercificazione del sesso, evidenziandone l’aspetto sano, di puro divertimento: in questo effettua a mio parere uno smacco considerevole verso qualsiasi possibile accusa di sessismo), l’operaio Clint vivrà all’interno di una specie di sogno/incubo ad alta densità erotica, caratterizzato dall’esaltazione di corpi femminili in bella vista e, ovviamente, da rappresentazioni grottesche e decisamente acrobatiche dell’atto sessuale (ad esempio la copula sulla cima di una montagna).

    Il linguaggio scelto, del resto, riesce a rendere “Supervixens” diverso da un porno vero e proprio, nel quale invece il tutto è focalizzato in modo totalitario sull’aspetto sessuale e sui primi piani, con tanti saluti alla trama ed al ritmo del film stesso. Il sesso, se ci fosse bisogno di scriverlo, per quanto assuma una valenza fondamentale non è certamente l’unico elemento di spicco, visto che sussistono elementi di pura explotation (l’omicidio nella vasca da bagno, crudele ed improvviso, sembra in parte precursore degli omicidi della saga ottantiana Venerdì 13).

    Tuttavia il tono cartoonesco della pellicola, ricca di momenti realmente spassosi nei quali la risata è quasi sempre dovuta ad una presenza femminile dominante, contribuisce a rendere il film gradevole, interessante e mai noioso. La cosa è talmente evidente, nonostante qualche inevitabile istante di calo, che non ci si capacita di come un film di due ore possa non provocare questo effetto in nessuna sequenza. Il quadro che ne risulta, per quanto volutamente grottesco ed estremizzato, non è in fondo troppo distante da alcune realtà che conosciamo, anche se naturalmente sarà difficile che lo si possa ammettere e ci sarà qualcuno che parlerà per forza di esagerazioni, quando non di sessismo.

    Del resto il tono gioioso che accompagna l’intero film serve a sdrammatizzare il tutto, e a rendere la visione di “Supervixens” indispensabile per conoscere un esempio di cinema “leggero” – nel senso di poco impegnativo – e, al tempo stesso, non banale.

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  • La morte ha sorriso all’assassino: l’horror gotico di Massaccesi del 1973

    La morte ha sorriso all’assassino: l’horror gotico di Massaccesi del 1973

    L’algida Greta sopravvive ad un incidente in carrozza, e si fa ospitare da una coppia di coniugi. Ma chi è veramente?

    In breve. B-movie con alcuni punti di interesse, minato da un montaggio poco comprensibile ed uno script tirato troppo per le lunghe. Incuriosisce ancora oggi, forse, ma va contestualizzato all’epoca e ai mezzi, oltre che al regista (Joe D’Amato di Buio Omega).

    Noto con svariati titoli tra cui Death Smiles on a Murderer, viene prodotto da Franco Gaudenzi ed è noto per essere stato il primo film in cui D’Amato si firma come Aristide Massaccesi, sfruttando un budget di 150 milioni di lire dell’epoca (1973). La villa che compare nel girato è Villa Parisi a Frascati, location di innumerevoli b-movie dell’epoca ed in parte riconoscibile da alcune inquadrature. La locandina del film ritrae una sequenza specifica, in parte rivelatrice della trama quanto debitrice dei classici di Edgar Allan Poe, citato più volte in tutto il film.

    La morte ha sorriso all’assassino potrebbe evocare un giallo classico, almeno a partire dal titolo, ma assume piuttosto la forma di un horror gotico, in cui montaggio e regia provano ad evocare qualche suggestione surrealista. Uno stile complessivamente lento, inesorabile e che insiste sui primi piani ai protagonisti, ognuno dei quali sembra custodire un segreto: sorvolando sull’ovvio (questo approccio lo fa sembrare un po’ datato, visto oggi), si nota come buona parte del suo fascino sopravviva intatta, soprattutto per il modo decisamente curioso di iniziare la trama e svilupparla, così come per il susseguirsi frammentario, apparentemente illogico delle prime sequenze. La figura di Greta von Holstein è meravigliosamente orrorifica, evoca quasi una delle Madri argentiane ed è un archetipo di personaggio: manipola la storia, seduce, uccide, cambia aspetto.

    Certo il film presenta dei limiti sostanziali – soprattutto a livello visuale, spesso molto artigianale, ma anche narrativo – ma al tempo stesso colpisce per un paio di trovate interessanti: in primis la figura mortifera di Greta (candida, sensuale e spaventosa al tempo stesso), la suggestiva festa in maschera (grottesca e quasi felliniana, ispirata a La maschera della morte rossa di E. A. Poe), la sepoltura in casa (un tributo a Il barile di Amontillado e Il gatto nero), le fattezze di Walter (coi baffi che richiamano molto l’aspetto dello scrittore statunitense), e poi il finale a sorpresa – che può sembrare artefatto nella sua bizzarria, ma chiude comunque il cerchio. Se il livello attoriale è accettabile, permane un intreccio scritto interamente da Massacesi-Scandariato-Bernabei interessante solo come idea, di fatto troppo diluito in sequenze insistite, astratte e interminabili. Peraltro alcuni trovate non sono il massimo (la sequenza del gatto citata nella locandina, il montaggio alternato sul viso normale / cadaverico) e più in generale lo splatter non sembra sempre giustificato dalle circostanze. A confronto con Buio Omega, del resto, si intuisce come l’approccio più congeniale al regista resti quello di storie sviluppate in modo più moderno (e più morboso, peraltro).

    La critica più sostanziale può essere ricondotta a La morte ha sorriso all’assassino, del resto, oltre alla curiosa scelta di sfruttare un gigante come Klaus Kinski per un personaggio che sembra (e che poi non è) centrale nella storia, si lega alla ricostruzione temporale della vicenda, presentata in modo anti-causale e che – almeno fino a metà film – sembra incentrata su una surreale vicenda romantica, che deve qualcosa al Dracula di Bram Stoker e qualcos’altro al Frankenstein di Mary Shelley. La narrazione prende una piega differente e non sempre è agevole seguire, con il risultato che molti potrebbero non capire, e che molte delle sinossi che si trovano sul web, tra blog anche autorevoli e Wikipedia, sono in parte fuorvianti (addirittura quella di IMDB non sembra troppo azzeccata: di fatto scambia una sotto-trama per la trama principale). Non mancano ovviamente i riferimenti ai grandi classici appena citati, e Massacesi mostra di ispirarsi ai migliori luoghi comuni dell’orrore classico: necrofilia, claustrofobia, allucinazioni. Con un po’ più di unità narrativa sarebbe stato un grandissimo film: così è solo un film non banale (ovviamente), ma non abbastanza focalizzato per parlare di un vero e proprio cult.

  • Mondo cane oggi: lo snuff in VHS zeppo di stranezze

    Mondo cane oggi: lo snuff in VHS zeppo di stranezze

    Di episodi strani ed anomali è pieno il web, ma il mondo movie rimane un genere decisamente a se stante: non è semplicemente e solo uno snuff (un filmato che mostra violenza o orrori autentici, senza trucco), ma è uno snuff commentato dal punto di vista di un pubblico snobistico che, per qualche incomprensibile motivo, ne dovrebbe godere. Ancora peggio di uno snuff, in sostanza.

    Di fatto, il mondo movie è un genere che oggi ha un senso decisamente limitato, al di là di qualsiasi gusto perverso in fatto di cinema; le videocassette in formato VHS come quella di Mondo cane oggi (disponibile ad oggi in streaming, edizioni Raro Video, su Prime Video) rappresentavano, probabilmente, l’equivalente anni ’80 degli orrori del sito Rotten e dei suoi innumerevoli epigoni. Questo shockumentary è, per la cronaca, il terzo della saga che era stata inagurata, con toni non dissimili ma quantomeno più sensati, nel 1962.

    I mondo erano in genere accompagnati da una voce narrante, modello cinegiornale di regime, che non si limitava a commentare ciò che passa sullo schermo, ma tendeva anche a distorcerlo, piegarlo al dettaglio rivoltante, al gusto per il disgusto, al dileggio a prescindere e, come se non bastasse, cimentandosi in battute che più improbabili non si poteva.

    Jacopetti in effetti era stato un po’ il padre putativo del genere mondo, e – al netto degli aspetti meramenti shockanti legati dal suo cinema, che rientrano puramente nel fine a se stesso – era se non altro un abile narratore, anche solo per la furbesca trovata di confondere gli episodi realmente avvenuti con quelli creati ad arte (per sembrare realistici).

    Il narratore di Mondo cane oggi, che coinvolge poco ed annoia abbastanza, non è purtroppo neanche accattivante, e l’ironia presunta dei commenti oscilla tra l’ostentazione di calembour sciapi, un sostanziale razzismo e via delirando. L’ottica narrativa insiste sui dettagli morbosi, in questo caso con un irritante gusto per il gossip, nell’ottica dello spettatore snob (e forse sul modello ignorante orgoglioso) che si sente vagamente superiore e non vede l’ora, per qualche strana ragione, di “godersi” spettacoli del genere.

    Quello che vediamo in Mondo cane oggi è, in altri termini, un’accozzaglia di episodi che slittano dal grottesco al disgustoso senza preavviso, con una costante: la voce monotona – e vagamente strafottente – del narratore. Il senso del film è solo uno: scuotere, turbare, shockare, anche a costo di dare spiegazioni spicciole o pseudo-intellettuali, che oggi etichetteremmo come fake news, sulla frigidità (che può avere certamente cause psicologiche, ma anche fisiche). L’erotismo di Mondo cane oggi risulta quasi imbarazzante, e in più occasioni, scivola inesorabile nel grossolano – ad esempio nel momento in cui le immagini di alcune sculture a sfondo sessuale vengono commentate, causticamente, dall’audio di un film porno.

    Formalmente tutte le immagini sono buttate lì, date in pasto ad uno spettatore che dovrebbe sapere bene che cosa sta andando a vedere, con il compito (?) di giudicare da solo. Ma il punto è proprio questo: il film sembra concepito per spettatori che bramano di meravigliarsene o inorridire, e questo, di per sè, fornisce una carta d’identità alquanto chiara sulla personas media che dovrebbe o vorrebbe guardarlo.

    Girato da Max Steel (lo Stelvio Massi di Squadra volante) e scritto da Gino Capone, il film mostra tra le altre cose: dei gauchos che si danno al singolare sport del lancio dell’anatra viva, una donna frigida che si sottopone ad un massaggio erotizzante (una banale scusa per un nudo integrale), nudisti che vengono ridicolizzati a prescindere, la macellazione di animali, un cadavere vivisezionato con dell’eroina all’interno, alcuni durissimi allenamenti di karate, una singolare forma di agopuntura riscaldata, il sangue crudo di serpenti e renne usate come afrodisiaco. C’è anche la sensazione soggettiva che, in molti episodi, la realtà non sia proprio quella raccontata dal commento audio, e che da alcune episodi emergano dettagli riferiti a cose o persone non esistenti.

    In fondo film del genere, dai meriti artistici senza dubbio molto discutibili, fanno emergere limiti e modalità usuali della censura. Per intenderci: non ci si creano scrupoli a mostrare animali scuoiati e uccisi in diretta, ad esempio, ma la sequenza che mostra i preliminari del sesso tra due donne ed una presunta “scuola di masturbazione” è stata quasi certamente tagliata (si percepisce che una frase del narratore resta a metà, per poi passare alla scena successiva). Ancora più assurdo se si pensa, ad esempio, che l’operazione di chirurgia al pene, di contro, viene mostrata esplicitamente per intero. Una riprova perenne di un qualcosa che forse non è mai cambiato: la censura, alla lunga, è sempre un’espressione arbitraria del pensiero di poche persone, e non è scontato che la loro sensibilità possa fare da “faro guida” per tutti gli altri (soprattutto nel medio-lungo periodo). Quindi possiamo provare a teorizzare, addirittura mediante un film borderline del genere, che la censura ha sempre e comunque poco senso.

    Inutilmente frustrante chiedersi, ad oggi, perchè si girassero film del genere, e perchè abbiano stuzzicato almeno una parte del pubblico avvezzo all’orrore, o all’orrido, in sè. Forse una forma di feticismo, più probabimente una contro-contro-cultura che esibiva un mondo disumanizzato magari per provare ad ostentare o rivalutare, alla meglio, quello in cui viviamo. Peraltro, il tutto avveniva con una sostanziale differenza rispetto agli orrori splatter che mostrarono alcuni film di Fulci e Joe D’Amato, che erano realistici quanto simulati (cosa che in questo film non sempre sono), e quantomeno provavano ad avere uno straccio di riferimento narrativo (che qui manca del tutto). Assistiamo ad una spettacolarizzazione orrida, per semplice giustapposizione, che rimane come mera testimonianza, da archivio (per così dire), e si dimentica con la stessa facilità con cui si prova a guardare.

    Le versioni in formato PAL Raro Video e EAHV sono entrambe uncut, e della durata complessiva di 75 minuti.