Fare le screenshot agli altri


Qualche giorno fa mi è capitata un’esperienza social grottesca: mentre bazzicavo su Twitter/X alla ricerca di contenuti interessanti, ad un certo punto mi imbatto in un account che non seguo direttamente, il quale aveva pubblicato la screenshot (la schermata salvata come immagine) di un sito web. Pubblicare una schermata, in genere, serve a non chiamare direttamente in causa l’autore, ed è generalmente un modo per fare i pettegoli alle spalle degli altri. L’account – che usa a mio avviso indegnamente l’immagine di un celebre attore di inizio Novecento – agisce così per irridere i contenuti del sito, sottolineando l’incongruenza di un passaggio (si tratta evidentemente di un refuso all’interno di un articolo) mentre nei commenti si scatenano le battutine e le illazioni più o meno marcate del caso: come è messa la blogosfera tecnologica, dove andremo a finire signora mia, con tutti questi blogger che ci sono in giro. Si trattava del mio blog, un sito che gestisco da molti anni, e che ho riconosciuto per via del font e della grafica: peraltro, il riferimento al sito è rimasto in chiaro, perché nella smania di condividere evidentemente la persona non ha neanche pensato di toglierlo di mezzo (denotando un’imperizia che, a suo modo, potrebbe essere paradigmatica).

Nella foto: un troll mentre trolla, secondo Midjourney
Nella foto: un troll mentre trolla, secondo Midjourney

Screensciottatoh, ihihihih

L’abitudine di fare lo screenshot per commentare gli status altrui (senza chiamarli in causa) è estremamente diffusa su X, probabilmente mi è capitato di farlo in passato (anche se in genere elimino i riferimenti personali o che rendono riconoscibili gli account), e per quello che vale è patognomonica della nuova gestione. E per come funzionano quelle dinamiche, è anche normale che quando l’interessato si accorga di essere stato “vittima” di questo possa incazzarsi. Mi limito a commentare il thread, a quel punto, scrivendo che non riesco a comprendere per quale motivo sia stato chiamato in causa senza citazione esplicita, e aggiungo che capisco ancora meno perché la persona lo abbia fatto, perdendo il proprio tempo su un sito che manco gli piace. Vai a capire. A volte si dice che chi disprezza vuol comprare (non è in vendita quel blog, anche se rimane nella storia il tizio che mi offrì 2.200€ via PayPal per comprarselo). Perché il punto non è tanto capire perché il sito non gli piaccia – niente può piacere mai a tutti, vale per i dittatori come per i film di Stanley Kubrick – e a pensarci è del tutto irrilevante: il punto, semmai, è capire perché abbia investito il proprio tempo nel fare una cosa del genere.

Le basi della comunicazione

Le basi della comunicazione prevedono un emittente ed un ricevente: fin quando uno fa debunking (forse) ci può anche stare, o ci starebbe segnalare l’errore anche pubblicamente, in modo da aprire una discussione sul gran numero di refusi che effettivamente affliggono i blog tecnologici italiani. Ma nel caso della persona in questione è ratio-suprematismo (neologismo coniato da Wu Ming 1), con richiamo grottesco al suprematismo bianco (quello che afferma la presunta superiorità etica, morale, sociale, politica e/o biologica della razza bianca, in nome di un razzismo freddo quanto pseudo-scientifico). Nei casi più blandi, è un po’ la sindrome del foratore di palloncini, altro fenomeno estremamente diffuso sui social e riassumibile nella frase: illudersi che screenshottare e criticare alle spalle equivalga a combattere in nome di Galileo, Stephen Hawinks e per la gloria dell’internazionale razionalista. In questo modello grottesco, peraltro, l’emittente non si rivolge a un ricevente, ma finisce letteralmente per parlare da solo, generando accidentalmente il fenomeno per cui se qualcuno fa i monologhi in una stazione affollata finirà, prima o poi, per avere i propri fan.

Hate Speech

Siamo all’assurdo, alla negazione di qualsiasi politica sensata di gestione di un social. Parliamo di irridere gli altri come strategia social, per raccattare like e visibilità, oppure si tratta se preferite di un modo di fare pseudo-debunking più simile all’hate speech (un discorso d’odio rivolto a qualcuno oppure, secondo una più caustica definizione, Pretty much means u have a different opinion than somebody). Anche perché si parla di nuove tecnologie, perché l’errore è sempre dietro l’angolo (nessuno non ha commesso mai mai errori, tantomeno i dittatori o Kubrick), soprattutto quando si lavora ad anni ad un progetto di oltre 3000 articoli originali, revisionati, aggiornati e corretti quasi ogni giorno.

Rant

In questi casi il termine in gergo internet più in voga è rant: stando all’urban dictionary, ancora una volta, “parlare ampiamente di un certo argomento molto più a lungo del necessario, indipendentemente dal fatto che a qualcuno interessi o meno“. Del mio blog non importa nulla a nessuno, sono il primo a esserne consapevole – e a sapere che se un giorno quel blog non esisterà più nessuno piangerà o andrà in piazza per questo. che scrive nei blog lo fa per provare a monetizzare o, alla meglio, a farsi leggere da qualcuno, prima o poi, e mette in conto che possano esistere troll della domenica con tendenza all’anaffettività sociale.

Cringe

I troll non devono essere nutriti, questo lo sappiamo dagli anni Novanta, tant’è che ho silenziato l’account non ho neanche controllato se si sia accorto che gli ho scritto (ripeto: non ha importanza). Più che altro mi colpisce che l’hate speech crea consenso, è un bottone fin troppo facile da premere su qualsiasi tastiera, alimenta il desiderio di essere notati ed il nostro egotismo innato, ci fa sentire protagonisti di qualcosa (mentre il mondo sembra andare a rotoli, nello zenith della nostra impotenza). Ul che è servito anche a me per svelare la parte leggermente oscura di account che seguivo, totalmente “insospettabili” e (in alcuni casi) di mia conoscenza / sempre cordiali con me, i quali si conformavano allegramente al mood passivo aggressivo dei risolini e dell’irridere gli altri dall’alto della propria presunta superiorità intellettuale. Non si erano accorti che si parlava del mio blog e si sono scatenati come se fossi un carneade qualunque da prendere in giro, un meme divertente, una cartolina da condividere come un buongiornissimo cringe (imbarazzante, che genera risata nervosa di imbarazzo).

Passivo-aggressivo ricorsivo

Avrei tanto altro da dire, ma la chiudo qui: mi interessava soprattutto l’aspetto sociologico di questo fenomeno e non tanto la ripicca nei confronti dei soggetti in questione (che molto probabilmente neanche ricordano di aver fatto questa cosa). Ovviamente la cosa mi ha colpito nella misura in cui mi interessano sempre le reazioni delle “cose” che pubblico, e immagino pure che gli possa dare una certa soddisfazione (?) il fatto che mi sia spinto a scrivere un articolo su questa storia.

L’ ho fatto a mia volta adeguandomi al mood al passivo aggressivo, e così via, ricorsivamente.

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