FILM TIPO INCEPTION_ (9 articoli)

Quali sono i film simili a uno dei più noti lavori di fantascienza di Cristopher Nolan? Abbiamo fatto una selezione di film a tema, dopo averne visti un bel po’, che potrebbero piacertise apprezzi questo genere di film. Eccoti, pertanto, senza altro indugio alcuni film tipo Inception di Cristopher Nolan che potresti apprezzare.

  • La moglie dell’astronauta: la fantascienza che riuscì solo in parte

    La moglie dell’astronauta: la fantascienza che riuscì solo in parte

    Una coppia di astronauti esperti subisce, durante una missione in orbita, quella che sembrerebbe una tempesta magnetica, attraversando due minuti in cui perde i contatti con la Terra: rientrano a casa, e nessuno dei due sembra aver voglia di raccontare cosa sia accaduto. Quale mistero si nasconde in quei due, interminabili minuti di oscurità?

    In breve. Modesto b-movie che riesce solo a metà: presupposti inquietanti, buon ritmo dall’inizio ma il film si perde, passo dopo passo, nel “già visto”, dissolvendosi come un biscotto economico nel latte bollente – e rivelandosi, purtroppo, poca cosa.

    La moglie dell’astronauta” fa parte di quella fantascienza di “basso livello”, dai tratti dichiaratamente b-movie – e con impianti/effetti visuali decisamente modesti, che cerca di fare leva sulle interpretazioni degli attori (l’impianto ricorda vagamente L’arrivo di Wang), genere da sempre contrapposto alla sci-fi più pretenziosa (il recente Interstellar). Da un film del genere ti aspetti un livello di cultismo che deriva da più fattori: la coppia di protagonisti (di solito Deep è una garanzia), il regista poco conosciuto, l’ambientazione nello spazio (almeno in parte), lo sviluppo imprevedibile della storia. Invece lo spettatore che riprenda questo film oggi, all’epoca strombazzatissimo, non potrà che restarne deluso: in effetti al botteghino fu un flop, e questo nonostante la presenza della Theron e di Deep, che ne escono pressappoco a testa alta, ma senza riuscire a convincere quasi nessuno.

    Se è vero che i presupposti del film non sono da poco, e che i primi 20 minuti serrati, brutali ed imprevedibili illudono lo spettatore di stare per assistere ad un masterpiece, il resto del film si dilegua in poco o nulla: e a niente serve la figura ambigua, e progressivamente tenebrosa, di Deep, da marito amorevole ad inquietante individuo capace di perseguitare la moglie-vittima, e minacciarla (senza un motivo troppo chiaro, peraltro). Motivo che poi, a metà film, inizia a diventare più nitido fino a svelarsi nella sua interezza: ma anche qui, la rivelazione è fiacca, e la sostanza della stessa rischia di fare quasi più sorridere che altro. Questo genere di difetti mette in secondo piano anche la mancanza di continuity di alcune sequenze, difetto trascurabile in un film del genere e che qui, invece, diventa determinante in negativo. Non è un caso, del resto, che buona parte di quanto mostrato – inclusa i suoi semplicistici concetti di “umanità allo sbando”, e di “altri mondi” ostili ed infidi – si possa prestare più ad una parodia modello South Park che altro.

    La Theron, di suo, emerge come figura iconica, donna-simbolo anche piuttosto credibile e ben interpretata, e questo per ciò che viene tirato in ballo nella storia (su tutto, la tematica dell’aborto ed il disprezzo della società “per bene” contro chi compie tale tragica, quanto spesso inevitabile, scelta): serve a lasciare un che di dignitoso al tutto, in un certo senso, ma non basta a salvare “The Astronaut’s Wife“, lavoro che zoppica lo stesso, passo dopo passo. Quello che non funziona in soldoni è proprio l’impianto generale della storia, troppo poveristica nel suo allestimento, troppo semplificata e scontata in certi passaggi e forse, credo, troppo poco legata al cinema di genere “che conta”, affidato ad un regista con troppa poca esperienza (nelle mani di John Carpenter, tanto per dire, lo stesso soggetto sarebbe forse diventato ben altro).

    Se non parlassimo di un film a mio avviso fiacco ( di un’occasione persa, in un certo senso), bisognerebbe spendere qualche parole sul finale della pellicola: un finale a sorpresa, se vogliamo, in cui il tema è quello dello sconosciuto che assume le sembianze di una persona amata, e diventa in grado di impadronirsi della sua vita, senza che la vittima possa accorgersene in alcun modo. Neanche malissimo come conclusione da fanta-horror, ma in giro c’è molto di meglio e, soprattutto, non ce n’è abbastanza per ridimensionare la fama non esaltante che La moglie dell’astronauta possiede. Esiste anche un finale alternativo, sul quale sorvolo perchè comunque non sembra cambiare troppo la sostanza.

    Rand Ravich, dal canto suo, dopo questo film ed un precedente corto non ha fatto più nulla in veste di regista (non a caso, verrebbe da pensare), dedicandosi invece a sceneggiatura e produzione. Se resta vero che molte critiche rivolte a “The Astronaut’s Wife” sono piuttosto gratuite, resta la considerazione realistica su un film che poteva dare molto di più, e che si appiattisce fotogramma dopo fotogramma fornendo solo tensione a sprazzi.

  • Strange Days: gli strani giorni già immaginati a metà anni 90

    Strange Days: gli strani giorni già immaginati a metà anni 90

    Il film è ambientato nel Capodanno del 1999: l’alba del nuovo millennio viene proposta in una prospettiva completamente distopica. Nella New York del degrado e della repressione poliziesca, infatti, si arriva a spacciare le vite altrui in forma di filmati che è possibile iniettarsi direttamente nel cervello. In questo modo si attua una sorta di gigantesco file-sharing delle esperienze umane, fenomeno illegale ed aspramente combattuto dalle autorità. Lenny Nero è un ex poliziotto, licenziato con disonore, che pratica per sopravvivere la diffusione di questo tipo di materiale, e ne abusa egli stesso. Un giorno un’amica gli recapita un singolare wire-trip clip

    In breve. Un quasi-cyberpunk intenso e dai toni romantici, caratterizzato da una sceneggiatura molto intensa e con interpretazioni sempre all’altezza. Peccato, in definitiva, perchè in alcuni punti – tipo nell’approfondimento delle relazioni tra i personaggi – si perde in momenti mielosi che fanno quasi passare la voglia.

    Senza bisogno di scomodare Blade Runner – tutta un’altra faccenda, per la verità – e senza voler sparlare di una delle più prolifiche e creative registe statunitensi (Kathryn Bigelow, artefice del popolarissimo Point Break e dell’horror Il buio si avvicina), direi che Strange Days deve parte della sua fama ad una storia che “odora” molto di Philip Dick, e che potrebbe ricordare A scanner darkly. Certamente i presupposti sono micidiali: l’idea dello spaccio di esperienza altrui in prima persona è qualcosa di davvero molto interessante, che fa riflettere di rimando – tanto per rimanere sul banale – sulla spersonalizzazione che soffriamo nel quotidiano. Questo, di fatto, diventa un solido pretesto perchè queste allucinazioni, molto ben rese, possano fare da contorno ad una curiosa poetica in chiave cyberpunk. La chiave di lettura, come si scoprirà, sta nel misterioso clip che viene rivelato soltanto alla fine, e che mostra uno spaccato di triste realtà che potrebbe, di fatto, provocare una vera e propria Apocalisse.

    Grande merito, quindi, a James Cameron, davvero molto abile nel costruire lo script, e noto per essere stato il regista dei due Terminator (1984 e 1991), di Titanic (1997) e di Avatar (2009 – il che appare come un crescendo di delirio, a suo modo). Dal canto loro gli interpreti se la cavano egregiamente, a parte forse Juliette Lewis che sembra quasi imprigionata nelle caratteristiche del personaggio di Natural Born Killers, esprimendosi così in modo fiacco e poco convincente. A parte questo, potremmo dire che Strange Days inizia bene, prosegue meglio e finisce per annacquarsi, come un ottimo whisky mescolato con acqua di rubinetto, seguendo molti (troppi) dei dettami che l’industria hollywoodiana impone da decenni. Senza bisogno che li citi tutti: favorire l’identificazione del pubblico coi “Buoni”, rendere odiosi i “Cattivi”, rendere lineare la trama, sorprendere in modo piuttosto prevedibile e far trasparire una visione forzatamente ottimistica sull’amore che-viene-e-che-va.

    Molto dell’ accento viene posto, oltre che sui risvolti sociali (cittadino vs. polizia), sul romanticismo della vicenda, e la cosa potrebbe quasi risultare gradevole a qualcuno (beato lui): ma è un’arma a doppio taglio, un trucchetto per tenere viva l’attenzione, quasi come se qualcuno avesse deciso di cambiare i toni più o meno nell’ultima mezz’ora di film. Attenzione che poi, probabilmente intrigati dai mille dettagli della storia, finiamo per perdere del tutto, per orientarci su un volemose-bbene che dovrebbe rendere tutti felici. Ecco, l’ho detto: la nota stonata di Strange Days, al di là dal fascino magnetico di Angela Bassett (quasi tarantiniana nella sua interpretazione) e della bravura di Ralph Fiennes sta proprio nella colossale forzatura favolistica degli ultimi fotogrammi. Lo stesso effetto sgradevole che mi procurò il finale di AI – Intelligenza Artificiale, e chi lo ha visto dovrebbe intuire a cosa mi riferisco. Una cosa su cui non riesco a darmi pace, proprio perchè il concept di Strange Days è realmente esplosivo.

    Mi consolo comunque, solo parzialmente, ironizzando su certe battute, un po’ come faceva Nanni Moretti (“hai mai ZIGOVIAGGIATO? mmm, un cervello vergine“; ma l’originale era “hai mai filo-viaggiato“), e non posso esimermi dall’esprimere un’ulteriore critica sull’eccessiva lunghezza del film: certamente incalzante fino alla fine, ma quelle due ore sono interminabili. Mai davvero ruvido, graffiante e oscuro come l’ambientazione e l’attitudine imporrebbero: quindi, perlomeno, non si scomodino confronti con il capolavoro di Ridley Scott.

    Non certo da buttare, sia chiaro, anzi d’obbligo per molti spettatori assuefatti alle storielline facili: ma tanti altri possono tranquillamente fare a meno di guardarlo.

  • Le avventure del ragazzo del palo elettrico: la fantascienza borderline da riscoprire ancora oggi

    Le avventure del ragazzo del palo elettrico: la fantascienza borderline da riscoprire ancora oggi

    Breve film di Shinya Tsukamoto del 1987 di genere fantascientifico, in cui è possibile vedere qualche richiamo embrionale al successivo Tetsuo.

    In breve: un mediometraggio artigianale e per nulla banale, anche se piuttosto lontano dalle successive punte di originalità del regista.

    “Il ragazzo del palo elettrico è quello che salva il mondo accendendo una luce alla fine di un’epoca e collegandola all’epoca successiva. E’ il tuo destino. In altre parole è un eroe che salva la storia!”

    A scuola qualcuno di noi veniva deriso dai compagni perchè era troppo riservato, perchè aveva un tic irrefrenabile, perchè era timido con le ragazze o magari semplicemente perchè portava gli occhiali. Ma per conoscere un nerd deriso dai coetanei perchè si ritrova un vero e proprio palo della luce che gli spunta dalla schiena bisogna guardare “Le avventure del ragazzo del palo elettrico“, mediometraggio favolistico del primo Tsukamoto (la seconda opera che ha girato). Due anni prima di concepire il capolavoro Tetsuo – The iron man, e lontano qualche miglio dai sentimentalismi introspettivi del più maturo Vital, la storia che ci racconta questa volta riguarda un giovanissimo protagonista, eterno incompreso dai coetanei ed oggetto di continuo scherno per via di questa sua particolare conformazione. In realtà tale forma di ennesima fusione uomo-macchina gli permetterà di diventare una sorta di “prescelto”, di viaggiare nel tempo e di lottare contro alcuni vampiri (Shinsegumi) che in un futuro apocalittico avrebbero minacciato Tokio.

    Una storia atipica, prevedibilmente surreale e – se ci fosse bisogno di dirlo – inadatta per chi non ama il regista o non apprezza le sperimentazioni: curioso poi come, al di là di un primordiale riferimento al cyberpunk, molti richiami stilistici siano piuttosto simili ad un vero e proprio manga, da cui Tsukamoto pare ereditare la morale di fondo della storia e l’andamento generale dell’intreccio. La trama, di per sè, non sarebbe neanche eccezionale se non rimanesse il sospetto, alla fine, che l’intero film non sia stato altro che un semplice sogno, dato che il protagonista si ritrova, dopo l’incredibile viaggio, esattamente nel punto di partenza e, in fondo, la macchina del tempo sembrava dall’inizio un po’ troppo scassata per funzionare davvero. Puo’ darsi che la mia interpretazione materialistica sia completamente fuori luogo, ma posso garantire che pur trattandosi di una delle opere più “facili” da vedere del regista, l’ho trovata piuttosto complessa da analizzare, mentre quest’ultima mi pare l’unica nota di reale rilievo del film.

    Un cult per gli amanti più appassionati del regista, proposto in TV occasionalmente da Rai Tre durante “Fuori orario“.

  • Fantasmi da marte: il western fantascientifico di John Carpenter

    Fantasmi da marte: il western fantascientifico di John Carpenter

    2176: la polizia viene inviata su Marte per prelevare un pericoloso detenuto. Scoprirà che le cose non vanno troppo bene, da quelle parti…

    In breve: film semplice e diretto di un Carpenter meno pioneristico del solito. Sparatorie, esecuzioni sommarie, azione ed una trama sottile quanto godibile.

    In Italia i B-movie hanno assunto soprattutto significato di film di bassa qualità. Questa definizione wikipediana, a mio avviso superficiale, pone una base indiretta per discutere di questo film del Carpenter post-2000, considerato di minor valore rispetto alla produzione precedenti. Partirei dal fatto che considero sbagliata, fuorviante, generica – oltre che stereotipata – la definizione di b-movie appena letta: i film di serie B sono molto di più, anche solo per il loro proporsi con coraggio ed originalità. Ad oggi, del resto, nonostante realtà come Nocturno si siano battute per decenni al fine di conferire un carattere autoriale (o se non altro dignitoso) a qualsiasi film del genere, resta una considerazione di fondo: il pubblico va a vedere film come Fantasmi da marte, e rimane perplesso. In sostanza la sensazione è che manchi qualcosa – o forse no: non si capisce con chiarezza. La mia secondo visione di questo film del 2005 con Ice Cube e Natasha Henstridge non ha cambiato, in buona sostanza, la mia valutazione sintetica che è poco meno che sufficente (nonostante aspettative altissime: vidi il film al cinema, la prima volta).

    Il pianeta rosso diventa qui teatro di una storia che richiama in parte “Distretto 13: le brigate della morte“, “La cosa“, “Fuga da New York“: un film dichiaratamente autocelebrativo, pertanto, che pare abbia fatto la gioia dei fan del regista sfiorando a più riprese il rischio di risultare asetticamente ibrido. Un regno di violenza incontrollata si instaura a causa di una nube (chi ha detto The fog?) sprigionata dagli scavi di una scienziata presente sul posto- particolare lovecraftiano della storia. Per il resto ci sono buoni personaggi, poco budget e discreti – rispetto al contesto – effetti speciali.

    La contrapposizione tra polizia e criminalità viene ancora una volta a cadere, in Fantasmi da Marte, perchè il resto del mondo conosciuto sembra essersi rivoltato in un terrificante tutti contro tutti nel quale pochi sopravviveranno. La valenza metaforica di questa ennesima opera di Carpenter, a mio avviso leggermente inferiore alla media ma comunque dignitosa, nonostante qualche “trashata” di troppo ed il senso di “riciclaggio” che prova lo spettatore nel vedersi propinare sempre le stesse sparatorie (quanto western, in Carpenter), gli stessi dialoghi.

    In fondo la Henstridge (eroina tosta quando conturbante) è il classico protagonista del Carpenter post-apocalittico, una sorta di Jena Plinski iper-modernizzata: cupa, lontana da compromessi, solitaria e guidata da una lealtà ed un senso di giustizia che la rendono quasi anacronistica. Regista che, per la cronaca, non risparmia prese di posizione politiche come già fatto in quasi ogni sua pellicola.

    Godiamoci pure, in definitiva, queste chicche di cinema “underground” senza pretendere più del dovuto.