L’oblio è un termine che indica la perdita o l’incapacità di ricordare qualcosa, sia temporaneamente che permanentemente. Si riferisce alla mancanza di memoria o al fatto di dimenticare informazioni, eventi, dettagli o esperienze passate. Questo fenomeno può manifestarsi in modi diversi e può essere causato da varie ragioni, come lo stress, l’invecchiamento, disturbi neurologici, traumi cranici, disturbi psicologici, condizioni mediche, o semplicemente come una caratteristica normale della memoria umana.
Secondo Freud, il concetto di “rimosso” si riferisce a ricordi, desideri o esperienze traumatiche che sono stati inconsciamente soppressi o dimenticati. L’oblio, in questo contesto, può essere considerato come una forma di difesa psicologica che nasce dalla repressione di contenuti emotivamente dolorosi o disturbanti. Freud credeva che certi ricordi o desideri potessero essere così disturbanti da essere spinti nell’inconscio, rendendoli inaccessibili alla consapevolezza. Questi ricordi repressi o rimosso possono influenzare il comportamento e la psiche di una persona senza che essa ne sia consapevole. Ad esempio, una persona potrebbe mostrare determinati schemi comportamentali o reagire in modo specifico a certe situazioni a causa di ricordi o desideri repressi di cui non è consapevole.
L’oblio può anche riguardare la dimenticanza di dettagli quotidiani, come dove si sono lasciate le chiavi, ma può anche estendersi a eventi importanti della vita o a informazioni significative. Può essere temporaneo, come dimenticare qualcosa per un breve periodo di tempo, o può essere permanente in casi più gravi, come nelle malattie neurodegenerative.
L’oblio in questo contesto potrebbe rappresentare una manifestazione di questo processo di repressione, dove certi ricordi o esperienze dolorose vengono dimenticati o nascosti dalla coscienza a causa del loro impatto emotivo o delle loro implicazioni psicologiche. Tuttavia, è importante notare che il concetto di rimosso freudiano è ampiamente dibattuto e non è universalmente accettato da tutti gli psicologi e ricercatori nel campo della psicologia contemporanea.
Il cinema presenta un’ampia filmografia dedicata al tema centrale dell’oblio.
Spider
“Spider” è un film del 2002 diretto da David Cronenberg, in cui il protagonista, interpretato da Ralph Fiennes, è un uomo di nome Dennis Cleg che soffre di gravi disturbi mentali e di amnesia.
Il film segue la vita di Dennis Cleg, chiamato anche Spider, mentre viene trasferito in una casa di cura dopo essere stato rilasciato da un istituto psichiatrico. Spider lotta con la sua memoria frammentata e con i ricordi confusi del suo passato, cercando di ricostruire eventi traumatici della sua infanzia e le complesse relazioni familiari.
La narrazione del film si intreccia tra la realtà e la percezione distorta di Spider, mostrando i suoi sforzi nel tentativo di capire ciò che è accaduto nella sua vita e nel suo passato, mentre la sua mente è intrappolata in un labirinto di ricordi distorti e ambigui.
Il tema dell’oblio è centrale nella trama di “Spider”, poiché il protagonista cerca di recuperare e dare un senso ai frammenti del suo passato, cercando di affrontare eventi traumatici e di riavvicinarsi ai ricordi sepolti della sua infanzia. Il film esplora la natura della memoria, dell’identità e della percezione, portando lo spettatore a entrare nella mente fratturata del protagonista e nelle sue struggenti lacerazioni psicologiche.
Di B3t – catturato personalmente, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=2976057
Oblivion
Di Supernino – Screenshot autoprodotto, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=4629489
Oblivion è un film di fantascienza del 2013 diretto da Joseph Kosinski. Il film è ambientato in un futuro post-apocalittico e vede Tom Cruise nel ruolo del protagonista.
La trama ruota attorno a Jack Harper (interpretato da Tom Cruise), un tecnico di manutenzione incaricato di monitorare e riparare droni difensivi su una Terra desolata, abbandonata e devastata da una guerra contro una razza aliena chiamata “Scavs”. Gli umani hanno vinto la guerra, ma la Terra è diventata inabitabile e gran parte della popolazione si è trasferita su un’altra luna di Saturno, chiamata Tet.
Mentre Jack compie le sue missioni di manutenzione, inizia a mettere in discussione la verità sulla guerra e sul suo ruolo nell’intera situazione. Una serie di eventi lo portano a scoprire informazioni che mettono in discussione la sua comprensione della realtà e delle sue stesse origini.
Il film è apprezzato per la sua estetica visiva, gli effetti speciali e la colonna sonora coinvolgente. La storia affronta temi di identità, memoria, tradimento e riscatto, mentre il protagonista cerca di scoprire la verità dietro la sua esistenza e il suo ruolo in un mondo devastato.
“Oblivion” è stato apprezzato per la sua ambientazione visivamente accattivante e per la sua trama che mescola elementi di fantascienza con elementi più intimi e personali.
“Memento” (2000)
“Memento” è un film del 2000 diretto da Christopher Nolan e racconta la storia di Leonard Shelby, interpretato da Guy Pearce, un uomo che soffre di amnesia anterograda, una condizione che gli impedisce di creare nuovi ricordi a lungo termine dopo un trauma. La trama del film è narrata in modo non lineare, seguendo due trame temporali che si intrecciano:
Leonard cerca disperatamente di trovare l’uomo che ha violentato e ucciso sua moglie, e di vendicarsi.
La sua ricerca è complicata dalla sua condizione di amnesia, quindi si affida a polaroid, tatuaggi e appunti scritti su sé stesso e oggetti per ricordare chi è, cosa sta facendo e chi è la persona che deve trovare.
Il film si apre sul finale, portando lo spettatore all’inizio della storia. La narrazione procede poi all’indietro attraverso una serie di eventi, rivelando nuovi dettagli e retroscena.
“Shutter Island” (2010)
Credits: imdb.com
Diretto da Martin Scorsese, questo thriller psicologico racconta la storia di due detective che indagano sulla scomparsa di una paziente da un’ospedale psichiatrico sull’isola di Shutter. Il film esplora la memoria e la percezione in modo disturbante.
“Before I Go to Sleep” (2014)
Basato sul romanzo di S.J. Watson, segue la storia di una donna che ogni giorno al risveglio scopre di aver perso la memoria degli ultimi 20 anni a causa di un incidente. Lei inizia a scoprire verità inquietanti sulla sua vita.
“Unknown” (2011)
Un uomo si risveglia in un ospedale scoprendo che qualcun altro ha preso la sua identità, ma l’intera sua vita sembra essere stata dimenticata o sostituita da qualcun altro.
Sento spesso dire che le intelligenze artificiali generative ruberanno il lavoro a chi ce l’ha, tipo scrittori e giornalisti.
Capisco il timore, ma non lo condivido.Per quanto istintivamente simpatizzi per hacker e boicottatori seriali per giusta causa, non riesco davvero a diventare luddista o almeno, se non proprio luddista, ostile all’uso delle nuove tecnologie che in realtà non rubano proprio nulla a nessuno.
Cosa sono le intelligenze artificiali generative
Le intelligenze artificiali generative sono sistemi informatici che utilizzano algoritmi complessi per generare autonomamente nuovi dati, testi, immagini o altri tipi di contenuti. Questi sistemi sono in grado di apprendere dai dati di input e creare nuovi materiali in modo autonomo, simulando in parte il processo creativo umano. Sono utilizzate in diversi campi, come la scrittura automatica di testi, la creazione di immagini, la produzione musicale e molto altro ancora. Esse hanno il potenziale di automatizzare alcuni compiti che tradizionalmente venivano fatti da esseri umani, come la scrittura di articoli o la generazione di contenuti.
Le intelligenze artificiali generative sono spesso basate su modelli statistici complessi, il cui esempio più popolare sono le reti neurali e tutto l’insieme di tecnologie analoghe utili per fare apprendimento macchina (machine learning). Il premio nobel per l’economia Daniel Kahneman (che citavo, abbastanza curiosamente, riguardo ai bias legati ai corsi di seduzione online) si è spinto a sostenere che l’uso intensivo di algoritmi per fare scelte importanti, alla lunga, potrebbe portare a scelte migliori i medici più preparati e tecnologicamente non ostili. Questo per un motivo semplice, in effetti: un algoritmo esegue il proprio compito freddamente, e per quanto soggetto a bug informatici non è soggetto ai bias / distorsioni cognitive a cui è soggetto l’uomo. Per quanto spaventoso o irreale possa sembrare, di conseguenza, una diagnosi fatta da un algoritmo (ammesso che sia stato correttamente tarato) potrebbe finire per salvare più vite di un medico, sempre nell’ipotesi che sia usato in modo corretto.
Ci pensano quelli bravi col computer (ma anche no)
Non si tratta ovviamente di cedere all’automatismo passivamente (il che sarebbe, non sia mai, bias di automazione); non si tratta neanche di immaginarsi su un tavolo operatorio con un Terminator che sogghigna alle nostre spalle: si tratta di riflettere su ciò che Domenico Conforti (mio docente universitario di Modelli di sistemi di servizio, una delle materie che ho amato di più) chiamava “metodi di supporto alle decisioni”. Che era un modo accademico e italianizzato per chiamare, già agli inizi degli anni Duemila, ciò che oggi è nota come intelligenza artificiale supervised o supervisionata. Per quanto il discorso sia leggermente più complesso per le tecnologie che rientrano nell’ambito non supervisionato (ovvero algoritmi che nascono, producono e muoiono da soli), direi che gran parte delle fobie tecnologiche legate al mondo delle IA supervisionate sono infondate. Lo sono perchè un medico che ha fatto il giuramento di Ippocrate e che quotidianamente cerca di dare del proprio meglio (presupposti non ovvi quanto necessari da specificare) non si potrà mai fidare di un algoritmo in modo blando o cieco, ma potrà tenere conto delle elaborazioni che fa in una grande varietà di modi. Il problema, semmai, è che sarà improbabile leggere risultati incoraggianti nel breve periodo, e sarà sperabilmente più agevole farlo nel medio-lungo.
Come funzionano le intelligenze artificiali generative
Restando su un ambito più blando, i modelli come ChatGPT che scrivono frasi come quella che ho appena riportato, “apprendono” dai dati forniti loro durante il processo di addestramento, per poi inferire nuova conoscenza: il che vuol dire che danno una forma ai dati che vengono passati e cercano di stabilire una funzione matematica, per intenderci, per rappresentarli con un certo grado di fedeltà. L’idea è che se capiscono come funziona il reticolo di informazioni in modo corretto nulla vieti, fino a prova contraria, che possano risolvere problemi mai visti prima. Ad esempio, nel caso del linguaggio naturale, una rete neurale può essere addestrata su un vasto corpus di testi per comprendere modelli, regolarità grammaticali e semantiche del linguaggio. Questa rete neurale, una volta addestrata, può essere utilizzata per generare nuovi testi coerenti e sintatticamente validi.
By Anonymous – https://i0.wp.com/universityarchives.princeton.edu/wp-content/uploads/sites/41/2014/11/Turing_Card_1.jpg?ssl=1, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=137325684
Tralasciando questioni etiche in ambito clinico (solo per amor di brevità), per una intelligenza artificiale che apprende un linguaggio naturale nulla dovrebbe essere più facile che “parlare da sola”, parlare in autonomia, scrivere in altrettanta autonomia. Come farebbe un bambino che ascolta gli adulti e prova a riprodurne le parole passo passo, ammesso che a qualche adulto non venga in mente di impedirne la crescita limitandolo o umiliandolo. Alan Turin nel suo epocale articolo su Mind si interrogò se le macchine possano davvero pensare, immaginando in un puro esercizio speculativo che fosse possibile addestrare un automa o un computer mediante una logica premio-punizione. La pratica ci suggerisce che insultare il navigatore quando ci porta fuori strada non aiuta a trovare la strada giusta, anche senza aver studiato comportamentismo: motivo per cui sarebbe anche plausibile e auspicabile convincerci che ChatGPT non ruberà il lavoro a nessuno. A meno che, ovviamente, non sia l’uomo a decidere di farne uso in questa veste.
Il problema del plagio
Ovviamente non va dimenticato – e non si può far finta di ignorare – che sistemi come ChatGPT possano effettivamente diventare dei plagiatori seriali, dei copiatori automatici che riempiano il mondo di testi scopiazzati e citino anche malamente autori precedenti. Possono copiare esattamente come farebbe uno scopiazzatore umano, e non va dimenticato che è proprio quest’ultimo, idealmente, a dargli l’esempio. Se dimentichiamo questo aspetto rischiamo di mostruosizzare le nuove tecnologie e, a quel punto, rigettare anche solo l’idea di uno smartphone, entrando in un vortice di preoccupazione paranoica che non aiuta a stare al mondo.
Il problema del diritto d’autore, in ogni caso, non sembra connaturato alle nuove tecnologie in sè: rientra semmai in un problema più generale, di coerenza e correttezza umana, per il quale peraltro ci si sta sensibilizzando anno dopo anno, anche se spesso in maniera scomposta o, alla meglio, sulla falsariga delle problematiche di privacy digitali (che erano ignorate con arroganza implicita fino a qualche anno fa, mentre adesso sono molto più discusse e pop). Un sistema di intelligenza artificiale (come andrebbe correttamente chiamato per evitare di “personalizzarlo” troppo o farlo sembrare grottescamente un robot umanoide che copia dal compagno di banco) sarà sempre soggetto a potenziali abusi, esattamente come un telefono può essere usato per inviare minacce, Photoshop può essere usato per creare fotomontaggi osceni, Word può essere usato per scrivere tutorial su come fabbricare armi artigianali. Si poteva copiare anche prima, si potrà copiare anche in futuro, la tecnologia è solo un catalizzatore e, come suggerivano autori accelerazionisti come Nick Land e Mark Fisher, non è da escludere che accelerare il progresso possa essere addirittura consigliabile per una società differente (anche se non necessariamente migliore della attuale). Se l’uomo non si responsabilizza e non la smette di dare la colpa agli altri, specie se gli altri sono letteralmente “cose” digitali, sarà difficile trovare una vera svolta.
Del resto app popolari come Midjourney o FakeYou hanno evidenziato ancora più chiaramente questa ambivalenza tecnologica, che non sembra eliminabile: un software può essere sfruttato per creare fake news o per costruire prodotti artistici di livello con la stessa probabilità. È un’ambiguità di fondo che dipende da come guardiamo la tecnologia in ballo, sulla falsariga di ciò che Slavoj Zizek chiama “parallasse“, una scissione dell’Uno in due prospettive diverse che non vanno viste come in contraddizione tra loro bensì, se si può, in cooperazione. Perchè da che mondo e mondo gli hacker sono sempre esistiti, i troll non ne parliamo, per cui tanto varrebbe non dimenticare l’importanza del contesto e non radicalizzare la nostra visione, che rischia di farci oscillare tra il radicalismo di 4chan (dove tutti sono anonimi e quasi nessuno viene beccato a commettere abusi) e l’ipocrisia rassicurante delle proposte di certi politici, che vorrebbero risolvere il problema obbligando gli utenti social a identificarsi come avverrebbe ad un posto di blocco, dimenticando (spesso maliziosamente) che anche il problema delle identità digitali clonate è ben precedente a quello dell’avvento delle intelligenze artificiali, e non si risolve in questa veste perchè potrei sempre connettermi a nome di altre persone, il che è anche il motivo per cui difficilmente ci ritroveremo a votare in forma digital.
Perchè non bisogna temere passivamente le IA
Non per altro, ma al di là della facciata terrorizzante e oscura, le IA possono aiutare a ottimizzare e accelerare alcuni processi, funzionando come strumenti di scrittura assistita e coadiuvando il compito di tanti redattori web, spesso costretti loro malgrado a produrre grandi quantità di articoli in poco tempo. Nella scrittura, ad esempio, le IA possono essere uno strumento per assistere gli scrittori, suggerendo idee o ottimizzando il flusso di lavoro, ma l’originalità, la creatività e la sensibilità umana rimangono irrinunciabili in molti campi. Nella speranza che i caporedattori non si mettano di traverso, in quei casi le IA generative possono essere molto utili, anche se non potranno mai sostituire del tutto il talento umano.
Lo aveva capito Alan Turing in quell’articolo seminale di metà anni Cinquanta, concependo la macchina che porta il suo nome come è un modello di calcolo di massimo livello ispirato ad un uomo che calcola e computa con carta e penna; lo aveva intuito Ada Lovelace quando scriveva sulla prodigiosa macchina analitica e sui suoi limiti: un modello di calcolo che era in grado di farsi programmare ma che non poteva, da sola decidere un bel nulla, mutuato da Charles Babbage. L’informatica teorica, del resto, da anni si interroga sul problema delle classi P ed NP, che significa: esistono o no problemi che sia più difficile risolvere che calcolare una soluzione? In modo formale (e a prescindere da quanto potenti e veloci siano i computer in gioco) si richiede in altri termini se ogni problema per il quale un computer possa verificare la correttezza in tempo finito sia anche risolvibile, ovvero se il computer sia (o no) in grado di individuare autonomamente una soluzione entro un tempo ritenuto accettabile.
I limiti già ci sono
Le preoccupazioni sui confini tecnologici, sull’etica, sui 9.999 “manifesti” (prodotti in certi casi giusto dagli imprenditori che ipocritamente le finanziano) sono, in gran parte, speculazioni vacue tra il pop ed il sociologico che dicono più sull’egocentrismo di chi le pubblica che su chi potrebbe metterle in pratica.
I limiti delle applicazioni di informatica sono ben definiti, salvo clamorose sorprese, dall’informatica teorica e dalle sue (poco note fuori dall’ambito specialistico, in effetti) speculazioni, teoremi e assiomi. Perchè preoccuparsene se il limite di fatto c’è già, e se l’unico limite da porre è quello imposto dall’etica umana o – se preferite – dall’uso che si decide di fare delle nuove tecnologie? In informatica tutto è numero, nel senso che ogni problema pratico è riconducibile ad uno matematico e un esempio può far capire cosa intendiamo: poniamo di voler trovare tutti i divisori di un numero intero N, problema facile da verificare puntualmente anche per numeri molto grandi.
Bisogna vedere la questione in termini generali, perchè un “problema” rientra nel “qualsiasi cosa un computer possa fare in modo esatto. Quello appena citato, nello specifico, è un esempio di problema polinomiale (P), mentre il suo suo duale non deterministicamente polinomiale (NP) richiederebbe: trovare tutti i numeri che siano divisori di n, cosa che diventa difficile e non accettabile come tempistiche per molti dei metodi di fattorizzazione che conosciamo ad oggi. Ho sempre pensato che mi piacerebbe vivere abbastanza da sapere se P coincida con NP o no, perchè spero davvero che la soluzione sia trovata nei prossimi anni. Il problema della fattorizzazione è alla base dell’efficenza della crittografia che usiamo ogni giorno su WhatsApp, in banca, sul web e anche leggendo le pagine di questo blog.
Certo, sappiamo che ci sono problemi come “trovare un/una fidanzato/fidanzata” che applicazioni come Tinder provano a risolvere – funzionalismo puro!, ma lo fanno in modo approssimato, sono euristiche buttate lì per fare qualche soldo, come ben sappiamo, e non possiamo occuparcene in questa sede.
In definitiva: piuttosto che cedere a dialettiche populiste (che danno soddisfazione, mi rendo conto, ma ci rendono ciechi al cambiamento e ostili all’innovazione senza un vero motivo) e parlare di “rubare lavoro”, va considerato che le IA potrebbero offrire opportunità sempre più innovative, realizzando l’utopia accelerazionista-progressista: permettere agli scrittori e ai giornalisti di concentrarsi su compiti più creativi e che diano vero valore aggiunto (quelle che ci rendono migliori), lasciando che le IA si occupino delle attività più ripetitive, puramente analitiche o didascaliche (anche queste, in effetti, necessarie).
Nel campo della logica, una tautologia è una proposizione che è sempre vera, indipendentemente dalle condizioni, come ad esempio “o piove o non piove”, poiché copre tutte le possibilità senza escluderne nessuna. In senso lato qualcosa è tautologico quando, in modo superfluo, si ripete la stessa cosa in diverse parole o frasi, senza aggiungere nuove informazioni o significati. In sostanza, una tautologia è una forma di espressione che è vera in qualsiasi circostanza perché ridondante o autoevidente.
La parola “tautologia” deriva dal greco antico, ed è composta da due parole greche: “tauto” che significa “lo stesso” o “uguale a”, e “logos” che può essere tradotto come “parola” o “discorso”. Quindi, letteralmente, “tautologia” si riferisce a un’affermazione che è la stessa cosa espressa in parole diverse. Il termine ha trovato impiego sia nella logica che nella retorica. In logica, una tautologia è una proposizione che è sempre vera indipendentemente dal valore di verità dei suoi componenti. In retorica, una tautologia è un modo di esprimersi ripetendo concetti in modo ridondante o superfluo.
Ludwig Wittgenstein, filosofo del linguaggio del XX secolo, ha affrontato il concetto di tautologia nel suo lavoro filosofico, in particolare nel suo libro “Tractatus Logico-Philosophicus”. Wittgenstein ha trattato le tautologie come proposizioni che sono vere in virtù della loro forma logica e della struttura del linguaggio.
Ad esempio, una tautologia logica potrebbe essere espressa come “p o non p” (dove “p” è una proposizione): questa sarà sempre vera indipendentemente dal valore di verità di “p” stesso. Wittgenstein utilizzava le tautologie per delineare i limiti del linguaggio e sottolineava che molte proposizioni filosofiche o metafisiche non erano effettivamente proposizioni significative, ma piuttosto risultavano essere il prodotto di sostanziali “malintesi” riguardo all’uso del linguaggio.
Di Moritz Nähr – Austrian National Library, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=46116699
Nel “Tractatus”, Wittgenstein ha sostenuto che le tautologie rappresentano una delle proposizioni fondamentali della logica. Esse sono fondamentali in quanto sono indiscutibilmente vere, ma allo stesso tempo non trasmettono informazioni nuove. Per Wittgenstein, il significato delle tautologie risiede nella loro forma logica e soprattutto nell’uso del linguaggio, piuttosto che nella rappresentazione di fatti del mondo.
Per concludere, ecco alcuni esempi di tautologie in diversi contesti:
Nella logica proposizionale:
“È vero o è falso” – Questa è una tautologia perché ogni proposizione è vera oppure falsa, per definizione, e senza terze possibilità (principio del terzo escluso).
“Se piove, allora piove” – Questa è una tautologia in quanto conferma una relazione di implicazione logica che è sempre vera.
Nel linguaggio comune:
“Salire su in alto” – È a suo modo una tautologia perché “salire” implica già un movimento verso l’alto.
“In questo momento preciso” – È tautologico, perché “momento” implica già un punto specifico nel tempo.
Nella matematica:
“Un triangolo ha tre lati” – È tautologico perché la definizione stessa di un triangolo implica che abbia tre lati.
“La somma degli angoli interni di un quadrilatero è 360 gradi” – È una tautologia in quanto corrisponde a una proprietà definita dei quadrilateri.
Questi sono solo esempi di tautologie che possono essere incontrate in vari contesti, ma ce ne sono molti altri, alcuni più complessi o specifici a seconda del campo di studio o della disciplina in cui vengono utilizzati.
L’evirazione, un tema oscuro e disturbing per eccellenza, è stato affrontato in modo controverso e sensazionale nel cinema. Dall’ossessione sessuale alla vendetta, dalla manipolazione all’oscurità interiore dell’umano, ognuno di questi film esplora la complessità psicologica e i conflitti dell’animo umano. Eccovi pertanto 8 film che ne parlano più o meno esplicitamente, con un avviso spoiler: alcuni contengono la rivelazione del clou della trama.
“Ecco l’impero dei sensi” (1976)
Questo film giapponese diretto da Nagisa Oshima esplora il tema dell’evirazione attraverso il contesto della sessualità ossessiva. Basato su una storia vera, il film rappresenta una relazione erotica profonda che sfocia in una ricerca morbosa di sensazioni estreme. Si va oltre la classica idealizzazione dell’altro: dopo la morte del compagno a cui era morbosamente legata, tanto da non farlo uscire di casa per giorni, la giovane Sada Abe a cui si ispira la protagonista afferma che il pene mozzato del proprio amante era il ricordo più caro che lo legava a lui.
“L’ultima casa a sinistra” (1972)
Mari Collingwood e Phyllis Stone si imbattono in un gruppo di criminali: Le ragazze vengono rapite, torturate e alla fine uccise. Craven immagina cosa succederebbe se i genitori delle due si imbattessero casualmente negli aguzzini: il tema dell’infliggere agli assassini lo stesso orrore che hanno causato a Mari e Phyllis sfocia nella castrazione in senso simbolico, nel togliere la potenzialità più caratterizzante dell’uomo. Un film che farebbe il triplo del clamore, se uscisse oggi, e sarebbe oggetto di trattazioni in lungo e in largo. Craven aveva, in questo caso, visto più lungo del solito.
“Hard Candy” (2005)
Sebbene il tema dell’evirazione non sia centrale, questo film affronta il concetto di vendetta e manipolazione attraverso una trama oscura. Da un punto di vista psicoanalitico, l’idea di manipolazione può essere vista come un modo per affrontare il desiderio inconscio di controllare e cambiare gli altri, riflettendo il concetto freudiano di proiezione.
Ciò avviene in una logica ribaltata rispetto a quella stereotipica classica, dove la vittima diventa carnefice ed i ruoli prestabiliti saltano, una volta per sempre. È questo, forse, l’aspetto più rilevante di Hard Candy oggi.
Nekromantik (1987)
“Nekromantik” è un film horror underground tedesco diretto da Jörg Buttgereit. Il film è noto per la sua natura controversa e disturbante. La trama segue un necrofilo che lavora in un’agenzia di pulizia che si occupa di rimuovere i corpi. La sua ossessione per i cadaveri lo spinge a portare a casa un corpo per i suoi oscuri desideri. Il film esplora temi macabri e viscerali, esponendo lo spettatore a sequenze disturbanti di violenza e necrofilia. La sua natura provocatoria ha portato a un’ampia discussione su quanto il cinema possa esplorare argomenti tabù.
Nekromatik affronta più che altro il tema dell’amore necrofilo, ed è noto al grande pubblico quasi esclusivamente per questa ragione. Ma c’è una sequenza molto specifica incentrata sul tema dell’evirazione, che consiste nella sequenza in cui la protagonista custidisce il membro del proprio cadavere per scopi sessuali.
“Moebius” (2013)
Un film sudcoreano diretto da Kim Ki-duk, “Moebius” esplora il tema dell’evirazione in modo metaforico. Il film parla di conflitti familiari e sessualità contorta, utilizzando il simbolismo dell’evirazione per rappresentare la castrazione emotiva e psicologica. Da un punto di vista psicoanalitico, il film potrebbe essere interpretato come una rappresentazione delle dinamiche di potere e controllo all’interno della famiglia.
Spingendo più in là il discorso, Moebius presenta una scena di auto-evirazione che assume più di un significato simbolico, ma che viene ricordata più per il clamore del gesto che per altro.
“Cannibal Ferox” (1981)
Questo film italiano del genere cannibale tratta di violenza, tortura e cannibalismo, prefigurandosi come un film proto-sensazionista incentrato sulla meta trattazione del tema.
Oggi il film potrebbe riflettere l’espansione dei confini sociali e morali, esplorando gli aspetti oscuri dell’umano, ma non solo: “Cannibal Ferox” (1981), diretto da Umberto Lenzi, presenta una scena di evirazione esplicita che è un po’ il clou dell’orrore rappresentato. Il film è noto per il suo contenuto estremamente violento e perturbante.
“Der Todesking” (1990)
Un film tedesco di Jörg Buttgereit, “Der Todesking” è una raccolta di episodi che esplorano la morte e il suicidio. L’evirazione potrebbe essere interpretata come una rappresentazione simbolica della privazione e della mutilazione psicologica. Il film potrebbe essere analizzato da una prospettiva psicoanalitica come una riflessione sulle angosce della morte e le reazioni umane ad essa.
“Schramm” (1993)
Diretto da Jörg Buttgereit, Schramm non tratta dell’evirazione come tematica generale, bensì presenta un serial killer ossessionato dal sesso che pratica (e nel film lo si vede esplicitamente) un atto autolesionista sul proprio pene.
L’evirazione è un termine che si riferisce alla rimozione chirurgica o all’asportazione degli organi genitali.
L’evirazione può essere un processo volontario o involontario e può avere diverse ragioni, tra cui motivi medici, religiosi, culturali o punitivi. In alcuni contesti, l’evirazione è stata utilizzata come forma di punizione o tortura, mentre in altri casi è stata eseguita per ragioni mediche, come il trattamento di determinate condizioni o malattie.
Immagine: il tema dell’evirazione visto da Midjourney in chiave grottesca
Il termine “goliardico” è un aggettivo derivato dalla parola “goliardo”, che ha radici profonde nella storia e nella cultura medievali. Il suo uso risale all’epoca dei Goliardi, un gruppo di poeti e studenti erranti del Medioevo, che vivevano in Europa tra il XII e il XIII secolo. Questi giovani, spesso iscritti a università, erano noti per il loro stile di vita bohemien, caratterizzato da una fervente passione per la poesia, la musica e la satira.
Il termine “goliardo” stesso ha un’origine oscura, ma è comunemente ricondotto alla parola latina “gula,” che significa “gola” o “appetito.” La connessione tra questa etimologia e il comportamento dei Goliardi risiede nel loro spirito di giovialità e indulgenza, spesso espressi attraverso il canto, il bere e la critica sociale caustica.
Nell’immagine di copertina, dei goliardi reimmaginati da Midjourney.
Cosa Significa “Goliardico”?
L’aggettivo “goliardico” è spesso utilizzato per descrivere un tipo di umorismo o comportamento che richiama lo spirito giocoso, scanzonato e irriverente dei Goliardi medievali. Questo stile di umorismo è spesso legato alla satira, al sarcasmo e alla dissacrazione, ma è generalmente inoffensivo, mirando a suscitare il sorriso e a mettere in discussione le norme sociali o le convenzioni in modo scherzoso.
L’umorismo goliardico è spesso caratterizzato da battute e scherzi che si muovono al di fuori dei confini della norma, ma senza l’intento di ferire o offendere profondamente. Si tratta di un umorismo che sfida il politicamente corretto e che può toccare argomenti sensibili, ma lo fa con un intento di leggerezza e giocosità.
Cosa Non è “Goliardico”?
Il termine “goliardico” non dovrebbe essere utilizzato per giustificare battute o insulti offensivi, umorismo nero o sarcasmo maleducato. L’umorismo goliardico, pur essendo irriverente, non deve superare il limite della decenza o della gentilezza. Ad esempio, chi fa uso dell’umorismo nero o dell’ironia per giustificare battute razziste, sessiste, omofobe o che mirano a ferire profondamente gli altri, non sta esprimendo uno spirito goliardico ma sta perpetuando un comportamento offensivo e dannoso.
L’umorismo nero, in particolare, è caratterizzato da battute che trattano argomenti tabù, come la morte, le malattie o le tragedie, e lo fanno con un tono oscuro e spesso sgradevole. Questo tipo di umorismo è noto per il suo potenziale di ferire e offendere, ed è considerato inappropriato in molte situazioni.
In sintesi, l’umorismo goliardico è un tipo di umorismo leggero e scherzoso che sfida le convenzioni sociali senza recare danno, mentre l’umorismo nero o l’ironia usati per giustificare battute offensive non possono essere considerati goliardici e spesso hanno conseguenze negative. È importante esercitare il buon senso e la sensibilità quando si fa uso dell’umorismo per evitare di recare offesa o danneggiare gli altri.
Goliardia è anche una tipologia di associazione studentesca universitaria italiana, simile alle fraternities e sororities degli Stati Uniti e del Canada o alla Studentenverbindung in Germania. La loro mitologia è costruita attorno a un presunto legame con un gruppo di clero per lo più giovane e disamorato dal XII al XIII secolo. Anche se i loro iscritti non hanno mai raggiunto un vasto pubblico, i numeri sono in diminuzione dopo le iniziative del dopoguerra volte a mantenere in vita questi club, soprattutto se si considerano gli atti di vandalismo perpetrati dai suoi membri nelle principali città italiane come Parma, Padova, Trieste e Genova.
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