FOBIE_ (180 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • [REC] di J. Balaguerò, P. Plaza è uno degli horror POV meglio riusciti di sempre

    [REC] di J. Balaguerò, P. Plaza è uno degli horror POV meglio riusciti di sempre

    Una giornalista passa la notte presso una stazione dei pompieri, seguendoli assieme al suo cameraman per girare una sorta di reality durante una normale operazione di routine. Arrivati alla palazzina di Barcellona da cui è partita la chiamata, si tratta di far uscire un’anziana donna che sembra essere rimasta bloccata nel proprio appartamento. Dopo pochi attimi si scatena il panico dentro l’edificio…

    In breve. Diffidate da qualsiasi opinione negativa possiate aver sentito, o su presunti scopiazzamenti: i due spagnoli ci sanno fare, costruiscono un buon film artigianale e metteranno a dura prova i vostri nervi. Trama solida e imprevedibile.

    Ricordo di aver visto, ormai diversi anni fa, un film del primo regista (Balaguerò), e doveva essere Nameless – Entità nascosta, che non ricordo per nulla se non per il fatto che mi deluse. Al tempo stesso buttai un occhio, come si suol dire, a Second Name (di Plaza) che mi fece pressappoco lo stesso effetto. Mi sono quindi avvicinato a [REC] con più di qualche perplessità, perchè temevo che si trattasse dell’ennesimo clone in stile mockumentary , del quale la maggioranza di noi dovrebbe aver piene le scatole. Del resto i toni miracolistici della critica su quest’opera mi facevano quasi passare la voglia, ancor più per il fatto che avvenivano spesso da parte di “stroncatori professionisti” di pellicole horror; dulcis in fundo, trovavo insopportabile sentire gente ripetere a pappagallo che “tanto è uguale a The Blair Witch Project“. Basta chiacchiere, quindi, e l’ho appena finito di vedere. Ne vale pena, se posso dirlo subito. Esiste, sulla scia del successo europeo, un remake americano di [REC] che, essendo peraltro in forma shot-to-shot penso che ne avremmo fatto volentieri a meno.

    [REC], con mia sorpresa, gioca infatti con grande abilità con le riprese (è fatto interamente in soggettiva amatoriale, con tanto di tremolii e camera mobile), mostrando un mondo che fa paura proprio perchè – come ripetuto fino alla nausea dalla giornalista Angela Vidal (la bella ed espressiva Manuela Velasco) – “bisogna riprendere tutto“. A tal proposito l’idea di far impersonare ad una professionista la parte di sè stessa, anche se fosse dovuta ad esigenze di low-budget, è molto efficace e realistica, ed ho la prova che si possa fare ancora oggi seriamente paura con un film. Balaguerò-Plaza lo provano coi fatti, facendo capire che ci sanno fare, che conoscono il cinema del terrore – cosa fondamentale – e che sanno sfruttare gli stereotipi del genere con grande bravura e senza strafare.

    Un horror moderno, quindi, vagamente fastidioso per la sua forma amatoriale, mentre il suo giocare sul colpo di scena è ben congegnato – e ricorda quello potremmo vedere in un capitolo di un qualsiasi film di zombi alla Romero. Questo nonostante i primi 15 minuti trascorrano in un fastidioso formato da reality insipido, e nonostante gli spettatori più esperti di horror possano facilmente sincronizzarsi col body count durante lo svolgimento dei fatti: credetemi, posso garantire che vale la pena di “resistere” perchè [REC] è un crescendo delirante, fino ad un finale convulso e spaventoso all’ennesima potenza.

    Posso dire che mi sia piaciuto, quindi, nonostante le aspettative non fossero esaltanti, e questo anche solo per l’ambientazione claustrofobica, la recitazione e gli stilemi da zombie-movie e lo stile registico; fanno meglio Balaguerò & Plaza con una videocamera amatoriale che altri loro colleghi con fari e telecamere. Infine non posso non ricordare la meravigliosa citazione de “La casa” di Sam Raimi, un tocco di classe davvero molto azzeccato nel contesto. Un film per le care vecchie visioni da grindhouse, con una trama scarna, buona interpretazione, segreti inconfessabili e sangue a fiumi: Ash, se potesse, ne sarebbe fiero…

    Volevamo che la paura sembrasse il più reale possibile e in questo senso, il linguaggio televisivo ci è sembrato particolarmente interessante. Con la sua ossessione nel cercare ciò che è amorale, che è illegale, che è estremo. Ormai la gente il rapporto con la realtà ce l’ha proprio attraverso la tv. (Balaguerò, Repubblica)

  • Non puoi non aver visto “Jeepers Creepers”

    Non puoi non aver visto “Jeepers Creepers”

    Due fratelli in viaggio su una strada semi-deserta incontrano uno strano individuo che traffica un paio di sacchi all’interno di uno scarico: la curiosità, in questi casi, è una pessima idea…

    In breve. Horror lineare e ben costruito che possiede, oltre ad una serie di pregi, quello della brevità. Uno dei ultimi vagiti di cinema del terrore basato puramente sui modelli anni ottanta, che bilancia alla perfezione “commercialità” e spirito underground: da non perdere.

    Da tempo sono dell’idea che realizzare bene un horror imponga una profonda conoscenza di molte altre pellicole: in alternativa, per quanto non sia l’unico aspetto da tenere in considerazione, il rischio di degenerare nel ridicolo involontario è serissimo. Appare subito evidente che Salva – regista di questo primo episodio del demone creeper – conosca bene il cinema, e lo si nota quando omaggia due cult come Duel e The hitcher (Jeepers Creepers inizia, mutatis mutandis, allo stesso modo della pellicola di Harmon). Citare i film preferiti è solitamente gradevole per il pubblico del cinema di genere, tanto da diventare un espediente di cui, negli ultimi, molte persone sono diventate pienamente consapevoli grazie alle parole di Tarantino. Roba da film anni 80/90, espedienti citazionisti a cui poteva ricorrere Tobe Hooper all’apice del proprio splendore ma che, già nel 2001, sembravano appartenere ad un cinema horror “fuori moda”. Con un pubblico sempre più difficile da intrattenere e spaventare, infatti, oltre che sempre più viziato dai consueti giochetti narrativi capaci di fare sbadigliare invece che sussultare, ci voleva un discreto coraggio che qui, a mio parere, non è mancato.

    Jeepers Creepers si fonda su una storia semplice quanto solida (anche se non originalissima), non corre il rischio di cadere nel ridicolo auto-compiacimento perchè, a ben vedere, preme subito il pedale dell’acceleratore, evita il superfluo ed ci introduce alla storia di due fratelli che, come si vedrà, avranno a che fare con un inquietante creeper, un demone inventato dalla sceneggiatura – un po’ come accade per un suo omologo nel recente Sinister – che si risveglia ogni ventitreesima primavera, e che necessita di sostituire i propri organi con quelli delle vittime. Jeepers Creepers è un buon film, realizzato con stile e buona presa sul pubblico, e questo nonostante abbia qualche pecca come originalità, e nonostante certe situazioni rischino di risultare “telefonate”. Tutto questo livello di relativa fluidità della storia, che sa essere anche ironica a tratti senza mai sconfinare nella demenza alla Peter Jackson, va parzialmente in controtendenza rispetto a pellicole di quel periodo molto più seriose, complesse o paranoiche (The experiment, Non ho sonno, Session 9).

    Come detto la dinamica di “Jeepers Creepers” appare dichiaratamente ottantiana, con i suoi personaggi principali caratterizzati come i tipici adolescenti comuni nei quali è facile identificarsi, con una minaccia proveniente dall’esterno, l’ineluttabilità fatalista del caso a farla da padrone per lo sviluppo delle circostanze, e soprattutto – direi – la figura di un eccellente villain che sarebbe diventato protagonista di una saga (per quanto esile essa possa essere). Al tempo stesso, pero’, non mancano elementi che evitano di rendere il film anacronistico, come l’attualizzazione dei ritmi ed un sostanziale rifiuto di imitare  passivamente tempi, luoghi e topoi del cinema orrorifico di venti anni prima. “Jeepers Creepers” è forse uno degli ultimi sussulti degni di nota di un cinema horror quasi fumettistico, che ti ricorda perennemente che ti trovi dentro ad una provincia americana e che quello è soltanto un film, una pellicola cosparsa di babau che, dopo pochi anni, sarebbero stati sostituiti dalla foga morbosa ed ultra-realistica del torture porn. Per la cronaca Jeepers Creepers (maccheronicamente “cose che strisciano sulle camionette“, cosa che il demone fa lanciandosi sulla strada a velocità folle in cerca di vittime) evoca il titolo di un brano di Armstrong e viene utilizzato come espressione gergale.

    “Mangia polmoni per poter respirare, ed occhi… per poter vedere… e credo che abbia mangiato troppi cuori per potersi fermare.”

  • Il circo della farfalla: la storia dell’uomo senza arti di J. Weigel

    Il circo della farfalla: la storia dell’uomo senza arti di J. Weigel

    Will non possiede nè gambe nè braccia: e per questo motivo viene sfruttato da fenomeno da baraccone, modello Freaks.

    In breve. Un sintetico saggio di “crescita personale”, incentrato su un personaggio caratterizzato da un handicap fisico.

    Uscito nel 2009 e diventato molto popolare sul web, vanta circa 40 milioni di visualizzazioni il che vuol dire, senza cimentarci in calcoli improbabili, che moltissime persone al mondo lo hanno visto (e soprattutto citato). Se state cercando uno dei film virali per eccellenza, lo avete appena trovato: ma ovviamente il numero di views non dirà granchè, di suo, sulla qualità del prodotto.

    Per certi versi, l’ambientazione circense iniziale (siamo in un circo, diretto da un eccentrico direttore co-protagonista con la presenza di Will, personaggio principale sul quale si incentra il focus della storia) presenta un vago richiamo a quella dei grandi horror (si va da Rob Zombi a Tobe Hooper), ma ovviamente senza l’incisività aggressiva di quel tipo di riprese. I clown, gli acrobati ed i freak in genere sono espressione di una singolarità per cui vengono paradossalmente derisi o ammirati, a seconda dei casi. Il tono è assolutamente pacato, realmente per un pubblico di ogni età e gusti, ed è caratterizzato da toni favolistico-psicologici.

    Il circo in questione si rivelerà essere popolato da artisti reietti (la donna cacciata in malo modo perchè incinta, l’acrobata considerato troppo anziano per lavorare e via dicendo), e per questo The butterfly circus è anche intriso di una malinconia di fondo che, a lungo andare, potrebbe risultare vagamente artificiosa, al netto della fortissima teatralità e carica motivazionale di ciò che vediamo al suo interno. Consiglio anche di vedere il film in lingua originale, non per vezzo radical chic ma perchè il doppiaggio, a mio avviso, tende a rimarcare qualche difetto per un film che, tutto sommato, sembra totalmente sincero nella propria attitudine.

    Per chi conosce a memoria soprattutto The elephant man e Freaks (il cui pessimismo antropologico è qui assente, se non completamente invertito: Will troverà un proprio numero da eseguire nello spettacolo, ritrovando una propria dimensione umana e attraendo, così facendo, i propri simili) dovrebbe essere un must, anche per coglierne determinate sfumature che tendono vagamente al lacrimoso – lo ribadisco, senza passare per uno stereotipato “cuore di pietra” – ma che rendono la storia perfettamente godibile anche per chi non avesse presente quei canoni.

    Il messaggio di fondo è che dalle ceneri può nascere la bellezza, passando per un percorso di auto-consapevolezza a cui il protagonista, demoralizzato per la propria condizione fisica, viene indirizzato dal direttore del circo (peraltro in maniera apparentemente cinica). Al netto della validità del messaggio, rimane anche una forma registica molto compatta: non era agevole sintetizzare in soli 20 minuti tutto questo, senza cedere alla tentazione di incursioni didascaliche o moraliste.

    Il format non è esattamente da cinema d’autore classico, ma chissà che non venga considerato tale tra qualche anno, magari.

  • Cuori in Atlantide: trama, cast, spiegazione

    Cuori in Atlantide: trama, cast, spiegazione

    Titolo: Cuori in Atlantide
    Regia: Scott Hicks
    Cast principale: Anthony Hopkins, Anton Yelchin, Hope Davis

    Storia:
    “Cuori in Atlantide” è un film del 2001 diretto da Scott Hicks, basato su una serie di racconti brevi di Stephen King. La trama si svolge nell’estate del 1960 e segue un giovane di nome Bobby Garfield (interpretato da Anton Yelchin) che sviluppa un legame profondo con il misterioso inquilino della casa di fianco, Ted Brautigan (interpretato da Anthony Hopkins). Bobby scopre che Ted ha poteri telepatici e sta cercando di sfuggire a una misteriosa organizzazione che vuole sfruttare le sue abilità.

    Storia dettagliata:
    Il film si concentra sul rapporto tra Bobby e Ted, un uomo misterioso che si stabilisce nella casa di fianco. Ted rileva le capacità telepatiche di Bobby e stabilisce una connessione speciale con lui. Ted rivela di essere inseguito da una forza oscura che cerca di sfruttare i suoi poteri. Mentre la relazione tra i due cresce, Bobby deve affrontare anche le complessità dell’infanzia e le dinamiche familiari difficili.

    Nel corso del film, si scopre che la madre di Bobby, interpretata da Hope Davis, è coinvolta con l’organizzazione che sta cercando di rintracciare Ted. Bobby decide di aiutare Ted a sfuggire alla cattura, nonostante il pericolo che ciò comporta. Nel processo, Bobby scopre la vera natura dell’amicizia, l’importanza di affrontare le proprie paure e la complessità del mondo degli adulti.

    Temi principali:
    Il film esplora temi come l’amicizia, l’innocenza dell’infanzia, la corruzione dell’età adulta e il potere della memoria. Ted funge da figura paterna per Bobby, guidandolo attraverso la transizione dall’infanzia all’adolescenza e insegnandogli importanti lezioni sulla vita. Il film dipinge un ritratto affettuoso e nostalgico degli anni ’60 e delle esperienze che plasmano l’identità di Bobby.

    Curiosità:

    • Il film è basato sulla raccolta di racconti di Stephen King intitolata “Cuori in Atlantide”, anche se il film si concentra principalmente su uno dei racconti, “La Camera della Scimmia”.
    • Anthony Hopkins è elogiato per la sua interpretazione di Ted Brautigan, catturando l’essenza misteriosa e complessa del personaggio.

    Spiegazione del finale con spoiler

    “Cuori in Atlantide” è un film che tocca il cuore degli spettatori attraverso il rapporto unico tra il giovane Bobby e il misterioso Ted. La storia offre una visione intima delle sfide e delle opportunità dell’infanzia, avvolta in un alone di mistero e magia. La telepatia di Ted aggiunge un elemento di fantastico al contesto realistico degli anni ’60. In definitiva, il film esplora la profonda influenza che le persone speciali possono avere sulla nostra vita e il potere della memoria nel plasmare chi siamo diventati.

    Alla fine il protagonista afferma che Ted sparisce dalla sua vita, e pur ricordandolo sempre non lo incontrò mai più, entrando ufficialmente nell’età adulta e perdendo, apparentemente, le propri capacità telepatiche.

    Immagine: Di DMarx22 – catturato da me, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=9739545

  • Recensione di “The substance” senza spoiler, per chi non l’avesse ancora visto

    Recensione di “The substance” senza spoiler, per chi non l’avesse ancora visto

    In pochissime parole The substance è un film sul tema del doppio, ben oltre i canoni del sottogenere e ricco di cinematografia horror classica come non se ne vedeva da tempo. Un lavoro complesso, stratificato su almeno due direttive (la società dello spettacolo e la questione femminile) e che fa ampio uso dei canoni cinematografici tipici dei classici dell’horror anni Ottanta. Un tema, quello del doppio, da sempre al centro di cinematografia e letteratura mondiale, declinato come espressione della crisi di un personaggio in senso universale, sociologico: “il” conflitto per eccellenza. Un sottogenere di film, quelli incentrati sul doppio (Doppelganger) che suggerisce, da che mondo è mondo, miriadi di metafore sociali, psicologiche ed esistenziali. Il punto è che una discreta parte di queste pellicole si limitano a esibire l’aspetto scenografico limitando l’apparato simbolico, o al limite fanno l’esatto opposto con risultati comprensibili a pochi. The substance trova un equilibrio anche in questo, e tanto basta.

    Film del 2024 della regista Coralie Fargeat, al suo secondo lungometraggio dopo Revenge, rientra nello spinoso novero degli horror sociologici, e presenta un body horror (l’horror incentrato sulla genetica del corpo e sulle sue degenerazioni), sulla falsariga di come l’avrebbe concepito David Cronenberg in quel gioiello noto come Inseparabili (la storia, per chi non lo ricordasse, di due gemelli chirurghi che si scambiano e confondono i rispettivi ruoli). Ma si dirige con maestria, essenzialità e gusto del macabro strizzando l’occhio a uno degli horror sociali più famosi di ogni tempo: Society di Brian Yuzna, un mini trattato sociologico, anche stavolta in chiave grottesca, del mondo ipocrita delle apparenze e dei VIP. C’è realmente tutto, dentro The substance, senza neanche l’esigenza di esibire autoindulgenza, richiamarsi ad una pompa magna cinefila fine a se stessa, senza autocelebrazione, senza pretenziosità, senza l’ossessione del riferimento culturale da nerd che finirebbe per dare più fastidio che altro. Al netto degli eccessi di un finale esageratamente gore (e forse un po’ troppo lungo, che abbiamo deciso di non rivelare per non togliervi il gusto di scoprirlo da soli)  The substance non lascerà il pubblico indifferente, specie se paragonato al precedente lungometraggio della Fargeat quasi sulle stesse tematiche che, a dirla tutta, aveva convinto solo in parte. E le tematiche sono e rimangono di genere, naturalmente: patriarcato, questione femminile, parità di diritti, tutti declinati in chiave splatter.

    Non a caso Peter Bradshaw ha scritto sul The guardian che Roger Corman avrebbe certamente amato The substance, dato che è un’opera imbevuta di riferimenti smart ai classici del genere: Society, La cosa di John Carpenter – e potremmo spingerci addirittura fino a Elephant Man di David Lynch. The substance è probabilmente uno dei migliori esempi di horror splatter moderno per il quale la metafora è tanto ben costruita da evocare uno studio scientifico di genere, e per cui i dettagli fanno la differenza (anche quelli più apparentemente insignificanti: su tutti il fatto che i produttori televisivi siano rappresentati sempre e solo come maschi di età avanzata). Non a caso, il film si apre con l’immagine di un uovo nel cui tuorlo viene iniettato quello che si scoprirà essere un siero per ringiovanire le persone, il quale produce la scissione del tuorlo in un doppio identico per partogenesi (anche qui, non a caso, un processo di fecondazione senza spermatozoi).

    La società delle apparenze di THE SUBSTANCE non è solo e semplicemente bigotta e conformista: è imbevuta di cultura patriarcale, di un mansplaining irritante e superbo, di aspettative sociali irrealizzabili quanto ambite, intollerabili per qualsiasi donna che, di sicuro, mai potrà mantenersi “giovane & bella” come vorrebbe (o meglio, come il mondo maschile si aspetta). Il mito dell’eterna giovinezza evocate sulle prime, pertanto, diventa un pretesto per costruire un horror femminista, sulla falsariga di Revenge della stessa regista e con maggiore consapevolezza di stile, mezzi e modi, più centrati in questo caso sull’horror puro che sulla exploitation. Con le idee più chiare sul messaggio da recapitare al pubblico, con l’idea che il cinema possa ancora, contrariamente all’aspetto meramente speculativo amato dalla maggioranza dei cinefili, essere espressione di critica sociale in senso praticamente marxista. Woke, diranno i detrattori!

    Del resto The substance è anche un corposo splatter incentrato sulle mostruosità della società dello spettacolo, lo stesso spettacolo che secondo Guy Debord consiste in “un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini“. Non bisogna, in altri termini, limitarsi a vedere l’aspetto esteriore delle immagini patinate delle atlete di aerobica perfette quanto sessualmente allusive, ma bisognerebbe considerarle frutto di un contratto, di una burocrazia televisiva che pretende di conoscere e modellare i gusti del pubblico (qualsiasi cosa si voglia intendere con esso), in uno scenario di un mondo maschile tendenzialmente gretto quanto ambivalente – qui rappresentato come volgare e irrispettoso verso le donne più avanti con l’età quanto servile e disponibile, grottescamente, nei confronti delle giovani.

    The substance, col suo incendere inesorabile ed essenziale (e la sua forma prima da thriller, poi da body horror, infine da splatter puro con tanto di litri di sangue che sgorgheranno da ogni dove), racconta una storia ambientata ai giorni nostri che (probabilmente non a caso) strizza l’occhio agli anni Ottanta (come fa anche Maxxxine, ad esempio). Serve a creare un riferimento culturale ben riconoscibile ma, a ben vedere, se esistono le penne USB non possono essere gli anni Ottanta. Perchè forse non è quello il punto: e allora diciamo sì all’immaginario iconico da fitness televisivo (inteso non in termini salutisti, ma puramente estetici), e rappresentiamo un mondo in cui la chirurgia estetica si potrà fare anche in casa. Il fai-da-te che osanna l’individualismo sfrenato del mondo in cui viviamo, per cui non esistono che post verità ed ognuno, letteralmente, si fabbrica in casa la propria, arrivando a rimodellarsi il corpo in autonomia. Al tempo stesso, il rapporto sociale in gioco è tra la donna e la società di oggi, ovviamente patriarcale, una donna ridotta a blanda fisicità, a forme sempre perfette, invidiabili, prive di imperfezioni; una donna pressata ossessivamente ad essere bella quanto passiva, sempre sorridente, presente agli eventi, socialmente impeccabile, sessualmente attiva.

    Elisabeth (Demi Moore) conduce un programma televisivo sul fitness per cui tutto sembra andare per il meglio, dato che il pubblico la segue con interesse e lo show gode di grande successo. Dopo aver finito le riprese di una puntata, proprio nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, sente casualmente il suo produttore fare considerazioni sulla necessità di sostituirla con una showgirl più giovane. La circostanza la manda in crisi esistenziale: poco dopo fa un incidente d’auto, da cui esce miracolosamente illesa. È a questo punto che un ambiguo infermiere le consegna una chiavetta USB con su scritto THE SUBSTANCE – il film sarà periodicamente intervallato da queste scritte emblematiche, tutte in maiuscolo, che sembrano assolvere una funzione analoga a quella dei cartelli portati in scena dal teatro brechtiano.

    La chiavetta contiene la pubblicità di una misteriosa azienda che si occupa di chirurgia estetica “fai da te”, in grado di fornire un kit per far ringiovanire chiunque volesse farlo. Da questo acquisto Elisabeth sarà effettivamente rigenerata e potrà proporsi al suo stesso programma in veste di Sue (Margaret Qualley), con l’unico dettaglio che il suo corpo non è stato propriamente sostituito, ma si è scisso in due: i due corpi sono dipendenti tra loro, hanno bisogno di essere alimentati periodicamente e uno potrà trarre giovamento dall’altro, come un parassita. È una situazione puramente cronenberghiana, a ben vedere, tipica del body horror di ogni latitudine, in cui da un lato c’è l’ossessione per l’estetica perfezionista (e la critica sottintesa al fatto che una donna che passa i cinquanta anni debba ricevere un trattamento sociale ben più crudele di quanto avvenga per l’uomo), dall’altro c’è l’ossessione per uno spettacolo artefatto e mortifero, che “deve” andare avanti ad ogni costo. E in ultimo, ma non ultimo come importata: la lotta tra i due corpi giovane / anziano di Elisabeth e Sue non esiste, non è mai esistita e mai potrà esistere, perchè è solo l’ennesimo conflitto interiore di una donna: un’allegoria talmente potente da dare l’impressione di uscire dallo schermo durante la proiezione.

    Sue non sarà pertanto solo l’alter ego giovane, dinamico, bello e propositivo di Elisabeth: ad un certo punto inizierà ad (auto)abusare del suo vecchio corpo, per egoismo ed avidità personale, mentre Elisabeth sarà sempre più sola, affranta e sregolata emotivamente per la scelta compiuta. Con risultati sempre più devastanti, come prevedibile, e con il merito da attribuire alla regia di aver costruito un horror compatto, molto ben girato, privo di fronzoli e che sicuramente farà discutere (farà discutere soprattutto chi percepirà l’opera come un attacco allo status quo, e che finirà per rilevarne difetti inesistenti).

    In definitiva ci sono discrete probabilità che con The substance Coralie Fargeat (classe 1976, che firma regia e sceneggiatura) sia rientrata con questo film nell’olimpo dei cult, dei film che rivedremo anche in futuro nelle retrospettive, affiancandosi a mostri sacri del cinema horror come Cronenberg e Carpenter. Non a caso, forse, tra le prime donne a muoversi (finalmente) in questa direzione.