CULT_ (114 articoli)

Gli imperdibili: una selezione di pellicole da non perdere per qualsiasi appassionato del genere horror, commedia, thriller, trash.

  • L’horror girato come uno snuff: August Underground’s Mordum

    L’horror girato come uno snuff: August Underground’s Mordum

    August underground’s Mordum è il secondo capitolo della serie di August underground e secondo alcuni è considerato il più inquietante della saga. Sì, perchè esiste una saga horror USA (distribuita dalla Toetag Pictures) di nome August underground che magnifica le gesta di un killer (interpretato dal regista Fred Vogel) di nome Peter, ponendo le basi ideali dal punto di vista narrativo per film successivi (altrettanto controversi) come The last horror movie, S&Man e l’elenco potrebbe continuare all’infinito.

    Si presenta come un filmato amatoriale a tutti gli effetti, girato dai (finti) serial killer Peter Mountain, la fidanzata Crusty e il fratello Maggot. Sono i presupposti della famiglia perversa su cui si basa anche Non aprite quella porta, in effetti, e parte di quel mood sporco quanto amatoriale viene a ritrovarsi in questa sede. La prima sequenza è già emblematica: Peter si imbatte in Crusty che lo tradisce con Maggot, e scoppia una lite feroce. In seguito inizierà un delirio di omicidi e sadiche torture che non potrà che concludersi con una nichilistica conclusione.

    La visione composta è volutamente compromessa da una telecamera traballante (si tratta di un finto snuff a tutti gli effetti, e anche uno dei più famosi e citati), dal fatto che il protagonista urla ossessivamente la parola fuck, ma è ancora più interessante notare come, visto oggi, un film del genere possa evocare un reality show di oggi particolarmente infimo e pieno di protagonisti isterici e/o urlanti, tanto da conferire al film (mai considerato esattamente nell’olimpo dei capolavori del genere, ovviamente) quantomeno dei tratti sociologicamente coerenti o più grotteschi di quando il film uscì.

    Contestualizzando, era uno di quei film rivolti ad un certo pubblico “adulto e vaccinato”, che aveva visto almeno Cannibal Holocaust, e che cercava singolari strane emozioni da un horror, con lo spirito con cui (mi viene da scrivere) si fanno le ricerche più strane ogni notte su Pornhub. Un horror che si sforzava ad essere massimamente realistico, mostrando, senza filtro e senza evitare alcun dettaglio, protagonisti fuori di testa. Di più: August Underground Modrum era uno di quei film a cui devi credere per forza, nonostante sapessi del finto snuff, questo per dare un senso alla visione, e che rappresenta forse una delle esperienze più spaventose mai ingenerate da un film (almeno per l’epoca, siamo nel 2003).

    Tra killer omofobi, atti autolesionisti e feticistiche perversioni sessuali di ogni genere, August Underground Modrum è un unicum che forse, oggi, non dovrebbe più vedere nessuno (non si avverte realmente la necessità di farlo, a ben vedere), e che dovrebbe rimanere lì, nascosto, nella collezione segreta dei filmati non raccontabili che in molti custodiscono su dischi rigidi criptati con su scritto (magari) “Backup vari”.

    Ecco alcuni video correlati al film.

  • Under suspicion: scrutando la verità

    Under suspicion: scrutando la verità

    Nel cuore di una città affascinante e misteriosa, un rispettato avvocato di nome Henry Durand (interpretato da Hugh Jackman) si trova a un bivio tra il dovere professionale e la moralità personale quando viene incaricato di indagare su Richard Ames (interpretato da Anthony Hopkins), un carismatico uomo d’affari sospettato di aver commesso un brutale omicidio. Ciò che sembra essere un caso aperto e chiuso si rivela ben presto un labirinto di menzogne, inganni e segreti.

    Man mano che Henry Durand interroga Richard Ames, l’atmosfera si surriscalda, e una partita psicologica inizia tra i due uomini. Le verità svelate sono spesso contorte e difficili da decifrare, portando lo spettatore a dubitare costantemente delle motivazioni dei personaggi. Nel corso delle interazioni serrate, emergono passati oscuri, relazioni tese e rivelazioni scioccanti che mettono in discussione la natura stessa della giustizia e della colpa.

    Cast

    • Gene Hackman: Henry Hearst
    • Morgan Freeman: Capitano Victor Benezet
    • Thomas Jane: Ispettore Felix Owens
    • Monica Bellucci: Chantal Hearst
    • Nydia Caro: Isabella
    • Pablo Cunqueiro: Detective Castillo

    Curiosità:

    • Il film “Under suspicion” è un remake del film francese del 2000 “Garde à vue”.
    • La chimica tra Hugh Jackman e Anthony Hopkins sullo schermo è stata particolarmente acclamata dalla critica, aggiungendo tensione e intensità al confronto tra i loro personaggi.
    • La regia attenta e lo stile visivo distintivo del regista hanno contribuito a creare un’atmosfera di costante tensione e sospetto.

    Produzione:Under suspicion” è stato diretto da un regista rinomato per i suoi thriller psicologici e complessi intrecci di trama. La produzione ha fatto affidamento su location suggestive che hanno contribuito a creare l’ambientazione tetra e sfuggente del film. La sceneggiatura è stata raffinata per accentuare i dialoghi taglienti e gli scambi intensi tra i protagonisti. La colonna sonora originale, composta da un maestro della musica cinematografica, ha ulteriormente amplificato l’atmosfera tesa e ha aiutato a guidare gli spettatori attraverso i momenti di sospetto e incertezza.

    Under suspicion è un’esperienza cinematografica coinvolgente che sfida il pubblico a mettere in discussione la realtà e ad esplorare i confini etici della giustizia. Con un cast stellare e una trama avvincente, il film offre uno sguardo penetrante nel lato oscuro dell’animo umano.

  • 976 – Chiamata per il diavolo: il numero che non dovresti mai comporre

    976 – Chiamata per il diavolo: il numero che non dovresti mai comporre

    Hoax, un classico nerd americano, vive con la madre Lucy (fanatica religiosa) ed il cugino Spike: quest’ultimo, tra una partita a carte ed un giro in moto, usa chiamare un servizio telefonico per ascoltare l’oroscopo. Così facendo instaura una linea diretta con Satana in persona…

    In breve. Discreto horror ottantiano, per quanto vagamente trash nell’idea di fondo; diretto da Englund (l’interprete storico di Freddy Krueger) in persona. Non fatevi troppe illusioni: qualche momento di tensione, intervallato da una trama debole (a tratti un po’ noiosa), e i momenti spettacolari relegati soltanto alla seconda parte del film. Non malissimo l’idea e l’interpretazione, tutto sommato, ma lo spavento ed il coinvolgimento restano poca cosa, rivisto oggi. 

    976 chiamata per il diavolo“: e per ascoltare il tuo oroscopo, componi il “666“. Dovrebbe bastare questo per comprendere l’elevato coefficiente b-movie della pellicola di Englund. Un cinema che se ne sbatte degli effetti, e in parte dello spessore della trama, e si butta a capofitto in un racconto lento, esaltante solo a tratti. Lanciato in Italia dalla (involontariamente, s’intende) ridicola tagline:

    Pregate Dio di trovare occupato

    si tratta di un film che barcolla sui consueti stereotipi del genere, tra cui il ragazzo buono tormentato dai bulli, il cugino buono-ma-tamarro cresciuto per strada ed il condizionamento religioso sul carattere del protagonista. In tutto questo si infila il satanasso, che – chissà per quale motivo, riceve le telefonate in vece di un vecchio risponditore automatico progettato da uno strano tizio. Si tratta soltanto di assaggi, di suggestioni demoniache, e nulla più: e poi ammettiamolo, realizzare un horror con una voce al telefono, qualche tarantola, un pentacolo, un tale che scrive per una rivista di miracoli (amen), due lucine a mo’ di sabba e pochissimo altro è troppo poco rispetto a quello che ci si aspetterebbe.

    Nonostante gli effetti speciali da serie TV, comunque, qualche lato positivo si riscontra: mi è piaciuta l’interpretazione di Sandy Dennis, la madre ultra-cattolica, che assume più che altro il tono della classica macchietta parodistica di un certo modo di intendere la religione: il finale, per la cronaca, riserva uno straccio di effetti speciali e qualche momento divertente permeato, in misura molto diluita, dell’ironia che contraddistingue il buon Nightmare. Nonostante questo, la conclusione della vicenda risulta meno credibile della fine di un giallo all’italiana fatto male (ed ho detto tutto). Tra le chicche, un piccolo omaggio alle artigliate di Krueger e la personificazione del demone che ricorda, in certe movenze, quella del celebre mostro interpretato dal regista. In certi momenti, poi, non si capisce perchè il diavoletto debba muoversi alla Michael Jackson di Thriller.

    Per fan del genere e del periodo, e probabilmente per nessun altro.

  • La Dama Rossa uccide sette volte: un piccolo cult italiano da riscoprire

    La Dama Rossa uccide sette volte: un piccolo cult italiano da riscoprire

    Due sorelle crescono assieme al nonno in una suggestiva villa, e sono terrorizzate da un’antica leggenda che racconta di una Dama Rossa assassina. Diversi anni dopo arriva il momento della scomparsa dell’anziano parente (e dell’eredità), e la misteriosa signora sembra essere di nuovo in azione…

    In sintesi. Uno dei più rappresentativi gialli-horror all’italiana del periodo, non esattamente al top e comunque curioso nel proprio svolgimento. Un cast di discreto livello (la Bouchet domina su tutti) per una variazione sul tema abbastanza originale sul tema del ritorno dalla morte. Da riscoprire tutto sommato anche oggi, meglio se da cultori del genere.

    Sulla carta è uno dei più celebri ed equilibrati gialli all’italiana anni 70: piuttosto ritmato, truculento quanto basta e con elementi originali (su tutti, il killer di sesso femminile dichiarato fin dall’inizio). Evelyn, personaggio misterioso ed emblematico fino alla rivelazione conclusiva (neanche troppo clamorosa, alla fine), è la traccia del passato oscuro alla base dell’intreccio, ed in questo richiama seppur timidamente in molti capolavori argentiani. Una carrellata di belle donne, raramente a tale densità (Sybil Danning, Marina Malfatti ed ovviamente l’iconica Bouchet) rappresenta il tocco di classe e “bel vedere” che non guasta l’atmosfera, anzi contribuisce a renderla ancora più malsana e alimenta il tipico gioco dei “tutti sospettati”. In fondo questo film di Miraglia non è che uno dei tanti gialli all’italiana incentrati sulle alterazioni della personalità, il che già da solo – pubblicità subliminale del J&B a parte – non dovrebbe lasciare delusi, anche se l’ho trovato piuttosto inferiore alle aspettative costruite.

    La caratterizzazione delle due sorelle da bambine, macabro e azzeccato mix di innocenza e ferocia, suggerisce quello che sarà il tema portante del film, rilevando così l’aspetto chiave sullo sdoppiamento di personalità. Ma la trama tende a diluirsi in contorsioni deliranti e, come spesso accade in questi casi, un numero eccessivo di dettagli, situazioni, personaggi: quasi sempre, per la cronaca, aspetti legati all’avidità ed alle perversioni sessuali. Caratterizzazioni di fatto ambigue e costruite con discreta efficacia, che non riescono pero’ a risultare troppo funzionali alla storia (salvo alcuni casi, s’intende).

    È questo, in definitiva, che rende il film parzialmente sopravvalutato, anche se una visione probabilmente finisce per meritarla, per via la doppia interpretazione di Bouchet/Pagliai, piuttosto ben focalizzati e con una discreta dose certa convinzione. In definitiva “La Dama Rossa Uccide Sette Volte“, per quanto disponga di suggestioni sopra la media, proprio per il fatto che manca il tocco “da Maestro” tende un po’ a diluirsi nel contenuto (quasi due ore), che risultando per questo un po’ difficile da seguire in tutto il suo svolgimento e con un finale, a mio avviso, interessante per quanto vagamente “telefonato”.

  • Milano calibro 9: il poliziesco firmato Di Leo che appassionò Tarantino

    Milano calibro 9: il poliziesco firmato Di Leo che appassionò Tarantino

    Durante una serie di traffici illeciti nella Milano anni 70 una valigia piena di soldi scompare nel nulla. “L’americano”, un potentissimo boss locale (riferito con “amici influenti in alto, gente senza scrupoli in basso“), vuole vederci chiaro e inizia una ricerca del denaro, che si concluderà con conseguenze inaspettate.

    In breve. Poliziottesco cult, imperdibile. Per Tarantino è uno dei noir più epici del cinema italiano.

    Il film

    Fernando Di Leo firma uno splendido poliziesco a tinte noir che vede protagonisti attori del calibro (neanche a dirlo) di Barbara Bouchet, Mario Adorf ed un ambiguo Gastore Moschin, uno dei beffardi Amici miei di Monicelli.  L’azione si sviluppa in una Milano diremmo romanzesca, che vuole sembrare culla esclusiva del crimine organizzato e dove la polizia sta a guardare il proliferare di delinquenza e pacchi bomba in pieno giorno. Nel frattempo, con toni un po’ moralistici, un po’ di maniera, il nuovo vice-commissario (che sarà presto trasferito) non perde occasione per mettere l’accento sul sistema repressivo dello stato, sulla ricerca di capri espiatori facili e sulla giustizia sommaria che sembra accomunare polizia e criminalità.

    Moschin (alias Ugo Piazza) interpreta un personaggio indimenticabile: se da un lato favorisce l’identificazione con il “buono” della storia da parte del pubblico, dall’altro si mostrerà cupo e privo di scrupoli alla fine. E questo finisce per renderlo un personaggio cult, in definitiva. Meravigliosamente sexy nella parte della “femme-fatale“, dal canto suo, la Bouchet si mostra nella famosa scena della lap-dance vestita di sole perle, e Di Leo indugia su questo molto più del necessario, con sommo gaudio della parte più voyeouristica del pubblico.

    Da ricordare inoltre che una delle scene più crude (l’aggressione con il rasoio all’uomo dal barbiere) è rimasta nell’immaginario dei cineasti a tal punto da avere ispirato Tarantino, a quanto pare, nell’omologo taglio delle orecchie nel suo Le iene.

    E’ il secondo film del genere che ho storicamente avuto occasione di vedere, dopo Milano odia: in entrambi, probabilmente, la componente spietata dell’essere umano si sublima in un turbine di colpi di scena, mostrando inevitabilmente l’aspetto più animalesco dell’essere umano. Il pubblico riesce davvero a palpare la paura in varie situazioni, come nel momento in cui il figlio del barista esita prima di colpire a tradimento, come chi ha visto il film dovrebbe ricordare molto bene.

    Accerchiamento di Ugo Piazza

    Narrativamente parlando, Milano Calibro 9 è incentrato sull’accerchiamento paranoico di Piazza (Gastone Moschin) da parte sia della polizia – che lo fa pedinare – che del personaggio di Rocco, capofila del crimine organizzato convinto che i soldi scomparsi li abbia presi lui.

    La continua negazione da parte del suo personaggio riesce a convincere, di riflesso, anche il più navigato spettatore della sua innocenza, innescando un meccanismo molto simile a quello presente per il personaggio di Ugo Cucciolla in Cani arrabbiati: il twist finale è quasi analogo, per quanto nel film di Di Leo (soggetto tratto da un romanzo cult di Scerbanenco, per inciso) sia addirittura portato all’ennesima potenza.

    Milano calibro 9 e la sua valenza politica

    Mercuri… ma tu forse forse ce l’hai coi ricchi.

    Nonostante le apparenze di film puramente reazionario e “muscolare”, Milano calibro 9 è intriso di critica sociale: sull’amnistia, ad esempio, che è il punto di partenza della narrazione (Ugo Piazza esce dal carcere per questo motivo). Ma anche sulla condizione delle carceri italiane, in cui esiste una situazione problematica e si mette sociologicamente in dubbio – per bocca del “poliziotto buono” Mercuri, interpretato da Luigi Pistilli – la sua efficacia. Fernando Di Leo ha in seguito ammesso che, con occhio critico, le scene in Questura tra il Commissario “fascista” e il “comunista” Mercuri finivano per togliere forza alla storia principale. Ma il lavoro attoriale era così buono che optò per non farlo, alla fine.

    Resta anche da considerare che l’aspetto narrativo della trama, incentrato sulla figura sinistra de L’americano, è anch’esso fortemente politico: è un boss invischiato con i piani alti della politica, per quanto la cosa venga solo citata continuamente e non esplicitata, costringendo il pubblico a riflettere sulla sua natura e sull’ambiguità dei “buoni” e dei “cattivi” della storia.

    La morte di Frank Wolff

    L’attore Frank Wolff – già visto ne Il grande silenzio, ad esempio – muore tragicamente nel 1971, poco dopo aver completato le sue scene, suicidandosi a causa di una probabile depressione di cui soffriva da tempo. Il suo doppiaggio in inglese venne completato da Michael Forest.

    In definitiva, uno dei migliori polizieschi noir mai prodotti, assieme a Tony Arzenta ed alla maggiorparte dei film di Umberto Lenzi.