Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • Hard Candy: il thriller di David Slade stravolge le regole del genere

    Hard Candy: il thriller di David Slade stravolge le regole del genere

    Jeff e Hayley si conoscono in chat, e decidono di incontrarsi per la prima volta: tra di loro ci sono diciannove anni di differenza d’età.

    In breve. Thriller minimalista a tinte forti, girato in un asettico “appartamento degli orrori”. Da vedere, al netto di qualche lungaggine, di qualche nota pretenziosa e a patto che la violenza insistita (mai esplicita, ma intuibile) non vi risulti insostenibile.

    Hard candy rientra nel thriller claustrofobico come probabilmente tanti ne sono stati girati, ma con caratteristiche che lo rendono un unicum. Si tratta di un film dalle tinte decisamente cupe, girato in soli 18 giorni e quasi del tutto all’interno di un appartamento. Ci sono due soli personaggi, a differenza dei tre che popolano ad esempio La morte e la fanciulla, e interessante parallelismo (almeno in termini di tema principale) con l’opera di Polanski. Su tutti, il senso del dubbio che accompagna un processo giusto o sommario, indefinibile nella sua essenza e con un senso di risoluzione che lascia probabilmente più interrogativi che altro. L’idea di Slade è quella di interrogarsi su un inquietante what-if: cosa succederebbe se chi si prefigura come predatore non fosse realmente chi dice di essere? E se il predatore fosse invece la vittima?

    Il tutto a sottolineare un mood ossessivo ed inquietante per il primo lungometraggio di David Slade, noto anche per aver girato l’episodio interattivo Bandersnatch della serie Black Mirror. Poco budget e tanta qualità, da non perdere – seppur con qualche riserva. L’ispirazione della storia, per inciso, nasce dalla cronaca giapponese, secondo cui alcune ragazzine adescavano adulti via internet per derubarli o aggredirli, spesso mediante vere e proprie baby gang.

    È difficile parlare di questo film in termini assoluti, soprattutto perchè rifugge i meccanismi classici della narrazione, dello stesso rape’n revenge, dell’eroismo e di “togliersi un peso” – lo stesso che, solo alla fine, pervade addirittura pellicole nichiliste come The Human Centipede. Sono le specificità a farla da padrone nel lavoro di Slade: a cominciare dal tipo di riprese dettagliate, dalla fotografia magistrale ricca di primi piani, all’insistere su una recitazione fortemente drammatizzata (la sceneggiatura è scritta da Brian Nelson, americano che ha scritto molto teatro), dall’uso minimalista dei suoni e della colonna sonora, fino alla definizione di due personaggi per cui i ruoli – senza troppe sorprese, alla fine – si invertono.

    L’horror ci ha abituati suo malgrado, anche se non sempre, alle figure femminili vittime di “orchi” – alla meglio, diventavano scream queen coraggiose, violente quanto liberatorie. In Hard Candy, invece, Slade sembra prendere la storia come pretesto per mettere in risalto il problema della pedofilia, non in ottica puramente giustizialista (almeno, non del tutto) mostrando un’anti-eroina con cui può essere facile, o meno, identificarsi. Soprattutto se ci chiederemo a chi Hayley abbia scritto la mail raccontando dell’aggressione: alla baby gang di cui fa parte? Alla polizia che l’ha addestrata a dovere?

    Insomma un’ottica differnete dalla media, difficile da paragonare a qualsiasi altra cosa sia stata girata prima, e di questo ne va dato atto. Slade sembra comunque strizzare l’occhio ai revenge movie modello Prosperi e Craven, riprendendo quegli stessi eccessi – con la differenza fondamentale che, stavolta, il sadismo è di marca femminile, mostrando un adulto, con un certo bagaglio di esperienza (mite quanto insospettabile) contrapporsi ad una ragazzina dall’aria nerd, dalla natura infida e imprevedibile. Viene anche il dubbio, delle volte, di come una quattordicenne possa essere tanto attrezzata per seviziare la propria vittima, anche se qualcosa si intravede all’inizio fuoriuscire dalla borsetta (forse la pistola taser).

    Non c’è dubbio che Slade, poi, riprenda quanto era stato fatto in Funny Games, che – con le sue ville isolate ed i suoi adolescenti psicopatici pronti ad uccidere dietro l’aura del candore – presenta vari punti di contatto con Hard candy (termine, per inciso, è un modo slangato per indicare le minorenni che vengono adescate in chat). Il tutto con un aspetto importante da sottolineare: proprio come nel film di Heneke, non possiamo accertare il motivo della vendetta, o meglio lo conosciamo – ma non abbiamo prove certe. Ad ogni modo la revenge è cieca, e per questo terrorizza, e non rimane appesa inesorabilmente ad una coscienza collettiva, come avveniva ne La morte e la fanciulla. Il fatto che siano una ragazzina a torturare un adulto disorienta, ma viene comunque più volte il dubbio su chi sia la vera vittima e chi il reale carnefice.

    Se si volesse cercare un ulteriore difetto, poi, c’è da sottolineare che certi momenti sono troppo prolungati, e rischiano di risultare pleonastici: la fin troppo citata scena della castrazione, del resto, sembra raccontare di una parte di pubblico che implora per la conclusione della stessa – addirittura prima che il protagonista maschile si decida a farlo.

    “Solo perché una ragazzina sa imitare una donna, non significa che sia pronta a fare ciò che fa una donna”

    il meccanismo narrativo è affascinante, quanto subdolo: come in gran parte di La muerte y la doncella, non sappiamo se la vittima sia davvero responsabile, e nei panni di un invisibile avvocato Escobar, anche se lo meritasse fatichiamo a comprendere la situazione. Del resto vedere Jeff nelle mani di una teenager vendicativa (e forse poco realisticamente quasi invulnerabile) scatena un meccanismo di tensione raramente visto su schermo: basterà a fare un buon thriller? La risposta è, almeno in questa fase, che basta e avanza.

    Non c’è dubbio, poi, che molto della tensione psicologica vada a svilupparsi quando la protagonista rigira come un guanto la casa del fotografo, alla ricerca di prove della pedofilia di cui lo accusa. Prove che potrebbero esistere o meno: il messaggio di fondo è anche che ognuno possiede i propri scheletri nell’armadio, e la violazione della privacy di chiunque potrebbe portare a risultati inquietanti. Aspetto non banale che in pochi, in fase di analisi e critica, hanno osservato, a mio avviso.

    Hayley appare come un demone implacabile, scatenatore di una hybris (nel senso letterale di far “pagare le conseguenze del passato“), una vendetta feroce che, proprio come nella tradizione dell’antica tragedia greca, colpirà senza pietà e a prescindere. La cosa che potrebbe far sollevare qualche sopracciglio, del resto, è il sospetto che la vendicatrice anti-pedofila potrebbe essere una mitomane, che sta mortificando l’altro senza che lo stesso sia l’autentico responsabile. Non è chiaro, non sembrerebbe essere così, e forse poco importa: Hard Candy, per manifesto, si erge al di sopra di qualsiasi morale – e lo testimonia un finale tutt’altro che liberatorio. Questo, per inciso, non implica che non possa essere anche pretenzioso – o addirittura semplicistico – nel trattare un tema così delicato, cavalcando generalizzazioni magari improprie, troppo di “pancia” o biased.

    Hayley, in fondo, ammette di essere un “simbolo” di tutte le vittime della pedofilia, il che è una rivelazione ridondante: ci sta l’allegoria, ma ci si chiede anche perchè renderla didascalica. La narrazione A tale riguardo condivido e prendo in prestito la frase usata da Tim Brayton – in una recensione sarcastica,molto più critica della mia – dal suo sito AlternateEnding: “se un personaggio dovesse formalizzare in assoluto l’idea di rappresentare un gruppo o un classe, semplicemente non potrebbe farlo“. Il che è vero, per quanto se ne possa discutere, ed è probabilmente un limite narrativo che il film prova a sviscerare.

    Slade sembra comunque a proprio agio nell’impostare in questi termini la sua storia, che – al netto di almeno sei colpi di scena clamorosi – forma un buon film, un thriller sopra la media che vive, pero’, di un imprevedibilità diluita, spesso fine a se stessa. Ovviamente sarà importante vedere il film fino alla fine prima di esprimere qualsiasi giudizio, anche perché ribaltamenti di fronte saranno numerosi e, un po’ come nella tradizione argentiana o hitchcockiana, basta un dettaglio per ribaltare tutto. Ma resta l’idea che il bersaglio sia stato, in qualche modo, poco messo a fuoco.

    Dopo innumerevoli twist nella trama si arriva, dopo quasi due ore di film, ad un finale simbolico e angosciante – anche se pare ne esista uno più aperto ed ambiguo, ci racconta il regista nel commento audio. Hard candy è questo, un po’ come un film analogo (e altrettanto crudo) uscito l’anno prima – Mysterious Skin, per la verità forse tutt’altra storia. Blindato nella sua narrazione soffocante e minimale, caratterizzato da dialoghi molto curati e da interpretazioni di livello, minato imprevedibilmente da un’idea che non si capisce bene dove volesse arrivare. Ma in fondo, forse, va bene lo stesso.

    Hard Candy non è mai uscito in Italia (dato il tema trattato, non c’è troppo da meravigliarsene), per cui non esistono versioni doppiate, ma soltanto sottotitolate. Immagine di copertina di Bart ryker, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=1906180

  • Le Vergini di Dunwich (The Dunwich Horror): orrore lovecraftiano anni 70

    Le Vergini di Dunwich (The Dunwich Horror): orrore lovecraftiano anni 70

    Dunwich è il nome di un piccolo villaggio inglese della contea di Suffolk; nell’immaginario lovecraftiano che richiama il film, si fa riferimento all’orrore di Dunwich, una forza invisibile aliena che si manifesta agli esseri umani dopo molteplici presagi, nella forma di un mostro ciclopico dalle fattezze di una testa umana ingigantita. È il mostro che potrebbe, peraltro, a sua volta aver ispirato le caratteristiche de La cosa di John Carpenter, e su cui si è creato un vero e proprio archetipo del genere, a cominciare dalla presenza di un libro proibito scritto in crittogrammi, che scatenerà il villain infernale del titolo. All’interno di questo luogo, ancora oggi, vive la famiglia Whateley, di cui sono sopravvissuti solo due componenti che vengono visti, a causa di inquietanti precedenti, con grande sospetto dalla comunità cristiana del luogo. Tanto più che un loro avo, anni prima, sembra che sia stato assassino per via di alcuni esoterici culti a cui si dichiarava adepto.

    Parliamo di un film del 1970 storicamente poco amato dai fan dello scrittore, sul quale pero’ (da appassionato lettore delle sue opere) mi permetto di rilanciare e proporre una lettura diversa del film, con il quale certa critica a mio paree è stata poco appropriata. Tanto per cominciare un racconto di Lovecraft al cinema in genere è soggetto a più o meno libere intepretazioni, se vogliamo “licenze” registiche quasi sempre sgradevoli per i fan letterari: da Dagon a Re-animator, passando per Il colore venuto dallo spazio e Quella villa accanto al cimitero. La vergine di Dunwich , al contrario, sembra insolitamente coerente con il racconto, a cominciare dai personaggi e dalle atmosfere. L’orrore è pura idea, suggeriva Lucio Fulci in una celebre e citatissima intervista: e probabilmente questo film è un po’ la concretizzazione di quella frase. Il mostro che si manifesterà nel film, infatti, è una causa invisibile ed intangibile, di cui vediamo gli effetti ma non cogliamo la presenza, e viene brillantemente filmato come un villain in soggettiva, mantenendo una coltre di mistero, mai risolta, sul suo reale aspetto (tranne nel finale, solo per qualche secondo). Tanto del racconto di Lovecraft, coerentemente con lo script del film, è incentrato sull’ossessione frustrata dell’io narrante nel definire, senza riuscirci, la forma del mostro.

    La vergine di Dunwich fin da subito si permea di un alone di mistero: vediamo senza preamboli una ragazza sofferente a letto, assistita da quello che sembra un medico, in presenza di altre misteriose – e non meglio specificate – figure. È poi la volta della comparsa del protagonista, il sinistro Wilbur Whateley, in visita alla Miskatonic University alla ricerca del libro proibito dei morti: il Necronomicon.

    Il Necronomicon è il libro inventato, o pseudo-biblia, citato in più racconti lovecraftiani, scritto dall’arabo pazzo (Adbul Alhazred, molto probabilmente un gioco di parole con All Has Read, lett. “ha letto di tutto”) espressione dei rituali indispensabili per evocare i Grandi Antichi (gli “Anziani”, come vengono citati nel doppiaggio italiano), creature mostruose oltre che divinità aliene.

    Wilbur sembra essere ossessionato da questo libro, che vorrebbe freneticamente consultare o trafugare: si definisce uno studioso di scienze occulte, con obiettivi non esplicitati ma, al tempo stesso, con le idee chiare. La versione uncut del film, per la cronaca, è quella con alcune parti non doppiate (e sottotitolate), ed è in grado di esplicare molti dei dettagli necessari a cogliere il senso della storia raccontata. Tra le scene tagliate, ad esempio, emerge una sostanziale (e purtroppo consueta) arbitrarietà nel montaggio italiano: l’intero macabro rituale da parte di Wilbur, ad esempio, con tanto di riferimento a Yog-Sototh, è da gustare nella sua interezza, ma a quanto risulta il pubblico italiano dell’epoca ha potuto vederlo solo in parte.

    Originariamente annunciato come film assegnato a Mario Bava, venne poi girato da Daniel Haller, il quale conferisce un’atmosfera sinistra e occulta, oltre ad un fantasioso uso della fotografia, all’intero film. In tal senso il lavoro è molto lovecraftiano, abile a costruire un climax di tensione che poi, ovviamente, sarà destinato a crescere sul finale. La scelta registica è quella di non esplicitare la mostruosità del racconto, mantenendo una sostanziale fedeltà al mood di sospensione che lo caratterizza, il che è forse la caratteristica più appagante del film stesso – a differenza di altri epigoni dello scrittore di Providence che quasi sempre, anche senza malizia a volte, finivano per buttarla sul trash.

    L’orrore invece qui si svela progressivamente in forma di demoni-satiri grotteschi ed inquietanti, conferendo ad alcune sequente una sorta di allucinazione (da parte della protagonista femminile) dai caratteri prevalentemente horror-psichedelici. La musica di Les Baxter, in tal senso, è una scelta molto adeguata, e sembra anticipare – e potrebbe avere ispirato – quelle create da Fabio Frizzi per molti dei film fulciani più celebri, ovvero la cosiddetta Trilogia della Morte: L’aldilà, Paura nella città dei morti viventi e Quella villa accanto al cimitero.

    Vale la pena spendere qualche parola anche sul finale del film, che è di natura dichiaratamente ciclica: viene infatti ufficializzata la provenienza aliena della famiglia Wilbur, e mentre Nancy viene aiutata a scendere le scale del “giardino” in cui stava per completarsi il rituale di evocazione, la regia evidenzia che sia incinta di Wilbur, a voler evidenziare che la sua stirpe continuerà a propagare il male sulla terra. Questo, peraltro, spiega il perchè del suo interessamento verso la donna: poter dare continuità alla propria famiglia.

    Non sono poche le differenze con la versione letteraria, e quelle più rilevanti che ho trovato sono le seguenti:

    • la storia è ambientata negli anni 60, mentre nel racconto eravamo nel 1928;
    • parte dell’intreccio è una metafora della sessualità ritrovata (assente nel racconto), ed è incentrata su una vaga sessuofobia della protagonista (da cui la sua verginità), e sulla potente attrazione e condizionamento che Wilbur esercita nei suoi confronti;
    • Wilbur ha un ruolo differente, tant’è che nel racconto muore (nel tentativo di rubare il libro dei morti), ed è lì che si evidenzia la sua natura aliena; inoltre la sua relazione con il nonno è rappresentata in modo differente, rispetto al racconto;
    • c’è la figura di una donna sopravvissuta ad uno dei rituali magici precedenti, ormai impazzita e invecchiata precocemente, assente nel racconto ma decisamente azzeccata e affascinante;
    • i due assistenti uomini del professor Armitage, nel film, sono sostituiti da due donne, probabilmente per facilitare l’intrigo amoroso il quale, a sua volta, finisce per fungere da MacGuffin della storia;
    • gli Antichi sono rappresentati come streghe danzanti dalla forma umana, scelta forse semplicistica che farà rabbrividere (in senso negativo) i fan dello scrittore;
    • lo stesso mostro di Dunwich, dall’effetto ben più apocalittico nel racconto, nella versione cinematografica appare più ridimensionato, probabilmente per motivi di budget;
    • il mostro viene “allevato” da nonno e nipote in una soffitta esclusa dall’accesso di chiunque altro: nel film è una sorta di elegante palazzo gotico, nel racconto una umile fattoria. Vedremo a lungo solo una semplice porta che vibra, in omaggio all’essenzialità simbolista tipica degli horror del periodo.

    Per quello che valgono questo genere di confronti, ed in relazione al fatto che Lovecraft difficilmente avrebbe apprezzato il cinema in toto, emerge che la rilettura proposta nel film è più che accettabile, offrendo più di uno spunto degno di nota. Non credo del resto che esista un solo film nella storia del cinema che abbia potuto riprodurre in modo fedele un romanzo o un racconto, per cui tanto varrebbe porre la questione in termini differenti.

    Al netto di qualche interpretazione arbitraria (il Male lovecraftiano, a cominciare dai titoli, viene visto come una sorta di generico “demone satanico”, probabilmente per esasperare la contrapposizione con gli abitanti cristiani e non proprio di larghe vedute), il film è ricchissimo di suggestioni, simbolismi e scenari dal sapore esoterico, con un uso sapiente della fotografia – soprattutto nelle sequenze più orrorifiche – senza dimenticare che il mostro da rappresentare, originariamente, era quasi sempre invisibile e per questo, sostanzialmente, nel film viene rispettato.

    Su tutti, a parte gli archetipi classici del genere, ne La vergine di Dunwich emerge una componente di horror psichedelico molto originale, quasi innovativa per l’epoca e sfoggiata nella sequenza in cui una delle assistenti del professor Armitage apre la porta che custodisce la mostruosità, e vive il contatto con il mostro come una specie di allucinazione caleidoscopica fatta di urla disperate ed immagini colorate e convulse, che potrebbe quasi essere tratta da Il serpente di fuoco, il film su un trip da LSD diretto dallo stesso Roger Corman che qui è solo produttore, ma che forse non avrebbe sfigurato alla regia.

    E anche la metafora amorosa e sessuale alla base dell’intreccio, da cui trasuda una sincera sensualità mai fine a se stessa (Sandra Dee non volle apparire nuda, per cui ricorse ad una controfigura per scene che, ad oggi, non risulterebbero certo pornografiche), sembra sposarsi perfettamente con il clima del film, che evoca per certi versi il feeling degli “amori impossibili”, tipici della letteratura gotica a partire dal Dracula di Bram Stoker.

  • Giallo all’italiana: “Cosa avete fatto a Solange?”

    Giallo all’italiana: “Cosa avete fatto a Solange?”

    Una ragazza di un collegio cattolico londinese viene ritrovata uccisa sulla riva di un lago; un professore (Fabio Testi) si trovava lì in barca assieme ad un’altra alunna, con cui ha intrapreso una relazione clandestina, e la ragazza sostiene di aver visto una lama infierire sul corpo di una vittima. Presto i sospetti convergono inevitabilmente sul protagonista, ma la realtà è decisamente più complessa di quanto possa sembrare…

    In due parole. Giallo all’italiana accattivante e di buona presa sul pubblico, che rivede vari sterotipi del genere senza mai eccedere in sangue o violenza esplicita; buon ritmo, anche se tirato un po’ per le lunghe, basata sull’ambiguità di svariati personaggi apparentemente puliti (quando non perfettamente candidi) che nascondono in alcuni casi orribili segreti. La trama mostra apparentemente qualcosa in comune con “Non si sevizia un paperino” ma, a ben vedere, si tratta solamente di suggestioni. In definitiva uno dei migliori gialli all’italiana (assieme a “Mio caro assassino“) uscito durante il periodo d’oro del genere.

    Dallamano firma complessivamente un buon giallo, che possiede come principale difetto il titolo che gli è stato appioppato in italiano, decisamente poco efficace e che rischia di far pensare ad una trashata di terz’ordine senza capo nè coda. Eppure si tratta di un thriller nostrano decisamente ben riuscito, con buone interpretazioni sia di Fabio Testi che dell’irreprensibile (e al tempo stesso affascinante) Karin Baal, nei panni di una moglie in crisi matrimoniale. A tal proposito bisogna premettere che quest’ultimo personaggio viene sviluppato con le giuste differenze rispetto ad altre circostanze sceniche simili: non può che venire in mente, a riguardo, la crisi della coppia de Quattro mosche di velluto grigio. Questo per dire a chiare lettere che questo film non ricade nel “già visto” o “già sentito”, e questo sia a livello di trama – un soggetto ispirato al romanzo The Clue of the New Pin di Wallace – che di messa a punto scenica. “Cosa avete fatto a Solange“, che è anche la domanda fatidica da porsi nel momento clou della pellicola, rielabora sapientemente gli stereotipi del genere, confinando pero’ solo in parte il senso di noia che pervade lo scorrimento della storia nella sua parte centrale.

    Nulla pero’, a ben vedere, è scopiazzato, gratuito o senza alcun mordente, a cominciare dall’individuazione dell’assassino – che è quanto di meno scontato possa venire in mente allo spettatore – a finire con la caratterizzazione sempre azzeccata dei personaggi. Le varie ninfette protagoniste, ambigue quanto basta, finiscono per essere la vera chiave di volta della storia, la quale si propone in tutta la sua interezza solo a pochissimi minuti dalla fine sfruttando una sorta di “finale ad incastro” emulo di un meccanismo giallistico da manuale. Nulla che si possa realmente criticare, quindi, per quanto riguarda questa pellicola, che vede tra le interpreti le giovani Christine Galbo e la Kamille Keaton (pronipote del grandissimo Buster) che molti ricorderanno per il successivo (e controverso) “I spit on your grave” (anche in quel caso con un titolo italiano stramboide come “Non violentate Jennifer“). A completare il “pasto” si presentano diverse scene di nudo femminile, ripetuto e forse un po’ ostentato in vari momenti (brevi) della pellicola, probabilmente più per renderne appetibile la visione che nella reale consapevolezza di stare (re)inventando qualcosa. Senza che questo voglia minimamente sminuire una pellicola solida ed interessante, “Cosa avete fatto a Solange” rimane come un oggetto cinematografico di culto ancora oggi quantomeno per gli appassionati del genere.

  • The Den: chat-roulette e serial killer dal dark web

    The Den: chat-roulette e serial killer dal dark web

    Elizabeth è una studentessa universitaria incaricata di studiare un campione di persone che interagiscono con una chat-roulette, ovvero una videochat ad interlocutori casuali (The Den potrebbe tradursi come “il covo”); dopo aver incontrato persone di ogni genere, assiste ad un omicidio in diretta.

    In breve. Un serial killer che si annida nel dark web: è questa l’idea alla base di uno slasher modernizzato, “ambientato” quasi interamente in una chat. Può sembrare banalotto, ma non lo è.

    La caratteristica principale di The Den è che la maggiorparte del film – non tutto – viene ripreso dall’interno di una chat, quindi mediante schermi di Mac e di smartphone. Siamo di fronte ad uno degli archetipi meglio realizzati di quella che a breve sarebbe diventata una tendenza – gli horror “virtualizzati” – da Unfriended (che è simile in tanti aspetti) fino ad un precedente altrettanto interessante: l’ingiustamente sottovalutato Smiley (che condivide la presenza di Melanie Papalia come attrice).

    Ogni cinefilo che si rispetti diffiderà per forza di cose da un film girato in webcam, ma questo soprattutto per una forma di legittimo “purismo” (qui parzialmente ingiustificato: i mezzi visivi non latitano, e non c’è monotonia), ma soprattutto memore del precedente argentiano de “Il cartaio“, storia di un killer su internet con videopoker non troppo amato dai fan, quanto immensamente premonitore del filone (è un film del 2004, un anno in cui neanche esistevano cam in HD).

    Se da un lato la visione di un omicidio in webcam sembra poveristica quanto improbabile o voyeuristica (la protagonista assiste ad uno snuff in diretta, ed è questo che farà degenerare la storia), è la tecnologia ad essere la vera protagonista: fin dall’inizio, infatti, finiamo per curiosare via computer tra i vari momenti privati della giornata di Elizabeth, anche quando non sta facendo alcuna ricerca – testandone così umore, sentimenti e legami con l’esterno.

    Tutte cose che non vedremmo in questa veste con una telecamera ordinaria, e che viene affidata a situazioni realistiche, forse al limite del semplicistico quanto “appetitose” per lo spettatore, il quale ha la sensazione di spiare davvero nella vita intrigante e nei segreti di una ragazza. Del resto se la parvenza vuole essere quella di real life, o esperimento di vita vissuta che chiunque potrebbe vivere (le chat roulette esistono sul serio, e sono un’esperienza dai tratti effettivamente inquietanti), resta una considerazione di fondo sul fatto che ad Elizabeth piaccia davvero scoprire il “lato oscuro” delle stesse, al di là del fatto che ci sia una borsa di studio a finanziarla. Ed il pubblico è messo davanti a questa situazione prima di qualsiasi altra considerazione, e prima della rivelazione – totalmente realistica – di ciò che si nasconde dietro i delitti. The Den è soltanto un software, un mezzo che porta (non è chiaro se incidentalmente o volutamente) alla morte ed alla sua osservazione morbosa.

    L’aspetto hacker, in questo dilagare di tecnologia quotidiana, è quello che finisce per spaventare sul serio col trascorrere dei fotogrammi: una tecnologia che sembra ribellarsi al controllo della protagonista, non solo riattivandosi autonomamente – ma anche registrandola a sua insaputa ed inviando i filmati via email. Se tutto questo poteva sembrare fantascientifico anni fa, con lo sviluppo tecnologico di oggi sappiamo che tutto ciò è non solo possibile, ma già successo: si pensi ai software RAT, ai ricatti online con video intimi, ai software di controllo remoto o alle attività di spionaggio di chi produce di malware.

    La stessa protagonista, del resto, finisce vittima di un clickjacking, seppur ciò in realtà possa avvenire in casistiche circoscritte (per fortuna). A questo punto, in ottica modernizzatrice del genere, qualsiasi zombi o irrealistico villain dovrebbe farsi da parte in favore di questo orrore (quantomeno filosoficamente) cyberpunk, calato in una fantascienza che viviamo e che ci illude con il mito più difficile da combattere: quello dell’esistenza di un “mondo virtuale” (vedi la polizia che non da’ importanza alle denunce di Elizabeth), quando si tratta più propriamente di un mondo interconnesso.

    Del resto se si pensa allo sviluppo della trama, c’è qualche feeling che potrebbe richiamare Hostel, un film in parte degradato da un’etichetta semplicistica (torture porn), ed a cui il regista sembra essersi ispirato per più di un aspetto. Forse è proprio quest’ultimo, un virtuale che diventa realtà, a rendere il film nettamente superiore a qualsiasi altro epigono del virtual horror.

    Da un punto di vista di collocazione di genere, The Den si colloca a pieno diritto nello slasher modernizzato, dove le componenti di base sono quelle di sempre (il college, il killer di ragazzi), giusto posizionate in una moderna videochat. Il richiamo al sottogenere inventato – tra gli altri – da Non aprite quella porta sembra adeguato, del resto, se si pensa ad un killer dalle fattezze vagamente simili a Leatherface. Al tempo stesso, Donohue insiste parecchio sull’aspetto “guardone” della trama non a sproposito, utilizzando telecamere non convenzionali (a circuito chiuso, portatili, di uno smartphone, di un PC) come unico “occhio” per conoscere la realtà, conferendo peraltro un vantaggio enorme al killer, che si annida tra esse e che agisce come un “Grande Fratello” (vede tutto senza essere quasi mai visto).

    Questo lo porta registicamente ad abusarne anche quando non sarebbe necessario, ma tutto sommato riesce a risolvere in modo eccellente quasi ogni scena, fino ad un finale in crescendo e ad una discreta sorpresa conclusiva. Sarebbe bello pensare di aver di fronte una vera, nuova generazione di horror che parta da qui, ma Zachary Donohue è al suo primo – e ad oggi unico – lungometraggio: meglio andarci cauti prima di parlare di un vero e proprio cult, ma sicuramente si tratta di un ottimo horror passato inosservato ai più, di cui probabilmente riconosceremo i meriti solo tra qualche tempo.

  • Io la conoscevo bene: il dramma di Antonio Pietrangeli che ha lasciato il segno

    Io la conoscevo bene: il dramma di Antonio Pietrangeli che ha lasciato il segno

    Adriana è una ragazza di provincia con un sogno nel cassetto: fare l’attrice.

    In breve. Un saggio intenso ed indimenticabile sulla società dello spettacolo, in grado di rappresentarne il degrado e l’ipocrisia. Il tutto dal punto di vista di un’ambiziosa quanto sprovveduta Adriana, aspirante attrice.

    Selezionato di recente tra i 100 film italiani da salvare, Io la conoscevo bene pone le basi concettuali di un’intera generazione di registi: un concept lungimirante, cinico e realista che sarebbe stato imitato e ripreso più volte in seguito. La storia è quella di Adriana, avvenente giovane donne nonchè aspirante attrice di provincia, la quale cerca di mantenersi tra mille lavori diversi, facendosi regolarmente sfruttare da individui uno peggio dell’altro, che il suo istinto la porta tragicamente a selezionare con cura. In questo, ovviamente, è evidente come il suo personaggio sia simbolico e, al tempo stesso, realistico, tanto che il film viene spesso annoverato nel filone neo-realista a cui Pietrangeli (padre del cantautore Paolo) viene associato. Un filone, quello della decadenza e delle illusioni della società delle apparente, che avrebbe contaminato in seguito anche l’horror – da Society al nostrano Ubaldo Terzani Horror Show.

    Ambientato in larga parte a Roma (due scene emblematiche sono state girate a Lungotevere Portuense e a Ponte Testaccio), Io la conoscevo bene rappresenta in modo efficace il degrado e la decadenza del mondo dello spettacolo dell’epoca. Un mondo nel quale il talento conta poco o nulla, e si cerca solo l’ennesimo burattino da illudere, umiliare e sfruttare all’osso. In questo, ancor prima del personaggio di Adriana Astarelli (Stefania Sandrelli), si erge la figura di Gigi Baggini (Ugo Tognazzi, vincitore anche del Nastro d’Argento quale miglior attore non protagonista nel 1965): un misero lacchè e passacarte dei potenti, disposto a qualsiasi cosa pur di lavorare (“ti faccio pure da autista!“), ridotto addirittura a buffone di corte dall’attore che aveva, a suo tempo, lanciato (di cui conosciamo solo il nome, Roberto, e che è stato interpretato da Enrico Maria Salerno).

    Baggini, un po’ come Adriana (per quanto privo di quel minimo pudore che si porta dietro dalla propria educazione di provincia), farebbe qualsiasi cosa pur di restare nel mondo dello spettacolo. Un mondo che, per età avanzata, sembra averlo definitivamente escluso: e per ingraziarsi il potente si mette a ballare in modo instancabile fino quasi a svenire, ed arriva a corteggiare la protagonista – e questo esclusivamente per conto del Roberto che ossequia.

    Per lei ieri e domani non esistono, non vive neanche giorno per giorno perché già questo la costringerebbe a programmi troppo complicati.

    Adriana, dal canto suo, è archetipica della ragazza di provincia ingenua e priva di esperienza, in grado soltanto di passare da un letto all’altro senza mai progredire nella propria carriera, anzi venendo umiliata e sbeffeggiata per la sua origine e scarsa cultura. In questo, privilegia come partner personaggi potenti, infimi quanto degradati, per quanto qualcosa (che non riuscirà a focalizzare) le suggerisca che sia vagamente sbagliato farlo. Nel farlo, vive passivamente dei flirt e storie occasionali che ama procurarsi con personaggi di bassa estrazione sociale (il pugile, il parcheggiatore), da cui pero’ diffida e a sua volta illude senza dare null’altro.

    Il suo dramma di solitudine, sottolineato elegantemente dalle musiche d’epoca, viene vissuto con la stessa inconsapevolezza con cui vive la vita, ed descritta acutamente dal monologo dello scrittore suo amante e conoscente.

    Il fatto è che le va bene tutto, è sempre contenta, non desidera mai niente, non invidia nessuno, è senza curiosità, non si sorprende mai. Le umiliazioni non le sente… Eppure, povera figlia, dico io, gliene capitano tutti i giorni… le scivola tutto addosso senza lasciare traccia, come su certe stoffe impermeabilizzate. Ambizioni zero, morale nessuna, neppure quella dei soldi perché non è nemmeno una puttana.

    Se oggi un ritratto del genere può sembrare scontato, oltre che emblematico di un certo modo di fare casting e di scritturare soubrette ed attrici, all’epoca dovette fare un certo scalpore, nonostante l’elegante capacità e sensibilità di Pietrangeli di scegliere le musiche d’epoca più adatte, e di non mostrare mai nè sesso (ripreso sempre fuori camera, come nella prima sequenza in cui Adriana alza semplicemente il volume della radio), nè l’unica scena realmente violenta (quella dell’imprevedibile finale della storia, ripreso in soggettiva).

    Del resto è potentissima l’essenza del personaggio interpretato dalla Sandrelli: perchè domina e sarebbe in grado di sottomettere qualsiasi uomo, ma non ha realmente il carattere nè la malizia per riuscire a mettere in atto il piano. Un personaggio del genere, come in una tragedia greca, non può fare altro, alla fine, che soccombere e decidere di farla finita, creando un contrasto raggelante con il resto dell’edonismo sfrenato, pacchiano e spensierato della sua narrazione.

    Perciò vive minuto per minuto: prendere il sole, sentire i dischi e ballare sono le sue uniche attività. Per il resto è volubile, incostante, ha sempre bisogno di incontri nuovi e brevi, non importa con chi. Con se stessa, mai. […] Forse sei tu la più saggia di tutti.