ETIMOLOGIE ARTIFICIALI_ (165 articoli)

Contenuti visuali e/o testuali generati da algoritmi combinatori, di Artificial Intelligence. Con presunto buongusto, per il buon gusto di sperimentare un po’.

Benvenuti nell’antro delle parole, dove il passato si intreccia con il presente e l’origine di ogni termine è un racconto da scoprire. In questa sezione, esploreremo le radici linguistiche che plasmano il nostro vocabolario, rivelando le storie nascoste dietro ogni parola che pronunciamo.

Dalle antiche lingue ai moderni idiomi, ogni articolo è un viaggio attraverso le epoche e le culture che hanno plasmato il nostro linguaggio. Scoprirete curiosità sorprendenti, aneddoti affascinanti e collegamenti inaspettati tra le parole che usiamo ogni giorno.

Dai nomi dei giorni della settimana alle espressioni comuni, dalle terminologie scientifiche ai proverbi popolari, qui troverete un tesoro di conoscenze linguistiche da esplorare e condividere.

Preparatevi ad affondare nelle profondità delle radici delle parole, a lasciarvi affascinare dalle loro connessioni e a guardare il linguaggio con occhi nuovi, perché qui, nell’incantevole mondo delle etimologie, ogni parola è un ponte verso la nostra storia e la nostra cultura.

  • Che cos’è davvero l’ideologia woke

    Che cos’è davvero l’ideologia woke

    La cultura o ideologia “woke” è un termine che ha guadagnato popolarità negli ultimi anni, specialmente nei contesti sociali e politici, e si riferisce a una consapevolezza e attenzione particolare verso le questioni di giustizia sociale. Originariamente, “woke” è un termine dello slang afroamericano che significa “essere svegli” o “essere consapevoli”, e si è evoluto per indicare una maggiore coscienza e sensibilità riguardo a vari temi come il razzismo, il sessismo, l’ineguaglianza economica, i diritti LGBTQ+, e altre forme di discriminazione e ingiustizia. Resta vero che in molti contesti, inclusa l’Italia, il termine “woke” viene spesso utilizzato in maniera dispregiativa o come insulto. Questo uso riflette una reazione contro alcune delle idee e delle pratiche associate alla stessa. Come già l’idea del politicamente corretto e della cancel culture, si tratta di una terminologia a retaggio quasi esclusivo di idee conservatrici.

    Un concetto che è stato svuotato, distorto e manipolato in modi che sarebbero ridicoli, se non fossero tragici. Quello che dobbiamo comprendere è che il termine, alla sua origine, aveva una radice di consapevolezza sociale. “Woke“, in inglese, vuol dire letteralmente “sveglio“, “risvegliato“, un risveglio rispetto alle ingiustizie sociali, in particolare quelle legate al razzismo e alle disuguaglianze di classe. Era, insomma, una presa di coscienza dalla realtà brutale in cui viviamo. Ora il problema con il “woke” oggi è che è diventato una sorta di spauracchio, una minaccia invocata dai conservatori e dai neoliberisti, come se fosse il nuovo mostro sotto il letto. Ma in che senso? Il vero mistificatore qui non è il “woke” come concetto di consapevolezza sociale, ma piuttosto come esso viene manipolato e travisato da chi ha interesse a preservare l’ordine capitalistico.

    Il “woke” non è una minaccia per la società; è una risposta al fallimento di una società che non ha mai veramente affrontato il razzismo, la discriminazione e la disuguaglianza economica.

    Se guardiamo alle critiche conservatrici, troviamo un fenomeno interessante: quasi mai viene usato il termine “svegliato” o la traduzione italiana “risvegliato”. Perché? Perché questo sarebbe troppo chiaro, troppo facile da smascherare come un movimento che si basa sulla presa di coscienza. Invece, si preferisce usare “woke”, che suona strano, esotico, come qualcosa di distante dalla realtà della gente. È come se volessero mantenere una distanza tra ciò che è radicale e ciò che potrebbe veramente cambiare le cose. Così, la critica conservatrice al “woke” non è mai una critica all’effettiva consapevolezza sociale, ma una critica a una forma di resistenza, alla possibilità di cambiamento, che minaccia lo status quo. Per certi versi l’assurdità è che si mette in discussione un concetto che è legato a un movimento di liberazione e giustizia sociale. Chi ha paura del “woke” in realtà ha paura di una vera trasformazione sociale, una che sfida le strutture di potere che perpetuano la disuguaglianza. È il classico caso di chi difende la stabilità di un sistema che ha creato queste ingiustizie e non vuole fare i conti con la sua responsabilità storica.

    La minaccia è quella di un sistema che si ostina a negare il bisogno di cambiamento radicale. E, stranamente, è proprio chi sostiene lo status quo che ha paura della “sveglia”.

    Aspetti basilari del “woke

    Mentre la cultura woke ha come obiettivo la promozione della giustizia sociale e l’eliminazione delle discriminazioni, il termine “woke” è spesso usato come insulto per criticare un atteggiamento percepito come eccessivo o intollerante, soprattutto nel contesto di una polarizzazione politica e culturale. Vediamo i principali aspetti di questo fenomeno:

    1. Stereotipi e Caricature: Spesso, chi usa “woke” in modo dispregiativo lo fa per ridicolizzare o criticare chi è percepito come eccessivamente sensibile, politicamente corretto o moralmente superiore. In questi casi, “woke” diventa sinonimo di estremismo ideologico o di intolleranza verso opinioni diverse.
    2. Critiche alla Cancel Culture: Una delle principali critiche alla cultura woke riguarda la “cancel culture” o “cultura della cancellazione”, dove individui o gruppi vengono boicottati o esclusi per comportamenti o opinioni considerati inaccettabili. I detrattori vedono questo fenomeno come una minaccia alla libertà di espressione e un metodo coercitivo di imposizione di norme sociali. La “cancel culture” (o “cultura della cancellazione”) è un concetto che suscita molte discussioni e controversie, e la percezione della sua esistenza e delle sue implicazioni può variare ampiamente. Alcuni vedono la cancel culture come una minaccia reale alla libertà di espressione, mentre altri la considerano un fenomeno esagerato o persino immaginario.
    3. Polarizzazione Politica: In molti paesi, inclusa l’Italia, l’uso di “woke” come insulto è spesso parte di una più ampia polarizzazione politica. Chi critica la cultura woke può farlo per difendere valori tradizionali o per opporsi a ciò che vede come un cambiamento sociale troppo rapido o radicale.
    4. Resistenza al Cambiamento: Spesso, il termine “woke” viene usato in maniera negativa da chi è resistente o contrario ai cambiamenti promossi dai movimenti per la giustizia sociale. Questo può includere opposizione alle politiche di diversità e inclusione, ai diritti LGBTQ+, o alle campagne contro il razzismo e il sessismo.
    5. Appropriazione e Degradazione del Termine: Con il passare del tempo, il termine “woke” ha subito una trasformazione nel suo significato originale. Inizialmente un termine positivo che indicava consapevolezza e impegno sociale, è stato poi appropriato e degradato dai suoi detrattori per discreditare e ridicolizzare coloro che sostengono tali cause.

    Il termine “woke” è in altri termini un’espressione inglese che ha assunto diversi significati e sfumature nel corso del tempo. Originariamente, “woke” è stato utilizzato nel contesto dei diritti civili e della giustizia sociale per descrivere l’essere consapevoli delle ingiustizie razziali e sociali. Nel corso degli anni, però, il termine è stato oggetto di dibattito e ha assunto anche connotazioni più ampie. Oggi, “woke” è spesso usato per riferirsi a una sensibilità o attenzione elevata nei confronti delle questioni sociali, politiche e culturali, come il razzismo, il sessismo, l’omofobia e altre forme di discriminazione. Tuttavia, può essere anche usato in modo critico per indicare un eccesso di sensibilità o percepita ipocrisia nell’affrontare tali temi. In quest’ultimo senso, il termine è spesso utilizzato per criticare persone o movimenti che sembrano enfatizzare in modo eccessivo la loro consapevolezza sociale, a scapito di altri aspetti della discussione.

    Storia del termine woke

    L’uso del termine woke (dal 2012 circa) nel dibattito politico si collocava inizialmente nell’ambito del Black Lives Matter, il movimento attivista che lotta contro il razzismo attraverso periodiche manifestazioni, soprattutto negli USA e in particolar modo nei confronti di frequenti episodi di violenza razziale. Se la pagina Wikipedia di BLM è particolarmente chiara e dettagliata, quella del termine Woke – nell’ipotesi che le tassonomie e le interpretazioni fornite dagli autori di Wiki siano indice, in qualche modo, di una qualche chiarezza collettiva a livello di significato – sono semplicemente confuse.

    Woke viene usato anche in Italia da diversi Youtuber, che sfruttano un po’ l’onda del trend (come del resto proviamo, nel nostro piccolo, a fare anche noi), un po’ finiscono per metterla su un piano che aderisce al bastian-contrariarismo, al pregiudizio spiattellato come manifesto culturale, al gusto di andare “contro” qualcosa che diventa (secondo loro, ma soprattutto secondo i loro seguaci) pensiero critico.

    L’idea a mio avviso assurda è che la carta dell’anti-marketing sia, in definitiva, già abbastanza per collocarsi nella propria nicchia – anche a costo di diventare promotori di pensiero becero e anti-culturale (pensiamo ad esempio ai corsi di seduzione che si alimentano, in molti casi, sull’insoddisfazione sociale da incel). E nel mentre vale la pena ricordare ciò che pensava Hicks sull’anti-marketing.

    Che vuol dire woke

    Il termine “woke“, di per sè, si riferisce in genere a un atteggiamento o una consapevolezza sociale riguardo alle ingiustizie, in particolare legate alle questioni di discriminazione, disuguaglianza e identità. In alcuni contesti, l’uso del termine “woke” sembra voler essere stato associato a un’eccessiva sensibilità politica o a una mentalità eventualmente rigida, che è una mentalità insidiosa perchè finisce per farci aderire ad una mentalità maschia, circolare, autoreferenziale, autogiustificativa, che fa addirittura sembrare “eccessiva” la rivendicazione sacrosanta di un diritto.

    Woke mind virus“, come scrisse una volta Elon Musk su Netflix e sulla sua deriva “politicamente corretta“, a suo dire, può quindi essere impiegato per descrivere un modo di pensare che, secondo alcuni, si starebbe diffondendo troppo rapidamente o in modo troppo dogmatico, influenzando il dibattito pubblico in modo controverso o negativo.

    Le critiche alla cultura “woke” sono interessanti forse più della cultura woke stessa, ammesso che sia quantificabile e qualificabile e che non rientri, come temibile anche per il politicamente corretto, nel nugolo dei nemici immaginari che servono ad avere un bersaglio contro cui scagliarsi, fare dibattiti o scrivere libri. Di fatto, quelle critiche sono interessanti perchè non possono essere ridotte a un’unica provenienza politica, per quanto poi woke venga usato quasi sempre come termine discriminatorio da conservatori di vario ordine e grado. Più in generale questa forma di critiche sono affette da diagonalismo, se preferite sono trasversali, figlie di un irreversibile sparigliamento delle carte che subiamo ormai da molti anni, nella società in cui viviamo.

    Le critiche alla cultura “woke” possono provenire da diverse prospettive e posizioni politiche, e se a volte possono presentare punti di vista vagamente interessanti, in altri casi sono figlie degeneri di benaltrismo, qualunquismo, presunto acume sociale, sfoggio di culturame alternativo e soprattutto desiderio egotico di porsi al di sopra della massa a cui tutti, senza eccezioni, ci riteniamo superiori.

    Vale anche la pena di chiedersi come questa ennesima tassonomia del pensiero, questo tag che etichetta il modo di pensare delle persone (o cerca di farlo, in qualche modo) non sia diversa dall’uso del termine incel (involuntary celibate), ad esempio, e di come il diagonalismo faccia la propria comparsa in una mentalità tendenzialmente sempre più liquefatta, per cui dalla stessa persona potrebbero arrivare discorsi contro il nazi-femminismo (ad esempio) ed essere a propria volta accusati di essere woke nei confronti del razzimo.

    La pagina sul termine Woke di Wikipedia, ad esempio, è attualmente imbottita di dettagli poco chiari in merito, ad esempio la descrizione delle motivazioni che spingono i conservatori all’uso del termine:

    cio che invece la maggior parte delle persone considera normale buona educazione, per esempio non usare termini dispregiativi per persone di colore

    oppure un esempio di quello che caratterizza questo genere di discussioni, ovvero il fenomeno del puntacazzismo:

    Il termine awake, tuttavia, viene tuttora utilizzato dagli oppositori dell’ideologia woke e politicamente corretta per distinguersi appunto dai sostenitori e portavoce di quest’ultima, da qui lo slogan “Awake, not woke”

    Se in questi termini sembra in sostanza di assistere ad un catfight scoordinato e vuotamente irriverente, vale la pena ricordare che le tassonomie si diffondo con facilità sui social, e vale la pena evocare la regola 12 di internet: “tutto quello che scrivi potrà essere usato contro di te“, unita alla successiva regola 13: “tutto ciò che scrivi potrà essere travisato e trasformato in altro“. Che è anche quello che è successo a Pepe The Frog, da webcomic a fumetto simbolo dell’alt-right trumpiana senza soluzione di continuità, con tanto di causa vinta dall’autore.

    Punti chiave della cultura woke

    Ecco alcuni punti chiave sulla cultura woke:

    1. Origini: Il termine è emerso nel contesto della lotta per i diritti civili negli Stati Uniti, in particolare all’interno della comunità afroamericana, come espressione di consapevolezza riguardo alle ingiustizie sociali e alla necessità di restare vigili contro le discriminazioni.
    2. Evoluzione: Negli anni recenti, “woke” è diventato un termine più ampio utilizzato per descrivere chiunque dimostri una particolare sensibilità verso le questioni sociali e sia impegnato in movimenti per il cambiamento sociale e l’uguaglianza.
    3. Critiche: La cultura woke è anche oggetto di critiche. Alcuni ritengono che il termine venga usato in modo eccessivo o che porti a un atteggiamento di superiorità morale. Altri criticano il fenomeno della “cancel culture” associato alla cultura woke, dove persone o aziende vengono pubblicamente condannate e boicottate per comportamenti o opinioni considerati inappropriati.
    4. Impatto: La cultura woke ha influenzato vari settori della società, tra cui media, politica, istruzione e industria. Ha portato a un maggiore dibattito sulle politiche di diversità e inclusione, e a cambiamenti nelle pratiche aziendali e istituzionali.

    In sintesi, la cultura woke rappresenta un movimento che promuove una maggiore consapevolezza e azione contro le ingiustizie sociali, ma è anche oggetto di dibattito e critiche riguardo alle sue implicazioni e modalità di espressione.

    Monologo standup sulla cultura woke

    [Rivolgendosi al pubblico, con tono deciso e un po’ stizzito]

    Ah, questi “woke”… ma chi si credono di essere? Quando ero giovane io, il mondo andava avanti senza tutte queste storie, senza dover stare attenti a ogni parola che esce dalla bocca! Oggi sembra che non si possa dire più nulla senza offendere qualcuno. “Oh, non puoi dire questo, non puoi dire quello”, e perché mai? Perché qualche gruppo di ragazzini che vive su internet ha deciso che ora bisogna cambiare tutto? Che ora bisogna stare sempre sul chi vive per non urtare la sensibilità di qualcuno?

    I “woke”… mah, io li chiamo “svegliati”, ma non nel senso buono! Sembrano sempre pronti a saltare addosso a chiunque non si allinei con il loro modo di pensare. Hanno quest’idea che il mondo debba essere un posto perfetto, dove nessuno si offende mai e tutti si sentono sempre accettati. Ma vi pare normale? Quando ero giovane io, si cresceva affrontando le difficoltà, non scappando da esse. E invece questi qui cosa fanno? Si rifugiano dietro uno schermo e si mettono a fare le prediche su come dovremmo vivere, come dovremmo parlare, come dovremmo pensare. È tutto sbagliato!

    E poi, questa tecnologia! I social, internet… non fanno altro che amplificare le loro lamentele. Ai miei tempi, se avevi qualcosa da dire, lo dicevi in faccia! Adesso invece scrivono tutto su Twitter, Facebook, TikTok, e pensano che le loro opinioni siano l’unica verità. Non c’è più il rispetto per le opinioni altrui, non c’è più la discussione vera. Se non sei d’accordo con loro, sei automaticamente un nemico, un “bigotto”, un “ignorante”. E tutto questo per cosa? Per sentirsi superiori, per sentirsi moralmente migliori.

    E non parliamo di questa ossessione per i “pronoun”, per “inclusività”. Ora devi chiedere il permesso pure per usare “lui” o “lei”. Non si può più parlare di uomo o donna senza fare attenzione a non offendere qualcuno che magari non si identifica in nessuno dei due. Ma stiamo scherzando? Questo mondo sta diventando assurdo, vi dico! Ai miei tempi, le cose erano semplici. C’era un uomo, c’era una donna, e punto. Non c’erano tutte queste complicazioni.

    E sapete cosa mi fa più arrabbiare? Che queste idee stanno prendendo piede ovunque! Nelle scuole, nelle università, persino nei posti di lavoro. È come un virus che si diffonde e che non possiamo fermare. Io, però, non mi arrendo. Non mi farò piegare da queste sciocchezze. Non ho bisogno di un gruppo di “svegliati” che mi dica come vivere la mia vita. Ho vissuto abbastanza a lungo per sapere cosa è giusto e cosa è sbagliato, e non sarà una moda passeggera a farmi cambiare idea.

    [Concludendo, quasi con rassegnazione]

    Ah, se solo potessero vedere quanto è ridicola questa loro battaglia… Ma tanto, tra qualche anno, quando cresceranno, si accorgeranno da soli di quanto tempo hanno sprecato a cercare di cambiare un mondo che, in fondo, non cambierà mai davvero.

  • Che vuol dire triggerare

    Che vuol dire triggerare

    Triggered (da cui deriva la forma italianizzata triggerato e triggerare, che si legge triggherare) nasce nel gergo informatico e, per estensione, in quello delle community, delle board tipo 4chan e dei social network in generale. Trigger in inglese significa grilletto, per cui triggerare si potrebbe tradurre come innescare, far scattare e (per estensione) far arrabbiare, stuzzicare, punzecchiare, far uscire di testa. Un esempio classico è quello dei troll, che sono i disturbatori nelle community online che ad esempio inseriscono un commento fuori luogo nel profilo di un politico giusto per il gusto di farsi bannare o di stuzzicare gli altri.

    Secondo l’urban dictionary, triggerato fa riferimento ad una reazione emotiva / psicologica causata da qualcosa che, con modalità variabili caso per caso, in qualche modo si riferisca ad un qualcosa che urti la sensibilità di qualcuno. Ad esempio, evocare ricordi scatenanti rispetto a persone che abbiano subito un trauma o un dispiacere profondo, in modo anche abbastanza sprezzante delle sensibilità altrui.

    In ambito informatico, nel web e lato Javascript, un trigger è un particolare metodo che emula il comportamento di un utenti che fa click su un componente, oppure apre un menù, tutto questo lato codice quindi come se lo facesse un bot al posto suo. Bot che, pertanto, viene triggerato lato codice JS.

    Triggerare in Arancia meccanica

    Il concetto di “triggerare” rappresenta un aspetto cruciale nell’ambito della psicologia e della salute mentale, poiché evidenzia la complessità delle risposte emotive umane e il legame profondo tra gli eventi del passato e le esperienze attuali. Nel romanzo distopico di Anthony Burgess, “Arancia Meccanica“, e nel film omonimo diretto da Stanley Kubrick, il protagonista Alex è un esempio emblematico di come certi stimoli possano scatenare risposte emotive e comportamentali intense, riflesso di una psiche tormentata e vulnerabile.

    Immagine tratta da IMDB.COM
    Immagine tratta da IMDB.COM

    La narrazione di “Arancia Meccanica” si snoda attraverso una serie di eventi straordinariamente violenti, nei quali Alex e i suoi “drughi” si impegnano in atti di estrema brutalità. Tuttavia, la violenza di Alex non è solamente il risultato di un impulso criminale, ma è radicata in un contesto più ampio, caratterizzato da traumi passati, dinamiche familiari complesse e una società disfunzionale.

    Cos’è un trigger

    Il concetto di trigger (letteralmente grilletto) si manifesta in diverse occasioni nel corso del racconto, poiché determinati stimoli o situazioni evocano ricordi dolorosi o reazioni emotive violente in Alex. Ad esempio, le immagini di violenza nei media, le melodie di Beethoven (utilizzate nel film come parte della tecnica di “trattamento” di Alex), o il confronto con figure di autorità possono attivare risposte viscerali che lo riportano ai suoi trascorsi di delinquenza e di punizioni brutali.

    La complessità di Alex come personaggio risiede proprio nella sua vulnerabilità e nelle sue contraddizioni interne. Se da un lato emerge come un individuo privo di empatia e incline alla violenza gratuita, dall’altro si intravedono tracce di sofferenza e fragilità psicologica, alimentate da un passato segnato da abusi e disfunzioni familiari.

    Il ruolo dei trigger nella vita di Alex sottolinea l’importanza di considerare il contesto psicologico e le esperienze passate di un individuo nel comprendere il suo comportamento presente. Le ferite emotive e i traumi non risolti possono permanere nell’inconscio di una persona, influenzando le sue reazioni e i suoi atteggiamenti di fronte a determinati stimoli.

    Inoltre, la figura di Alex solleva questioni più ampie riguardanti la natura della violenza e della criminalità. Sebbene sia indubbiamente responsabile delle sue azioni, la sua storia personale e il contesto sociale in cui vive mettono in luce le complessità della condizione umana e la necessità di approcci più compassionevoli nella gestione della devianza e del disagio mentale.

    Immagine tratta da IMDB.COM
    Immagine tratta da IMDB.COM

    In conclusione, il concetto di trigger ci ricorda che le nostre esperienze passate hanno un impatto profondo sul nostro presente e sulle nostre reazioni emotive. Attraverso l’analisi di personaggi come Alex in “Arancia Meccanica”, possiamo approfondire la nostra comprensione della psiche umana e dell’interazione complessa tra ambiente, esperienze personali e comportamento individuale.

  • L’appartamento numero 1 (Creepypasta)

    L’appartamento numero 1 (Creepypasta)

    Nascosto in un glitch di strada di una cittadina italiana, c’era un edificio che sembrava esistere fuori dal tempo, come se qualcuno avesse dimenticato di aggiornare il suo codice. Tre piani di mattoni consunti, ogni fessura una riga di un linguaggio antico, compilato con errori che nessuno aveva mai corretto. Al centro, l’appartamento numero 1. Il suo nome rimbalzava nei thread locali, nei forum sotterranei, nei racconti scambiati nei bar con sguardi sfuggenti. Chiunque avesse abitato lì ne usciva… diverso.

    Marco e Sofia erano il tipo di persone che non credevano alle storie. «Solo bug nella matrice della superstizione», diceva Marco, con la sua mentalità da programmatore. Lei rideva, ma nei suoi occhi si accendeva una scintilla di cautela. Presero l’appartamento. La serratura scattò con un suono che non sembrava meccanico, ma biologico. Dentro, il Wi-Fi andava e veniva, come se qualcuno intercettasse i pacchetti di dati prima di restituirli mutilati. Le prime settimane furono normali. Poi, i processi in background iniziarono a consumare troppe risorse.

    Marco si immerse nel lavoro, codice dopo codice, righe infinite che si accavallavano nella sua mente anche a occhi chiusi. Sofia, invece, iniziò a isolarsi, a guardare il monitor spento per ore, come se qualcosa le rispondesse. I vicini notarono il glitch nella loro routine. Le luci lampeggiavano a intermittenza, come se qualcuno eseguisse una scansione della realtà. Di notte, sussurri emergevano dai muri, pacchetti di suoni corrotti che formavano parole senza sintassi.

    Poi, il vicino curioso. Un tipo prudente, ma curioso. Sfruttò un momento di assenza della coppia per forzare la porta. Dentro, le pareti erano un dump di dati impazziti: parole scritte ovunque, stringhe di codice che sembravano non avere senso, ma che, lette nella giusta sequenza, evocavano qualcosa di sbagliato. Al centro della stanza, un’unica immagine: Marco e Sofia, ma i loro volti non erano più umani. Gli occhi erano neri, pozzi di un errore di sistema, finestre aperte su qualcosa che non doveva essere visto.

    Il giorno dopo, l’appartamento era vuoto. Nessun segno di Marco e Sofia. La loro presenza cancellata come un file corrotto. Gli hard disk dei loro PC erano formattati. Nessuna traccia nei log del condominio, nessun segno nei backup della memoria collettiva della città.

    Ma ogni tanto, nei server DNS della zona, appare un indirizzo sconosciuto, un pacchetto dati fuori posto. E se qualcuno lo apre, se qualcuno segue la traccia di quel link spezzato, la connessione si chiude improvvisamente. E nel riflesso dello schermo spento, per un istante, ci sono due figure con gli occhi vuoti che guardano indietro.

  • Programmava da ore (creepypasta)

    Programmava da ore (creepypasta)

    Nel buio totale di una notte d’inverno, tra le mura fredde di un ufficio che non aveva mai visto luce se non quella del monitor, Ethan, un giovane programmatore, stava perdendo la cognizione di sé. La scadenza si avvicinava. Un progetto critico, il cuore pulsante del suo futuro, ma lui lo sapeva, aveva superato il limite. La sua mente era già andata in overflow.

    Il codice scorrevano sotto le sue dita come un fiume impazzito. Le ore non avevano più significato. Non c’erano più numeri, solo linee, variabili, loop che si ripetevano in una continua sequenza senza fine. Ogni tasto che premeva sembrava un respiro. Il suo corpo? Non esisteva più. L’unico suono era quello della tastiera, che batteva nell’aria gelida come una sentenza.

    La luce blu del monitor rifletteva sul suo volto, pallido e sfinito, come se stesse leggendo codici di morte. Le lancette dell’orologio stavano accelerando, ma il tempo stesso sembrava stare fermo. Ogni istante si dilatava, eppure lui era prigioniero di quella tela invisibile fatta di bit. La sua mente si era fusa con il lavoro, il suo corpo era ormai solo una macchina, una periferica senza nome, senza scopo.

    Poi arrivò il bug. Un errore. Piccolo, insignificante, ma sufficiente a spezzare il fragile equilibrio. Le dita si bloccarono sulla tastiera. La sensazione era come se fossero diventate un tutt’uno con la macchina, radicate nel metallo e nei circuiti. Un dolore lancinante si insinuò nel suo corpo, ma non poteva urlare. Non poteva neppure muoversi. Ogni tentativo di distogliere lo sguardo dal monitor veniva respinto, come un comando che non veniva eseguito. La tastiera, ora, lo stava tenendo prigioniero.

    Le dita di Ethan erano intrappolate, come se una forza invisibile li avesse impiantati nei tasti, come se il codice stesso lo stesse assorbendo. La carne si stava sciogliendo, ma non c’era dolore fisico. C’era solo la consapevolezza che stava diventando qualcosa di diverso. La tastiera non era più un oggetto, ma una prigione. La macchina non era più sua, ma un’entità che lo stava trasformando.

    Il monitor si distorceva, il suo schermo tremava, e con esso la sua visione. Le luci cambiavano, mutavano in colori aberranti, come se fosse stato risucchiato in un’altra dimensione, quella di un mondo digitale che lo stava reclamando. Le sue ossa si frantumavano in comandi, i suoi pensieri in stringhe di codice.

    Quando Ethan cedette, il suo corpo non era più un corpo. Era parte del flusso. Il suo sacrificio era completo. Il giovane programmatore era diventato una variabile persistente nel sistema, una funzione senza fine nel codice che aveva scritto, in un’eterna esecuzione che non terminava mai.

    Da quella notte, si dice che nell’ufficio vuoto, quando le luci si spengono e il silenzio si fa opprimente, si sentano i tasti premuti. Come se qualcuno stesse ancora scrivendo, come se qualcuno fosse ancora lì, intrappolato in un loop infinito. Se ti siedi davanti a quella tastiera, puoi sentire le sue dita prendere le tue, guidandole in un’altra riga di codice, un altro ciclo che non finisce mai. E in quell’abisso digitale, dove la realtà si fonde con il byte, diventi solo un altro errore che non verrà mai corretto.

  • Grazie per aver letto questo articolo del blog ♠ ♠

    Grazie per aver letto questo articolo del blog ♠ ♠

    Nell’abbracciare l’eleganza delle parole, ci troviamo oggi a esprimere un profondo e sentito ringraziamento a tutti i nostri stimati lettori. È con una gratitudine senza fine che ci rivolgiamo a voi, il cuore pulsante di questa comunità intellettuale, per il vostro continuo sostegno e la vostra generosa partecipazione.

    La vostra fedeltà è stata la forza motrice che ha illuminato il nostro cammino attraverso le intricate vie del sapere e dell’esplorazione concettuale. Con un plauso sincero, riconosciamo il vostro impegno nel nutrire la mente attraverso le pagine delle nostre pubblicazioni. La vostra sete di conoscenza è la linfa vitale che ci spinge a perseguire l’eccellenza e a superare ogni sfida letteraria.

    In questo viaggio condiviso, abbiamo assistito a un’interazione stimolante e a una connessione profonda con idee che vanno al di là delle pagine stampate. Il vostro impegno nella ricerca della verità e nella comprensione delle sfumature concettuali è un faro che guida il nostro impegno giornaliero. Siamo grati per la vostra curiosità incessante, che ci ispira a spingere costantemente i confini dell’analisi e della riflessione.

    Ogni commento, ogni condivisione e ogni discussione intrapresa con voi è un tesoro di prospettive e intuizioni che arricchisce il nostro lavoro. La vostra critica costruttiva è stata una bussola affidabile, orientandoci verso un miglioramento continuo. Siamo consapevoli che il nostro impegno letterario è reso più significativo dalla vostra presenza costante e dalla vostra partecipazione attiva.

    Oltre al vostro sostegno tangibile, riconosciamo con gratitudine la bellezza implicita nelle relazioni che si sono sviluppate nel corso del tempo. La vostra presenza, seppur virtuale, ha dato vita a una comunità di pensatori e sognatori che condividono l’amore per la parola scritta. Ogni lettore è una stella che contribuisce a formare la costellazione brillante della nostra comunità.

    In conclusione, il nostro ringraziamento non è solo un atto formale di cortesia, ma una dichiarazione profonda di gratitudine. Siete il fondamento su cui poggia il nostro impegno per fornire contenuti di qualità e stimolanti. Vi chiediamo di continuare a condividere il vostro prezioso feedback e di far crescere con noi questa sinfonia di pensieri e parole.

    Con profonda riconoscenza,