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  • Videocracy è un simulacro nell’ombra dei canali TV

    Videocracy è un simulacro nell’ombra dei canali TV

    All’interno del suggestivo documentario del 2009 intitolato Videocracy, diretto da Erik Gandini, emerge un’affascinante teoria espressa dal regista del Grande Fratello Fabio Calvi. Secondo Calvi, il flusso ininterrotto di immagini che pervade la televisione di Silvio Berlusconi (1936-2023) rappresenterebbe il riflesso stesso della sua personalità: una sorta di finestra sulla sua mente, sui suoi sogni, sulla sua visione del mondo.

    Jean Baudrillard, uno dei più influenti teorici della postmodernità, ci offre una visione straordinariamente critica e provocatoria del mondo contemporaneo. Secondo Baudrillard, viviamo in una società in cui la realtà stessa è stata sostituita da simulacri, copie senza un originale autentico. La sua teoria mette in discussione il concetto di verità oggettiva e ci invita a considerare il mondo come una serie di rappresentazioni, di simulazioni che mascherano la realtà stessa. Questo specchio mediatico, dove donne dai tratti sinuosi ed estenuanti, ricchezze sfavillanti e opportunità senza fine prendono vita, si è rapidamente trasformato nell’immaginario collettivo degli italiani. Baudrillard sosteneva del resto che nel nostro mondo ipermediatizzato, i media e le immagini giocano un ruolo centrale nella costruzione della nostra percezione della realtà. Attraverso la proliferazione dei mezzi di comunicazione di massa, siamo immersi in un flusso incessante di immagini, informazioni e segni che ci pervadono. Tuttavia queste immagini non ci offrono una rappresentazione accurata della realtà, ma sono piuttosto una distorsione, una finzione che ci viene presentata come realtà (iperrealtà). Secondo Baudrillard, viviamo in una società in cui la simulazione ha preso il sopravvento sulla realtà stessa.

    Per i giovani millennial, che hanno vissuto la loro infanzia immersi in programmi televisivi iconici come Bim Bum Bam e si sono abituati a donne che danzano in costumi succinti mentre cenano durante i game show serali, Berlusconi si è insinuato nella loro coscienza come un’incarnazione dei loro ricordi più cari.  Nel contesto un ipotetico affascinante romanzo cyberpunk, Videocracy ci permette di entrare nel mondo virtuale dei canali televisivi di Berlusconi e nei misteri che nasconde, prima ancora che quest’ultimo avesse una qualsiasi accezione di mondo virtuale dominato da internet. Svelerà le verità nascoste dietro le immagini e i suoni che hanno permeato le nostre vite, e seguiremo il percorso di un giovane ribelle che lotta per riportare la verità e la libertà nella società.

    Ho avuto modo di visionare questo discusso prodotto italo-svedese, del quale ho apprezzato lo stile documentaristico, mentre ho trovato realmente spiazzanti alcune sue parti (da film dell’orrore, in tutti i sensi). Non sono certo dalla parte dell’attuale presidente del consiglio: eppure, senza scadere ina affermazioni che potrebbero apparire qualunquiste, il punto è che guardando questo film si colpisce duramente un modo di pensare per intero (altro…)

  • Mediterraneo di Gabriele Salvatores è il ritratto della disillusione

    Mediterraneo di Gabriele Salvatores è il ritratto della disillusione

    Un gruppo di militari italiani durante la seconda guerra mondiale finisce in un’isola greca, e decide di rimanerci per diversi anni, perdendo ogni contatto con il mondo esterno. Nel frattempo la guerra finisce e il gruppo viene a saperlo solo a cose fatte: non tutti, a quel punto, decideranno di tornare, e chi tornerà non rimarrà pienamente soddisfatto.

    Parlare oggi di un film del genere, uscito nel 1991 e ambientato in piena seconda guerra mondiale – un periodo storico con cui l’Italia non è riuscita a pacificarsi nemmeno oggi, dato che rappresenta una delle memorie storiche più divisive di sempre – è un’operazione tutt’altro che banale. Ne possiamo cedere alla malsana tentazione di considerare Mediterraneo un film romantico o una commedia come tante, a dispetto di alcune locandine che all’epoca forse suggerivano questo, quantomeno a livello iconografico. Certo, l’aspetto relazionale è al centro della trama, e la regia è abile a delinare fin da subito una serie di rapporti e relazioni tra commilitoni puramente umane, in tensione al punto giusto e mai macchiettistiche. Ma il punto del film è la fuga di qualcuno da qualcosa, ed è il tema che attraversa l’intera pellicola.

    Per quanto possa sembrare secondario, in effetti, ciò che fonda Mediterraneo è il saggio Elogio della fuga scritto dal medico e filosofo Henri Laborit, sulle parole del quale si apre il film: “In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare“. È questo il tema portante del film, e la narrazione vuole sembrare puramente metaforica in tal senso, senza peraltro sforare nel didascalico. Il riferimento è a tutti gli aspetti essenziali della vita umana, che vanno dalla ricerca dell’amore al lavoro che siamo costretti a svolgere per sopravvivere, per i quali la fuga – intesa come necessità di cambiamento – è spesso l’unica via d’uscita possibile.

    I soldati protagonisti non sembrano credere pienamente in ciò che fanno, e progressivamente smantellano le proprie certezze alla ricerca della propria identità di fondo: cosa che alcuni non troveranno mai, o continueranno a cercare, mentre il mondo continuerà a girare a modo proprio e nostro malgrado. Sembra anche interessante notare come si tratti dell’ennesimo film ambientato in un isola deserta, un po’ come travolti da un insolito destino in grande, con la comunanza narrativa di protagonisti che prima sembrano essere nel panico all’idea di restare su un’isola che sembra ostile e scollegata dalla civiltà, salvo poi prenderci gusto e cambiare opinione. In un certo senso Mediterraneo è anche un saggio sul cambiamento d’opinione, sulla modifica di una prospettiva solida o cristallizzata, ed è un film che sa affrontare la tematica del cambiamento politico-sociale con una lucidità che pochi altri possono vantare. Molte sequenze sono peraltro potentissime evocativamente: basti citare quella in cui i militari incontrano lo spacciatore di oppio, lasciandosi andare a considerazioni beffarde contro il regime fascista, facendosi rubare le armi poco dopo, per poi arrivare a concludere che il mondo sarebbe migliore se si trovasse dell’oppio al posto degli arsenali da un giorno all’altro. Siamo nel pieno degli anni Novanta, del resto appena un anno dopo l’uscita di Mediterraneo avremmo scoperto Tangentopoli – neanche il tempo di riprendere fiato dal tragico periodo terroristico. Quello di Salvatores non è un film spezzettabile o “memetico” (visionarlo a spezzoni, come proposte da alcune pagine social di cinema, rischia di essere particolarmente inefficace): va visto dall’inizio alla fine, rinviando ogni considerazione all’ultima, tragica eppure bellissima conclusione del film. E se vi state chiedendo come si inseriscono l’amore in tutto questo e subito detto: l’amore è l’emblema del desiderio, per soddisfare il desiderio bisogna bisogna seguire le linee di fuga, o forse quelli che Deleuze e Guattari chiamavano flussi. Ci attiviamo in base a ciò che viviamo, siamo creature interiormente “situazioniste” e siamo in grado di ricostruire l’esistenza anche da un piccolo villaggio abbandonato, emblema di un paradiso terrestre (oggi devastato dal turismo, sembra suggerire quel meraviglioso finale). Sono insomma i flussi del cambiamento e delle nostre esistenze ad essere in gioco: fanno parte anch’essi della politica (e dello sconforto che ingenera periodicamente), e ci costringono a deviare dai percorsi safe proprio perchè, come suggeriva Laborit, la fuga è anche sinonimo di coraggio.

    A questo punto l’analisi del film potrebbe proseguire dal finale, che ci sentiamo liberi di spoilerare dopo tutti questi anni (chiunque non abbia mai visto Mediterraneo dovrebbe farlo prima di continuare a leggere, in teoria): partiamo dalle parole pronunciate dal personaggio interpretato da Diego Abatantuono (il sergente Lo Russo) il quale, ormai vecchio e disilluso, scopriamo aver abbandonato l’Italia in cui desiderava ardentemente rientrare, il tutto perchè “non me l’hanno fatta cambiare“. Quasi come il soldato sopravvissuto di Nato il quattro luglio, Lo Russo diventa l’emblema di ciò che in Italia non cambia, del favoritismo cristallizzato e del conservatorismo sopravvissuto a due guerre. Perchè nulla non può cambiare, sembra suggerire una sconsolata narrazione, e perchè già nel dopoguerra si era deciso di annettere l’Italia ad una esclusiva e auto-referenziale comfort zone. Ed è riavvolgendo a ritroso il film che ci rendiamo conto in maniera limpida del senso della storia, delle scelte che sono state fatte dai soldati italiani finiti per caso su un’isola (quella di Megisti, nella realtà): dopo aver perso i contatti con il centro di comando, e superato il panico iniziale, si adeguano allo stile di vita posto. Non solo: scoprono usi e tradizioni del posto, fanno nuove amicizie, fanno nascere amori e relazioni che li segneranno.

    Ma i loro sforzi sembrano vanificati dal mondo in cui viviamo, da un lato simboleggiata della morte improvvisa inaspettata dell’ex prostituta che si era sposata con uno di loro (come a dire: nulla dura quanto vorremmo), dall’altro con un’Italia che secondo il regista non cambia non cambierà mai, e che Lo Russo – inizialmente ombroso e ligio al dovere, poi progressivamente più “libertario” – rappresenta come metafora vivente a pieno titolo. Si tratta anche una delle interpretazioni di Diego Abatantuono più lontane dagli stereotipi dei personaggi a cui siamo abituati, e che conferisce un’ulteriore nota di merito ad un lavoro che, per inciso, è stato tratto dal romanzo Sagapò di Renzo Biasion.

    Salvatores è un regista attivo e prolifico anche oggi, peraltro. E tutte le volte che diciamo che il cinema italiano è morto, a questo punto, ci facciamo forse trascinare da un’enfasi astratta, continuiamo a predicare nel deserto che il vero cinema è finito e che ormai vanno di moda solo le commedie. Probabilmente solo quest’ultimo aspetto è vero, ma è anche possibile che si tratti di un riflesso di noi stessi, di ciò che noi vogliamo vedere. Vediamo commedie perchè vogliamo farlo! Del resto, le alternative non mancano.

    Nessuno ci impone di vedere commedie romantiche ad ogni costi, eppure sembra che ogni volta nelle discussioni non si parli d’altro, o peggio ancora, non si voglia parlare d’altro. Questo probabilmente era vero anche nel 1991, anno in cui Salvatores finisce di girare Mediterraneo e lo distribuisce nei cinema (verrà trasmesso in TV alla fine dell’anno successivo), per cui facciamo i conti con questo effetto collaterale ma guardiamo la sostanza, che ci suggerisce che Mediterraneo non è “il” capolavoro ma è sicuramente un gran film. E ciò che rende Mediterraneo una piccola gemm è proprio questo suo porsi in maniera antagonista, come critica sostanziale al mondo in cui viviamo, quasi in senso primitivista, sottendendo che la politica non è un’astrazione, fa parte della vita di ognuno di noi, o se preferite: chi non fa politica, alla fine, semplicemente la subisce.

    L’analisi del film sarebbe incompleta se non citassimo la critica sullo stereotipo sugli “italiani, brava gente” che il film sembra (forse inconsciamente) promulgare: i soldati sono infatti insolitamente buoni, non hanno parvenza da militari indottrinati al fascismmo e, anzi, in molte fasi il film strizza l’occhio allo spettatore puntando sull’empatizzazione – rischiando, secondo alcuni, di sminuire la tragica realtà della Seconda Guerra Mondiale. Da qui a parlare di revisionismo probabilmente ce ne passa, anche solo per la scena dell’oppio di cui dicevamo. L’accusa di revisionismo, in sostanza, è quantomeno rivedibile, anche perchè i presupposti del film suggeriscono che i soldati siano stati abbandonati dall’inizio e che credano molto poco in ciò che fanno (Ci stavano mandando in missione a Megisti, un’isola sperduta nell’Egeo. La più piccola, la più lontana. Importanza strategica: zero. Era una missione OC, di osservazione e collegamento. Eravamo stati incaricati di prendere l’isola e segnalare eventuali avvistamenti. Mi avevano dato un gruppo di uomini presi qua e là. Superstiti di battaglie perse, vagabondi di reggimenti sciolti, un plotone di coscritti, come me, che erano sopravvissuti fino a quel momento per puro caso.“). Senza dimenticare che il tenente si augura di non dover sparare in arrivo nell’isola, ciò dovrebbe ricordare che Mediterraneo non è un film propriamente di guerra, ma ricorda più una via di mezzo tra i toni di Train de vie e (viene in mente) Underground di Emir Kusturica (anche in quel caso si tratta di un gruppo di persone che si isolano durante una guerra, e non vengono a sapere per tempo della sua conclusione). Senza contare la figura quasi mitologica di Corrado, disertore dichiarato (Claudio Bisio), che si allontanerà in barca seguendo, anche qui, il flusso del desiderio che lo caratterizza dall’inizio, e del quale non conosceremo nè l’esito del viaggio nè se sia ancora vivo in seguito. Sembra insomma che, come si diceva all’inizio, il film sia più filosofico che materialistico, e che offra un solido patto regista-spettatore da rispettare.

    Non bisogna dimenticare che la direttiva principale ed il nucleo tematico del film è incentrato sulla fuga, sull’allontanamento volontario dalla comfort zone, utilizzando il linguaggio autentico e privo di fronzoli del cinema nostrano, quello più vicino al cinema verità, quello che rappresenta eroi ben lontani dall’ideale e, in modo forse paradossale, umanamente anti-eroici. Le storie dei soldati sono vicine a quelle che ognuno di noi, nella vita, potrebbe essersi trovato a vivere. Ed è questo che rende totalmente di culto questo film di Salvatores, e mai abbastanza visto e lodato.

  • Zardoz è la fantascienza proto-accelerazionista ambientata nel 2293

    Zardoz è la fantascienza proto-accelerazionista ambientata nel 2293

    2293. Zardoz, una divinità che comunica con gli uomini mediante un idolo di pietra, sta soggiogando la razza umana dei Bruti. Deciso a scoprire la verità su questo dio, Zed (il guerriero protagonista) si introduce all’interno della testa.

    Nel suo celebre libro “Cult movies 2” Dannis Peary scrive, splendidamente, su questo film: “un promemoria affascinante di ciò che è stata la fantascienza prima di Star Wars”, salvo considerare quel “risibile miscuglio di allusioni letterarie, pornografia cervellotica, fantascienza classica, intellettualismi riusciti e un sincero desiderio di realizzare qualcosa di portentoso manca il bersaglio di un centinaio di miglia, ma possiede elementi – e sua badness è uno di questi – che lo rendono bizzarramente avvincente“.

    Basterebbero questo a raccontare Zardoz, una delle tante produzioni weird dei gloriosi anni 70, proprio partendo dalla considerazione che di fantascienza si parlava quando, a ben vedere, George Lucas avrebbe tirato fuori il primo episodio della sua saga solo tre anni dopo. Il film è considerato di culto ed è stato oggetto di un curioso equivoco sul web: un utente su Reddit, infatti, ha sostenuto (sbagliando di “soli” 270 anni) che sia ambientato nel 2023. Questo ha comunque avuto un effetto virale, perchè in molti hanno pubblicato una foto di scena con Sean Connery preannunciando che tutti, quest’anno, vestiremo così. Preferiamo metterlo in chiaro da subito: il thread è stato cancellato dai moderatori del subreddit, e per dovere di cronaca lo abbiamo screenshottato di seguito a memoria dei posteri, per preservare da futuri eventuali equivoci.

    Tornando al film, sono molte le cose che si possono raccontare: quella di Zardoz è una fantascienza surrealista, ricca di momenti onirici (non sempre comprensibilissimi e, a dirla tutta, avvolti da un pizzico di auto-indulgenza di troppo), che pero’ non riguarda alieni e astronavi bensì, ballardianamente, l’umanità ordinaria in un futuro prossimo. Un mondo in cui, anzichè droghe e carestie, l’umanità è vittima di mondi chiusi e non comunicanti, in cui gli uomini sono divisi in tribù primitive, e sono mutate le caratteristiche biologiche (una su tutte: non si muore più).

    In questa ennesima distopia di un prossimo futuro, pertanto, la Terra viene contesa tra più gruppi di esseri umani: su tutti i Bruti, che vivono nella terra desolata omaggiando il primivitismo e la violenza, e gli Eterni, pseudo-borghesi che vivono di rendita (e vorrebbero sottomettere i primi). Anche gli dei, del resto, sono stati inventati dall’uomo, ed è questo il motivo per cui la creazione di Zardoz viene presentato come un subdolo diversivo per incentivare l’estinzione dei Bruti. Sarà il personaggio di Zed (Sean Connery, in un singolare e iconico costume rosso, con un ruolo ben diverso da quello a cui siamo stati abituati vedergli interpretare), emblema della razionalità, a scoprire la verità sul mondo.

    Se di fantascienza si tratta, è fantascienza di concetto, coltissima e raffinata (basti pensare alla scena onirica in cui Zed si aggira nella biblioteca, prima leggendo e poi distruggendo tomi su tomi), che spesso cede il passo al sesso softcore (il che è sempre misurato e sembra quasi ineluttabile, considerando che il Connery d’epoca si trova in un mondo popolato da donne immortali che hanno scelto, bontà loro, di non praticare più il sesso).

    Qui dentro non vedo altro che la mia perplessità: il sapere non basta.

    Ambientazione

    Zardoz è ambientato in un singolare mondo (forse più di uno) post-apocalittico (non sappiamo cosa sia successo prima) che Boorman specifica chiaramente essere di natura matriarcale (asessuata o sessuofobica), che rappresenta un vortex (vortice), un mondo dominato da esseri immortali dai poteri telepatici. Zed (il protagonista interpretato da Sean Connery) ha violato deliberatamente le regole e si è introdotto in questo mondo, venendo catturato ed accolto con diffidenza. Per questo verrà tenuto prigioniero e introdotto lentamente in quella società: un universo fantasy che sfoggia statue della cultura classica, tavole imbandite, porte che si aprono in automatico, anelli in grado di proiettare ologrammi e schermi giganti.

    Il vortex è comunque un mondo chiuso, in cui è molto difficile entrare e sembra quasi impossibile uscire, dato che è confinato da una cupola trasparente, che nessun uomo, da solo, può spostare o disattivare in alcun modo.

    Zardoz peraltro (il che fa forse sorridere, visto oggi) si vede nella prima sequenza, e molto didascalicamente (per preciso volere della produzione dell’epoca) Boorman fu costretto ad aggiungere a titolo di “spiegone” per il grande pubblico.

    Lo stesso dio dichiarerà esplicitamente, poco dopo, la natura matriarcale di quel mondo: il fucile è il bene, lo sperma è il male (nell’originale “The gun is good! The penis is evil!“).

    Ti piace dormire?

    Sì.

    Perchè?

    Faccio dei bei sogni.

    Zardoz è un film bizzarro – e lo è ad ogni livello, il che non sarebbe male se non fosse per alcune evitabili lungaggini, una narrazione diluita all’infinito, oltre che fin troppo figlia dell’epoca (c’è la parte onirica tipo Il serpente di fuoco – e anche un po’ alla Lynch ante-litteram – mentre tanti personaggi si comportano irrazionalmente come hippies sotto LSD, e più volte si ha la sensazione che gli stessi vivano in una comune o setta). Del resto non si tratta dell’ennesimo post apocalittico metropolitano e ostinatamente violento, bensì (in modo più lavorato) un qualcosa che immagina più mondi a se stanti, comunicanti tra loro, che l’eroe Zed (un po’ come il samurai Izo, in grado di viaggiare nel tempo e nello spazio) ha osato violare.

    Sono peraltro riconoscibili almeno cinque diversi gruppi di umani: i Bruti (a cui appartiene Zed), gli Eterni, i Rinnegati, gli Apatici e gli Sterminatori. Una vera e propria mitologia inventata da zero, con tutto il fascino e tutti i rischi del caso (in mancanza di riferimenti precisi, in effetti, il film galleggia in una bizzarra dimensione psichedelica che a volte, specie nella seconda parte, tende a disorientare il pubblico).

    Nulla di strano se si pensa che John Boorman, all’epoca, era reduce dalla delusione di non aver potuto finire Il signore degli anelli di Tolkien, un film a cui dovette rinunciare via degli eccessivi costi a cui si era opposta la United Artists. Zardoz, sulla falsariga dell’idea di girare un fantasy di quel tipo, venne scritto a quattro mano assieme a William Stair, collaboratore storico del regista. Nel farlo, la coppia si ispira ad una curiosa filosofia proto-accelerazionista: concepisce una trama sui problemi di un’umanità che si precipita nel futuro, e che lo fa a velocità talmente elevata che le emozioni sono rimaste indietro. Ed è proprio questa la chiave di lettura del mondo passivamente egualitarista, asessuato, impassibile e matriarcale che discrimina Zed, considerandolo poco più di una bestia da soma.

    Del resto, viene detto nel film, il mostro è uno specchio, e quando lo guardiamo vediamo i nostri volti segreti, a testimoniare la potenziale interpretazione psicologica della trama, sulla base delle teorie di Freud e Lacan, per quanto imbellettata da trovate forzatamente new age. Del resto il conformismo di quel mondo, che arriva a bandire l’unico dissidente ad un tavolo mediante telepatia, fa anche pensare alle trovate di Scanners di David Cronenberg. Il pensiero uccide, ed è la caratteristica forse più inquietante del mondo in cui deve muoversi Zed. Che scoprirà, curiosamente, nella Morte il senso dell’esistenza, unico modo per demolire la crisi di valori del vortex, popolato da immortali che non danno (estremo paradosso) alcuna importanza alla vita che vivono.

    Il finale misticheggiante, in effetti, a ben vedere è ben più materialista, e sembra evocare grottescamente quello del massacro della Guyana. Non è un finale allegro, ma sembra l’unico possibile – e va valutato in chiave concettuale anch’esso, probabilmente. Quel materialismo non è che il concretizzarsi di una pulsione di morte, frutto della rimozione delle brutture in nome dell’apatia o del doverci essere. O forse è semplicemente il ciclo di accettazione della nascita, vita e morte, che il resto del film (magia del cinema) ci aveva quasi fatto dimenticare per qualche ora.

  • Oltre il guado: folklore e horror del film di Bianchini

    Oltre il guado: folklore e horror del film di Bianchini

    Un etologo sta seguendo alcune tracce nelle foreste sperdute tra Fruili e Slovenia, monitorando gli animali che attraversano la zona. Una telecamera montata sul corpo di una volpe gli mostra una località sconosciuta, apparentemente abbandonato, giusto oltre il fiume…

    In breve. Notevole horror italiano che non ha nulla da invidiare alle produzioni più blasonate e citate. Bianchini è un talento del genere e rielabora a modo proprio, con grande stile, archetipi lovecraftiani e fulciani. Da non perdere.

    Oltre il guado di Lorenzo Bianchini potrebbe rientrare in quei film che, pur non potendo piacere a chiunque – perchè nessun film ci riesce, in fondo – riescono lo stesso a far parlare di sè. E questo avviene per meriti veri: perchè, diversamente da troppe produzioni indie (troppe delle quali tendono ad essere iconiche quanto stucchevoli, quando non puramente masturbatorie) si esprime finalmente in un linguaggio robusto, propinando una storia accattivante ed una fotografia nitida. Nonostante qualcuno sia stato tentato ad accostarlo allo pseudo-snuff della strega di Blair, infatti, Across the river va molto oltre; addirittura, in certi passaggi mostra indirettamente cosa sarebbe potuto essere il discusso film di fine anni 90 di Myrick e Sanchez, uno dei primi casi di pellicola promossa grazie al viral marketing e alle fake news sul web.

    Se è vero che da tempo l’horror ha trovato una nuova dimensione nei deliri new horror di Laugier, Roth e Gens, in grado (con gradazioni diversissime) di modernizzare ed innovare il genere, al tempo stesso bisogna constatare che l’altra tendenza, parallela, è quella dell’essenzialità esistenzialista e paranoica degli horror scarni, impalpabili e diretti come Buried, Haze e naturalmente questo. Probabilmente, uno dei migliori del suo sotto-genere, almeno tra quelli usciti negli ultimi anni.

    La storia di Oltre il guado è quella di un etologo avventuriero, incuriosito dai misteri di un bosco che si scopre contenere un antico paese, abbandonato dal dopoguerra; in questo, Bianchini non risparmia dettagli contestualizzanti, facendo raccontare parallelamente la storia a quelli che sembrerebbero essere due anziani ex abitanti. Al tempo stesso, la narrazione è condotta da elementi minacciosi (la natura ostile – e il fiume, soprattutto) ed altri relativamente rassicuranti (il camper, il computer, il fucile con visore notturno); col tempo, la parte rassicurante della storia si dilegua, sembra quasi farsi consumare dall’insistenza di quella pioggia battente.  E questo crea una tensione palpabile a cui è impossibile dare una spiegazione, e in grado di tenere lo spettatore incollato alla poltrona fino alla fine.

    Il protagonista resta infatti intrappolato nel villaggio, ed il pubblico è costretto ad affiancarlo nel suo spaventoso isolamento. Attenzione poi a pensare al solito b-movie “isolazionista” e girato alla buona: in questo bisogna saper valutare, a mio avviso, lo spirito sincero che muove Bianchini nel voler dirigere Oltre il guardo, un film indipendente assai pregevole. In fondo, chi va al cinema, non dovrebbe neanche sapere se sta vedendo un film dal budget milionario o di pochi euro: il biglietto da pagare, il più delle volte, quello è. Pregevole, folkloristico, pluri-premiato e (per una volta) molto facile da reperire online (c’è su Netflix).

    Se la storia è di per sè basilare, si riesce a svolgere in modo essenziale e particolarissimo, insistendo su elementi ricorrenti quanto suggestivi: elementi semplici, soprattutto, come l’acqua che invade l’ambiente di continuo (per un motivo che si capirà nel finale), e risparmiando i dettagli cruenti e splatter a semplici suggestioni, vaghi rimandi: il tanto che basta. Per il resto, la paura di Oltre il guado è quella di risate isteriche nella notte, isolamento notturno, porte e finestre che sbattono, mancanza progressiva di viveri, presenze che si dissolvono ed oggetti molto utili che scompaiono nel nulla.

    Mi sembra anche difficile cogliere precisi riferimenti ad altri film o cineasti, per quanto riesca ad essere personale questo eccezionale regista che comunque sembra conoscere sia Lovecraft che Lucio Fulci. A mio avviso, il vero merito è quello di aver saputo declinare, con mezzi e modi adeguati ai tempi di oggi, la celebre intervista a Fulci, quella in cui affermava che “l’orrore è pura idea“: in Across the river si sviluppano idee, archetipi della paura di ogni tempo, e sostanziali quanto imprecisabili sono i rimandi a molti generi (su tutti, l’uomo punito per la propria morbosa curiosità, per aver osato profanare segreti che dovevano rimanere tali – di natura chiaramente lovecraftiana, per inciso). Ma quello che spaventa davvero di questo film è l’idea di orrore che ogni spettatore vorrà immaginare dietro quella porta, in fondo alla cantina, dentro il camper del protagonista, forse anche negli sguardi dei due misteriosi personaggi più anziani (i cui discorsi sono in sloveno, e sono sottotitolati – credo volutamente – solo nella seconda parte).

    La visione di questo orrorifico one-man show, incredibilmente accattivante nonostante un soggetto restrittivo (il protagonista parla soltanto quando registra i propri appunti, e pochi altri sono i dialoghi del film), potrà comunque richiamare sia classici come La casa che alcuni episodi di AI confini della realtà, con la differenza che il taglio fumettistico/di intrattenimento dei succitati cede il passo ad un realismo concreto, mai esasperante (per intenderci, niente telecamere traballanti nè violenza gratuita di troppi pseudo-snuff). E se ancora non siete convinti di questa visione, considerate la grandissima qualità e nitidezza delle riprese e della fotografia, sempre pulita e modernamente sinistra. A questa qualità latente, poi, si aggiunga un’ulteriore trovata efficace: ovvero le due disgraziate sorelle che, nonostante si nascondano in vari anfratti, si vedono chiaramente e senza inutili misteri. Credo abbastanza convintamente che tanti altri film, più fiacchi, avrebbero insistito con suggerire la suggestione fino a stufare lo spettatore.

    Il tutto dovrebbe bastare a chiunque per trovare un’ottima scusa per gustarsi questa perla dell’orrore nostrano, passata un po’ sottogamba negli scorsi anni – e finalmente a disposizione del grande pubblico mediante Netflix.

    Curiosità: Oltre il guardo è una storia vera e/o è basato su una leggenda locale?

    Ha risposto il regista da Nocturno.it (riporto uno stralcio):

    La storia delle due gemelle maledette che infestano la zona, invece, ha come spunto una qualche leggenda popolare locale?

    No, però, sai, quando scrivi non inventi nulla di nuovo. Rielabori cose del tuo passato che ti hanno raccontato, che hai sentito, e quindi, involontariamente peschi dalla cultura locale popolare, sempre. Di rimando, c’è comunque quello che hai vissuto nella tua terra.

    Poi il fatto che la storia non dia tutte le risposte…

    Credo che sia questo il bello dell’orrore, che nei film horror non devi spiegare, secondo me, o almeno non in questi. Le gemelle possono anche essere state annegate ma non morte ed essere ancora lì, invecchiate, oppure possono essere dei demoni… mi piace il fatto che ognuno vada alla ricerca di una propria storia, di una propria idea. A me non interessava spiegare, se non introducendo i personaggi dei due anziani, cioè la memoria del vecchio, per dare un po’ di veridicità alle gemelle. Ma poi anche lui ha i ricordi sbiaditi, è tutta una cosa non spiegata che a me piace, e risulta realistico.

  • Pontypool: quando l’horror si mette in cattedra e fa accademia

    Pontypool: quando l’horror si mette in cattedra e fa accademia

    Grant Mazzy è uno speaker radiofonico quasi a fine carriera, che conduce il suo programma assieme all’ansiosa produttrice e ad una giovane regista. Durante la diretta arrivano notizie inquietanti: sembra che Pontypool, la città in cui è ambientata la storia, sia stata contagiata da una misteriosa epidemia…

    In breve. Unico nel suo genere quanto vagamente didascalico, certo non un capolavoro: sembra di assistere al primo horror puramente “di parola” della storia. Poco dopo, la storia degenera nel classico accerchiamento da zombi. Non è scontato, a mio avviso, comprendere il focus della trama, e questo non giova alla qualità globale della pellicola. Certamente un film da non sottovalutare, per quanto destinato – nel suo essere fieramente indie – alla nicchia di spettatori più propensa all’orrore puramente metaforico.

    L’interno di una stazione radio è l’insolita ambientazione scelta per questo horror low-budget tratto dal libro “Pontypool Changes Everything” di Tony Burgess, da cui la BBC ha anche tratto – in modo piuttosto scontato, direi – un dramma radiofonico di circa un’ora. Il regista McDonald propone quindi una storia del terrore decisamente anticonvenzionale, basata parecchio sulla parola (e solo in parte sulle immagini), che porta al parossismo il tutto esprimendo l’idea che la lingua inglese sia stata infettata da una specie di meme virale, il quale spingerebbe le persone a diventare zombi assassini (questa, almeno, sembra essere l’interpretazione più plausibile). Per quanto sembri un’idea stramboide – ed in certa misura lo è – merita una standing ovation l’essersi distaccati, quantomeno, dalle consuete cause scatenanti del contagio (alieni, meteoriti, esperimenti militari, cause ignote). Molto meno esaltante la dinamica del film stesso, che tende secondo me a far perdere di vista il focus dell’intreccio costringendo lo spettatore a darsi un paio di scosse, nel terrore di essersi perso qualche dettaglio importante. In due parole: non è troppo chiara la causa del contagio.

    Assolutamente claustrofobica, poi, e piuttosto azzeccata, la scelta di destinare l’ambientazione dell’intero film all’interno della radio, con echi ovvi sia a moltissimi classici zombi movie del passato (La notte dei morti viventi, Zombi), sia al finale di uno dei lavori più sfortunati di Fulci (Zombi 3). Non mi sento quindi di affermare che il messaggio passi chiaramente, e questo per ragioni di sceneggiatura ampiamente discutibili: sia perchè la trama sembra preoccuparsi – più che dare plausibilità alla causa del caos che attanaglia Pontypool – di forzare la mano sullo scienziato che spiega tutto (?), oltre che su uno dei flirt più melensi ed improbabili dell’universo conosciuto. E poi mi spingo oltre: è abbastanza assurdo che uno spettatore medio debba, per godersi il film appieno, leggere i vari “spiegoni” che sono diffusi sul web a riguardo. Il mio ovviamente è un parere personalissimo, può darsi che la sua visione si riveli molto più gradevole per la maggioranza di voi, ed io – per quanto abbia cannibalizzato negli anni pellicole decisamente più contorte, stramboidi e surreali di questa – ho trovato “Pontypool” riuscito solo in parte, immerso com’è nel cercare di fare sociologia del linguaggio “de noantri“, e troppo poco concentrato a produrre un buon horror.

    Da un lato viene ripresa a piene mani, sia dal punto di vista visivo che concettuale, lo zombi romeriano come sinonimo di personalità conformista, ottusamente coinvolta nel ripetere parole come un mantra, e naturale sinonimo di disumanità, cannibalismo e omologazione. Niente male, comunque, per quanto ciò sia parecchio distante dai gusti di quel pubblico horror che predilige l’azione sulla riflessione meta-cinematografica e/o sociale (c’è modo e modo). Si insiste anche, sottilmente, su un ulteriore concetto – quello sì, sanamente radical chic: quello del doversi distaccare dal conformismo della comunicazione verbale per sopravvivere, in particolare da quello dei mass media e, più in generale, delle parole che non significano più nulla, e che si riducono ad un mero ripetersi di idiomi senza significato che ci rendono … morti viventi (maddai). Solo cambiando la semantica, sembra suggerire il regista, ovvero stravolgendo la parola più terrificante che possa esistere (kill) e trasformandola in tutt’altro (kiss), si può riprodurre un barlume di speranza, per quanto questa trovata sia stereotipicamente hippie e (probabilmente) forzata.

    Come se non bastasse, per il regista non si tratta di zombi, bensì di conversationalists – ovvero persone che – avendo saturato il proprio linguaggio – sono involuti allo stato di belve, e desiderano solo strappare la lingua a morsi di qualcun altro. A fine visione del film, può essere richiesta una breve relazione su quanto visto da parte degli spettatori…