ANIMAZIONE_ (8 articoli)

Benvenuti nel regno incantato dell’animazione, dove i sogni prendono vita sullo schermo e le emozioni danzano tra colori e forme. Questa sezione è un viaggio attraverso mondi fantastici e personaggi indimenticabili, un’ode all’arte dell’animazione cinematografica in tutte le sue forme e sfumature.

Qui, tra le pagine del nostro blog, esplorerete la magia dell’animazione sotto una luce nuova e affascinante. Da classiche fiabe animate a rivoluzionari capolavori digitali, ogni articolo offre uno sguardo privilegiato dietro le quinte, raccontando storie di creatività, innovazione e passione.

Dalle recensioni approfondite ai profili degli animatori più celebrati, dalle curiosità sul processo creativo alle interviste esclusive con registi e artisti, questo è il luogo dove la bellezza dell’animazione si svela in tutta la sua magnificenza.

Preparatevi ad essere trasportati in mondi sconosciuti, a ridere, a piangere e a innamorarvi di nuovo, perché qui, nell’universo dell’animazione, ogni film è un’esperienza unica e straordinaria che attende di essere scoperta.

  • The house: tre episodi a tema domestico (e domotico), su Netflix

    The house: tre episodi a tema domestico (e domotico), su Netflix

    Una famiglia povera quanto manipolabile. Un early adopter delle nuove tecnologie decisamente stressato. Una padrona di casa ossessionata da ristrutturazioni che non farà mai. Elemento narrativo comune, naturalmente: l’abitazione.

    In breve. Episodi animati con una singolare e vividissima tecnica di stop motion, mossa sui toni della dark comedy (ma anche del cinema sociale), con ispirati spunti satirici sulla società di oggi. Divertente e gradevole, con episodi ben bilanciati.

    Enda Walsh, irlandese classe 1967, scrittore e regista noto per Hunger e, verrebbe da dire, da oggi soprattutto per questo The house, da lui stesso interamente concepito. Un lavoro articolato come una serie antologica di animazione, caratterizzato da tre episodi ambientati in tre epoche diverse (un passato simil-ottocentesco, un presente tecnologizzato e – probabilmente – un futuro apocalittico di inondazioni). Un esempio di cartone animato in stop motion pensato per un pubblico adulto, e che – con le opportune accortezze e avvisaglie educative del caso – anche dei ragazzi potrebbero guardare senza troppi patemi. C’è tanto da scrivere su The house (cosa che faremo), ma volendo sintetizzare i tre episodi potremmo vederli come tre narrazioni parallele sul dramma della perfettibilità, l’ossessione che accomuna tanti di noi a crearsi vite, ambienti e relazioni “perfette”, impeccabili, prive di sbavature, lussuose, asettiche. Tendenza che viene seguita da molti a cominciare dalle proprie abitazioni, dove un granello di polvere non è mai il benvenuto, dove si entra solo con le ciabattine e dove il mood rupofobico è crescente, qualche che sia la ragione (e forse addirittura a prescindere dalla pandemia).

    Avviso – Per esigenze di trattazione, i seguenti capitoli potrebbero contenere spoiler, quindi suggerisco di leggere solo dopo aver visto il film .

    Primo episodio

    Argomenti trattati: conflitto generazionale, dramma familiare, vita confortevole vs spartana

    Ci troviamo nella casa di una famigliola di umile condizione, con due figlie piccole, afflitta da problemi economici e con un padre alcolizzato (oltre che dalle fattezze che richiamano, sia pur vagamente, E. A. Poe). Un giorno in cui l’uomo si è allontanato da casa per stare un po’ da solo, incrocia una misteriosa carrozza in cui un anziano signore, che si scoprirà essere un architetto, parla con lui senza che il pubblico senta ciò che si dicono. Si capirà poco dopo: l’architetto ha proposta al protagonista di cambiare casa, andando a stare in una tutta nuova e progettata sul momento all’unica condizione di firmare un contratto ed abbandonare per sempre la vecchia.

    Moglie e marito accettano, la casa viene fatta in tempo record e si tratta di una villa gigantesca che entusiasma i due adulti: le piccole non sembrano troppo d’accordo, e anzi nutrono una crescente curiosità-ostilità per la nuova casa e per le stranezze che la caratterizzano. Tanto per dirne una, sembra che l’architetto sia un po’ bislacco, e stia ancora facendo delle modifiche all’architettura, alterando addirittura la posizione delle scale e creando autentici paradossi spaziali nella casa, in cui le due bambine finiranno per perdersi. Come in Shining, la casa è popolata da presenza grottesche che occupano alcune stanze (e fissano in modo inquietante i nuovi inquilini). Non solo: come nell’opera king-kubrickiana la casa esercita un influsso straniante sugli adulti, che non solo diventano più severi e distaccati verso le figlie, ma si vestiranno da signori per adeguarsi all’eleganza della stessa, lavorando incessantemente ad accedere un camino difettoso e cucire a maglia una lunghissima coperta. La situazione culminerà in un fuoco purificatore da cui, ovviamente, solo alcuni avranno salva la vita, nella speranza di provare a ricostruire in futuro (forse) basandoci su valori meno speculativi. Un episodio dai toni gotici che ricorda, per certi versi, le prime opere animate di Tim Burton (chi ricorda Frankenweenie e Vincent, ad esempio?),  del cui sottogenere gotico rappresenta un buon excursus. Rimane qualche perplessità sul finale, significativo quanto non propriamente allegro e forse, per certi versi, troppo melodrammatico – soprattutto se si guarda The house come un cartone animato per bambini (cosa che non è): ma anche qui, come dire, basta saperlo dall’inizio.

    Secondo episodio

    Argomenti trattati: la casa come status symbol, nevrosi cittadine, devoluzione, entomofobia, rupofobia

    Il secondo episodio è l’autentico gioiello di The house: anzichè i pelosi e oscuri pupazzetti del primo, abbiamo, questa volta, dei topi antropomorfi come protagonisti. Uno in particolare, forse uno startupper oppure (stando a IMDB) un programmatore, sta cercando disperatamente un finanziamento per la propria società, passando le giornate al telefono a prendere contatti. Al tempo stesso vorrebbe vendere la propria casa, che cura compulsivamente in ogni dettaglio e si sforza di mantenere più che pulita, soprattutto disinfestandola dagli insetti che la assaltano (forse ciò avviene solo nella sua immaginazione, viene il dubbio).

    L’entomofobia non è nemmeno l’unica ossessione del protagonista, la cui antipatia verso blatte e simili va di pari passo, a ben vedere, con quella che proviamo da pubblico verso un topo umanoide pelosetto, vestito come un uomo e che cerca grottescamente di imitarne i tic, le manìe, le nevrosi. Il topolino, infatti, dorme in una cantina desolante e priva di mobilio, illuminata solo dalla luce del proprio smartphone ed il tutto, probabilmente, per non rovinare il lussuoso appartamento in vendita. La domotica scintillante che sfoggia, pertanto, non è per lui autentica fonte di comfort, ma solo un qualcosa da ostentare in presenza di ospiti.

    Lo snodo della storia avviene quando alcuni personaggi (due sorci goffi e ridicolmente vestiti da esseri umani) si mostrano interessati all’acquisto, e si installano letteralmente a casa sua prima ancora di averla comprato, creando una situazione ridicola e paradossale. Situazione che un po’ ricorda certi sketch da teatro dell’assurdo dei Monty Python, ma anche, verrebbe da scrivere, film come Madre! di Aronofsky, dove il tema della home invasion era stato ben sviscerato in modo non dissimile da questo, sia pure (in quel caso) con qualche velleità troppo densa, auto-riferita o etero-riferita che fosse.

    Il secondo episodio di The House è davvero straordinario, sia nella definizione spassosa della nevrosi del protagonista (che, ad esempio, sembra essere riuscito addirittura a sbagliare numero ogni volta che telefonava all’amata compagna) che nel finale, un vero e proprio twist che riporta la dimensione narrativa a quella di comunissimi topi o ratti, in grado di devastare l’appartamento e riducendo, suo malgrado, il protagonista ad un animaletto puramente istintuale, tutt’altro che evoluto. Un dramma grottesco che, in questo caso, non poteva che culminare nella devoluzione della razza-topo (e forse, per induzione, di quella umana).

    Terzo episodio

    Argomenti trattati: attaccamento domestico, resistenza e ostilità al cambiamento

    La scelta dei gatti come animali antropomorfi sembra dettata, in questo frangente, dal fatto che sono animali idrofobi (questo per motivi puramente evolutivi, per inciso). Ne vediamo una in particolare: una padrona di casa ossessionata dalle modifiche migliorative alla casa che affitta e che, nella sua idea, dovrebbero renderla degna di essere ricordata e di albergare le esperienze più indimenticabili. Cosa che difficilmente sembra poter avvenire: siamo in un probabile futuro prossimo in cui le inondazioni sono periodiche e frequenti, e la protagonista mostra paradossalmente più attaccamento alle mura domestiche che ai due inquilini, entrambi morosi da diversi mesi (un gatto in grado solo di disegnare, e una gatta hippie a cui presto si avvicenderà un compagno “guru”). In questo caso se il tema portante dell’episodio è chiaramente l’irrealizzabilità del “progetto” (ed il fatto che troppi non riescano a immaginare alcun “cambio di rotta” anche in situazioni estreme), il focus narrativo è molto abile a rendere inizialmente antipatici i due inquilini, che poi saranno quelli a conquistare le simpatie del pubblico, al contrario della padrona che sembra all’inizio l’unica ragionevole.

    Cosa ancora più interessante (e stando a IMDB), questa è solo la prima stagione, The House non finisce qui: si attendono notizie su ulteriori episodi che potrebbero, plausibilmente, vedere la luce a stretto giro.

  • Le nove vite di Fritz il gatto: il cartone underground che uscì prima di qualunque altro

    Le nove vite di Fritz il gatto: il cartone underground che uscì prima di qualunque altro

    Le nove vite di fritz il gatto” è un cartone animato del circuito underground americano risalente al 1974, tratto dal soggetto originale di Robert Crumb e sceneggiato da Ralph Bakshi. Esso rappresenta una violentissima satira polverosa, dura, sessualmente esplicita e piena di volgarità di ogni genere. Insomma il genere di opera che avrebbe prodotto forse solo un Bukowski in particolare stato di ebbrezza, che fulmina le convenzioni della castissima (almeno all’apparenza) società americana, facendosi gioco di chiunque: del governo, del lavoro, della famiglia, del proibizionismo e anche della stessa cultura underground da cui questo prodotto deriva.

    In breve: irriverente, politicamente scorretto, scurrile e sovversivo. Come sarebbero i Simpson e South Park, in altri termini, se fossero stati realizzati da Charles Bukowski.

    Si tratta a onor del vero del seguito di “Fritz il gatto“, l’opera prima della serie che non ha avuto molto successo qui in Italia, probabilmente per il discutibile doppiaggio di bassa qualità che venne realizzato: in questo episodio le cose vanno decisamente meglio, Fritz esce fuori in tutta la sua grottesca trivialità, sempre impegnato a fregarsene degli stimoli che vorrebbero che facesse una vita normale ed un lavoro ordinario, e preoccupato esclusivamente di tirare a campare godendosela il più possibile su ogni fronte. Per scansare la moglie conformista che sbraita contro di lui, gli rinfaccia la mancanza di responsabilità ed ammette di tradirlo, Fritz inizia a passeggiare per le strade della sua città in solitaria: incontrerà così i più assurdi personaggi che si possano immaginare.

    Essendo un gatto, Fritz ha la possibilità di rivivere le ben note “nove vite”, ed è così che nell’ordine si trova in nove pazzeschi mini-episodi che trasudano psichedelia e pulp da ogni poro. Roba che girava nei primi anni 70, che probabilmente dovevano produrre lo stesso effetto provocato oggi dalle puntate più crude di South Park, per intederci.

    1. Fritz incontra un portoricano (Juan), e si reca a casa della sorella di lui, Chita. Dopo averla convinta a fumare, i due iniziano a fare sesso ma vengono scoperti dal padre di lei, che rincorre Fritz armato di fucile il quale salta giù dalla finestra;
    2. successivamente fa amicizia con un ubriacone che afferma di essere dio in persona;
    3. si ritrova a letto con due ragazze tedesche, e successivamente psicoanalizza Hitler in persona. Il dittatore viene rappresentato da un cane con un solo testicolo;
    4. cerca di barattare un preservativo usato per una bottiglia di liquore, per poi scoprire di aver passato la gonorrea alla moglie del droghiere, con cui ha avuto una relazione clandestina;
    5. fa un viaggio nel tempo totalmente psichedelico e sconnesso negli anni 30, ballando il tip-tap;
    6. si rivolge ad un banco dei pegni gestito da un corvo ebreo, con il quale contratta per avere un assegno in cambio di una tazza del water. Alla fine ottiene in alternativa un casco spaziale;
    7. diventa quindi astronauta della NASA, deciso a partire in missione su Marte; durante l’attesa della partenza fa sesso con una reporter, ma alla fine l’astronave esplode nello spazio;
    8. parla con il fantasma del corvo precedentemente ucciso, ed ha una sorta di flash-forward in cui vede che il New Jersey è diventato “New Africa“, ed ospita solo corvi neri. Inviato lì come corriere, viene accusato ingiustamente di aver ucciso il presidente, di aver provocato la guerra tra New Africa e Stati Uniti e, alla fine, viene giustiziato;
    9. alla fine incontra un guru indiano ed il diavolo in persona dentro le fogne di New York, ma la visione viene interrotta dalla moglie che lo sveglia e lo caccia di casa, mentre il gatto afferma “Questa è la peggiore vita che abbia mai avuto“.
  • La sirenetta sovietica ci invitava a vedere le cose da due punti di vista diversi

    La sirenetta sovietica ci invitava a vedere le cose da due punti di vista diversi

    Di fronte a voi, signore e signori, la famosa sirenetta! Il modo in cui è stata scritta dal grande Hans Christian Andersen in una storia d’amore. Sì, signore e signori, ai bei vecchi tempi di Christian l’amore esisteva ancora. Queste stupide persone pensano che l’amore esista, e le sirene no! Ma io e te sappiamo che è l’esatto contrario! L’amore non esiste e le sirene sì.

    E tu sei pro o contro? Con noi o contro di noi? SDalla parte di X o di X primo?

    Sui social è sempre più comune imbattersi nel tipo di discussione polarizzante descritto, tra i primi, dai ricercatori Quattrociocchi/Vicini nel saggio Misinformation: già nel 2016, infatti, gli autori avevano colto le contraddizioni che portano alla formazione di opinioni (e alla fruzione di informazioni) da parte degli utenti di Facebook, Twitter e Youtube. Sono in gioco dinamiche del contagio e dell’influenza sociale, alimentando meccanismi per cui l’individuo forma la propria convinzione a prescindere dai fatti e facendosi condizionare dalla maggioranza .

    Gli autori avevano osservato che ogni discussione sui social, dati alla mano, tendeva a polarizzare le opinioni in modo binario, creando “tribù” di “pro” e “contro”, a prescindere dall’argomento di discussione, spingendosi a sostenere che il debunking non sia troppo utile alla causa, dato che le community su internet tendono finalmente a radicalizzare le opinioni (mentre chi legge una notizia antibufala su un fatto di cui è convinto finirà, in molti casi, per non cambiare idea, o addirittura esacerbare la fake news).

    La sirenetta ha cambiato colore (e non va bene?)

    Le discussioni su La sirenetta a cui abbiamo assistito nei mesi scorsi erano un coacervo di presunta cancel culture, di culturina da 4chan, di atteggiamenti boomer e di grottesco allarmismo sociale. Del resto finivano per essere pilotate da persone autenticamente razziste – tanto razziste da porsi il problema (!) che un personaggio immaginario (!) fosse di colore, nel tentativo disperato di aizzare la folla e spingere ad un improbabile boicottaggio. Alle piattaforme social tutto questo è andato benissimo: è stata una garanzia di visualizzazioni e sponsorizzate, e poco importava che fosse una fiera contrapposizione tra democratici e repubblicani, tra razzisti vs antirazzisti, tra disneyani puri e disneyani revisionisti. Il tutto ha confermato il quadro binario “noi contro di voi, comunque vada” delineato in Misinformation. Questo genere di contrapposizione non è servita veramente nessun altro se non a sopravvivere della piattaforma stessa, un boicottaggio virtuale che è rimasto tale e che, al netto di titoli clickbait da cui siamo stati assilati per me, è servito solo a rimpolpare le casse delle aziende che hanno creato i social su cui quel “dibattito” avveniva.

    (Non) Mettere il lieto fine

    Quando uscì La sirenetta di Ron Clements e John Musker nel 1989 venne sancita la rinascita della Disney, tanto per restare in tema di rinascita per una multinazionale. All’epoca dell’uscita fu un gran vociare di recensioni positive, sia da parte della critica che del pubblico, e tutti si lasciarono incantare da quel film favolistico, spensierato e innovativo. E se nemmeno Roger Ebert ebbe nulla da obiettare a questo lavoro, le polemiche moraliste sulle presunte forme falliche tra le torri del castello, sulla prima copertina, si spensero progressivamente negli anni.

    Eppure quella versione de La sirenetta aveva un vero difetto, tutt’altro che urban legend: riusciva nell’impresa di perdersi sul finale dato che il soggetto era stato cambiato arbitrariamente, e fatto divenire puramente disneyano: la conclusione originale di Hans Christian Andersen venne rimpiazzata dal matrimonio della sirenetta con il principe (il che assume una valenza involontariamente grottesca se pensiamo alle accuse di aver rappresentato il prete che celebra quel matrimonio con una presunta erezione). Non sono mancate altre versioni della storia, che giocano con lo stesso mito della sirenetta e lo modernizzano e/o lo rielaborando in un altro paio di modi diversi. L’imposizione della regia, in questi casi, si colloca esattamente tra la scelta del finale originale (per “puristi”) e quella dell’happy end (per fan della Disney), e non è difficile immaginare qualche polemichella anche lì, nascosta nei social in qualche gruppo tematico, con qualche genitore indignato per il finale “cattivo”, con accuse di avergli traumatizzato i figli (la gente muore ma i bambini non devono saperlo: qualcuno salvi i bambini!) o in alternativa con il puro disincanto con cui tutti, generazione dopo generazione, abbiamo visto La sirenetta almeno una volta nella vita.

    L’opera originale del 1837

    La storia de La sirenetta venne scritta dal famoso scrittore danese Hans Christian Andersen, con titolo originale “Den lille Havfrue“: era il 1837, e Andersen si trovava nella condizione dolorosa dell’amante respinto, tragicamente accentuata dalla sua omosessualità. La sirenetta che perde la voce e non può parlare col principe (che così facendo alla fine non potrà innamorarsi di lei), finisce per essere un’allegoria dello stato d’animo dell’autore, cosa a cui il cinema non sempre ha reso giustizia.

    La risacca batte contro le rocce nere

    La vita è dura per gli umani, questa lotta eterna.

    Ma credo che, goccia dopo goccia, la tua vitalità tornerà,

    la prima goccia sarà la forza,

    la seconda sarà la gioia.

    Il bello non deve perire,

    il coraggioso non deve perire.

    Non dovrebbero, non dovrebbero morire.

    (La Sirenetta – regia di. Ivan Aksenchuk, 1968)

    Di più: il finale di Anderson era poetico quanto ambiguo, quasi dai tratti misticheggianti – e se è vero che la protagonista diventa schiuma di mare, al tempo stesso sopravvive come presenza eterea, destinata a diventare una prefigurazione dell’amore impossibile (quello vissuto dall’autore) da tramandare ai posteri. Non siamo poi così sicuri che si tratti veramente di una storia per bambini, se alimentiamo tale prospettiva parallattica. Perchè di parallasse si tratta, in particolare nel finale della versione sovietica del 1968 dell’opera, diretta da Ivan Aksenchuk e che propone due possibili interpretazioni dello stesso finale, che rimane sostanzialmente aperto.

    Che cos’è la parallasse

    Al fine di descrivere il funzionamento delle elezioni,  il filosofo sloveno Slavoj Žižek ricorre al concetto (mutuato dalla psicoanalisi di Lacan) di parallasse – la differenza tra ciò che crediamo o sappiamo su qualcosa e ciò che effettivamente accade. La spaccatura indotta dalla parallasse è lampante, ad esempio, quando un politico fa delle promesse in campagna elettorale salgo agire in maniera diversa una volta eletto. Žižek sottolinea più volte – il libro più completo che ne se ne interessa è La visione di parallasse – che la parallasse è una condizione costante, ineludibile,  che caratterizza la nostra esperienza soggettiva del mondo. Una volta si sarebbe detto: guardare oltre le apparenze, liberarsi della patina inibitoria dei nostri pregiudizi, rifiutando il costante obbligo a partecipare a discussioni stantìe e autocelebrative sui social, dove la realtà è 0 oppure 1 senza possibilità di sfumature e dove, naturalmente, lo zero è in lotta con l’uno.

    Rusalochka e il finale “doppio”

    Rusalochka è la versione de La sirenetta prodotta nell’allora URSS, anno 1968: dura appena 27 minuti, un nulla a confronto della versione disneyiana di fine anni 80 (che dura 1 ora e 22 minuti) e del revival in forma di musical del 2023 (che ne dura più di due).  L’opera è relativamente facile da reperire in rete, in Italia è comparsa come parte di un episodio nella serie Fiabe da terre lontane, distribuito dalla Avo Film nel DVD “La pentola magica“. Molto è stato scritto sul cinema di animazione russo di quegli anni, ed è interessante osservare che la narrazione prevede un finale doppio.

    Le opere brevi sono spesso difficili da decifrare, ma offrono l’enorme vantaggio di lasciare spazio alle riflessioni del pubblico: cosa che non succede con le serie TV e con le opere più lunghe di una certa durata, che molti casi tendono a dire tutto e a non lasciare spazio a possibilità ulteriori, doppi finali. Las viene spesso soppressa dalle opere più monumentali, e le varie fan theory che circolano per alcuni di questi lavori possono rientrare in una tentata visione parallattica (la nota fan theory su Mamma ho perso l’aereo, ad esempio).

    Il punto del finale aperto è cruciale: la parallasse del resto non nasconde verità segrete che sono note solo agli adepti (come avviene nelle teorie del complotto classiche), tantomeno invita a conformarsi alla visione più comune (come tende a fare il più delle volte implicitamente la cultura mainstream), ma invita ad oscillare, a saper accogliere punti di vista differenti dal proprio e discuterli, a vedere al di là dello spiraglio che ci propone una visione a prima vista di qualcosa. Da un lato, quindi, c’è il punto di vista dei pesci: la sirenetta è stata un’ingenua che sarebbe dovuta rimanere al proprio posto. Dall’altro, c’è la rivalutazione postuma da parte dei visitatori della statua a Copenaghen: questa storia non conosce confini, ed è la storia del coraggio, della saggezza e della gentilezza.

    E così, figli miei, è così che finisce la storia. La sciocca sirena voleva diventare un essere umano, ma come si suol dire, tutti dovrebbero conoscere il proprio posto (considerazione dei pesci).

    Questa, signore e signori, è una storia molto dolorosa,.triste, ma bellissima, una storia d’amore che non conosce confini. La storia del coraggio, della saggezza e della gentilezza. (considerazione della guida turistica)

    La versione russa de “La sirenetta” si distingue per la sua straordinaria animazione tradizionale. Gli animatori hanno saputo catturare l’essenza magica del mondo sottomarino, creando una serie di personaggi e scenari incantevoli. Ogni dettaglio è stato curato con grande precisione, dalle sfumature dei colori all’incantevole coreografia dei movimenti dei personaggi.

    E poi, quante possibilità avremmo di diffondere questa storia sui social e suscitare la polarizzazione da parte degli utenti di cui sopra?

  • Goldrake (UFO robot) torna sulla RAI (ad aprile)

    Goldrake (UFO robot) torna sulla RAI (ad aprile)

    “Ufo Robot Goldrake” nasce nel 1975 come parte della serie “Mecha” giapponese, creata da Go Nagai. Racconta le vicende del principe Actarus, fuggito dal suo pianeta distrutto e rifugiato sulla Terra. Qui, con l’aiuto di Goldrake, combatte contro forze malvagie provenienti da vari angoli dell’universo. La serie, innovativa per l’epoca, combinava robot giganteschi con temi di pace e giustizia, e divenne subito un fenomeno anche in Italia.

     

    Quando torna in onda sulla RAI

    La serie di “Goldrake” tornerà sugli schermi italiani ad aprile 2025, in occasione del 47° anniversario della sua prima trasmissione nel 1978. Sebbene non confermato, si ipotizza che i primi episodi vengano trasmessi il 4 aprile, seguendo la data del lancio originale. La versione che sarà proposta sarà rimasterizzata, con audio e doppiaggio originali, colori più vividi e risoluzione migliorata, come anticipato dal direttore Adriano De Maio della Rai. Una vera operazione nostalgica che riporta in auge un pezzo di storia dell’animazione.

    In occasione del 50° anniversario, la Rai trasmetterà in versione restaurata l’intera serie di “Ufo Robot Goldrake”, anime cult del 1975. Il robot protagonista, Goldrake, guidato dal principe Actarus, è simbolo di valori come pacifismo e giustizia, combattendo per proteggere la Terra. Il successo dell’anime si estese anche oltre i confini giapponesi, influenzando l’animazione occidentale. Un’operazione nostalgica che riporta in TV la saga completa, confermando l’impatto culturale di questa serie leggendaria.

    Curiosità: Il doppiaggio italiano di Goldrake è considerato uno dei più amati, grazie anche alla voce di Giorgio Locuratolo che ha dato vita a Actarus. Il protagonista Actarus, interpretato da Giorgio Locuratolo, divenne uno dei doppiaggi più amati, rendendo la voce italiana indissolubile dal personaggio.

    Le serie “Goldrake” (UFO Robot Grendizer), “UFO Robot” e “Mazinger” fanno tutte parte dello stesso universo narrativo creato da Go Nagai e sono connesse tra loro.

    1. Mazinger Z (1972-1974)

    È la prima serie della trilogia di Mazinger, racconta le avventure di Koji Kabuto (Alcor nella versione italiana), che pilota il gigantesco robot Mazinger Z per combattere il malvagio Dottor Inferno e le sue mostruose macchine robotiche.

    2. Great Mazinger (1974-1975)

    Segue direttamente Mazinger Z, con un nuovo protagonista, Tetsuya Tsurugi, che pilota il più potente Great Mazinger contro il Generale Nero e l’Impero di Mikene. Koji Kabuto compare solo in alcuni episodi.

    3. UFO Robot Grendizer (Goldrake) (1975-1977)

    Conosciuto in Italia come Goldrake, è il terzo capitolo dell’universo Mazinger, ma con una storia e un protagonista differenti. Questa volta il protagonista è Duke Fleed (Actarus in Italia), il principe di un pianeta invaso dai nemici di Vega, che fugge sulla Terra portando con sé il potentissimo robot Grendizer (Goldrake). Qui incontra Koji Kabuto, che in questa serie ha un ruolo di supporto, essendo diventato un esperto di UFO.

    Connessioni tra le serie

    • Koji Kabuto (Alcor in Italia) è il legame principale tra “Mazinger Z” e “Goldrake”. Dopo gli eventi di Mazinger Z e Great Mazinger, lo ritroviamo in Goldrake come scienziato esperto di UFO, ma non più protagonista.
    • Anche se ambientato nello stesso universo, Goldrake è molto diverso nei toni e nella trama, con elementi più fantascientifici e meno “mecha classici”.
    • In Giappone, Grendizer è considerato un seguito minore di Mazinger, mentre in Italia è stato un grandissimo successo indipendente.

    In sintesi, Mazinger Z, Great Mazinger e Goldrake fanno parte dello stesso universo, ma Goldrake si distingue per ambientazione e trama, pur mantenendo un legame con i precedenti tramite Koji Kabuto.

  • Guida concettuale agli elefanti rosa

    Guida concettuale agli elefanti rosa

    Nel film d’animazione Disney del 1941 “Dumbo“, gli elefanti rosa rappresentano una sequenza molto particolare e altrettantosurreale.

    • La scena entra in una fase onirica, con il suono di una musica incalzante e misteriosa che emerge gradualmente.
    • La telecamera si focalizza su Dumbo, il piccolo elefante dalle grandi orecchie, che si trova all’interno della tenda del circo.
    • Dumbo è visibilmente confuso, balbettando leggermente mentre si muove in modo instabile.
    • Intorno a Dumbo, gli oggetti iniziano a deformarsi e a prendere forme insolite. Le luci si diffondono, creando un’atmosfera sfocata e surreale.
    • Improvvisamente, compare una carrellata di elefanti, tutti di un vivace colore rosa acceso. Sono dipinti con sfumature brillanti e psichedeliche, con grandi occhi sfaccettati e orecchie allungate.
    • Gli elefanti rosa iniziano a danzare in modo stravagante e sincronizzato, muovendosi in cerchi intorno a Dumbo. Alcuni elefanti saltellano e si librano nell’aria, sfidando la legge della gravità in un balletto bizzarro.
    • La musica raggiunge il suo apice, aumentando l’intensità e il ritmo. La scena diventa ancora più frenetica e caotica, con luci psichedeliche che si intrecciano e si fondono con i movimenti degli elefanti.
    • Dumbo, ancora sotto l’effetto dell’ebbrezza, segue gli elefanti rosa con sguardi sbigottiti e incerti, incapace di capire cosa sta accadendo.
    • Mentre la scena raggiunge il suo culmine, gli elefanti rosa sembrano fondersi insieme, creando forme sempre più strane e astratte, come un caleidoscopio vivente di colori e movimenti.
    • Poco a poco, l’effetto dell’allucinazione inizia a svanire, e Dumbo si ritrova nel suo ambiente familiare, con la confusione che pian piano svanisce.
    • La scena si conclude con Dumbo che si guarda intorno, ancora un po’ disorientato, mentre la musica si attenua e la normalità torna al circo.

    Nel film, Dumbo è un piccolo elefante dalle orecchie enormi che viene deriso e emarginato dagli altri elefanti del circo a causa della sua diversità. Un giorno, Dumbo si ubriaca involontariamente a causa di una bevanda alcolica mescolata all’acqua, e questo gli provoca una vera e propri allucinazione.

    Nella confusione, Dumbo ha una visione stravagante e psichedelica in cui degli elefanti rosa ballano e svolazzano intorno a lui. La scena è accompagnata da una musica incalzante e trascinante, rendendo il tutto ancora più surreale.

    Cosa significa la scena degli elefanti rosa di Dumbo

    La sequenza degli elefanti rosa è un momento iconico del film e rappresenta metaforicamente il momento di incertezza e smarrimento di Dumbo, il quale si sente emarginato e incompreso a causa delle sue caratteristiche fisiche diverse. È una rappresentazione dell’ansia e della paura che il piccolo elefante prova in un contesto sociale ostile.

    Inoltre, la scena ha un tono onirico e quasi psichedelico, caratteristico dello stile di animazione di quel periodo. Essa mostra anche il talento creativo degli animatori Disney, che hanno creato un momento visivamente affascinante e indimenticabile nel film.

    La sequenza degli elefanti rosa è uno dei momenti più distintivi e ricordati di “Dumbo,” e ha lasciato un’impronta indelebile nella cultura popolare, diventando una rappresentazione iconica della sperimentazione artistica e dell’immaginazione che caratterizzano i film Disney.

    Nei Simpson l’episodio viene parodizzato da “Rosafante“, l’elefante rosa che salva Barney da un mostro onirico che lo minacciava durante l’ennesima sbronza.