FOBIE_ (180 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Manhattan Baby è il terrore lovecraftiano che partiva dall’Egitto

    Manhattan Baby è il terrore lovecraftiano che partiva dall’Egitto

    Susy (Brigitta Boccoli) si trova in Egitto, assieme al padre archeologo ed alla madra giornalista; avvicinata da uno strano personaggio, riceve un ciondolo che si rivela, dopo poco tempo, alquanto pericoloso.

    In breve. Il messaggio di fondo è che certi segreti, come da tradizione lovecraftiana, non andrebbero violati da nessun essere umano. Un horror poco noto del grande terrorista dei generi, con pochi mezzi (effetti speciali molto artigianali) e discreta sostanza: tutto sommato, piuttosto intrigante quanto autenticamente b-movie.

    Ambientazione inizialmente egizia e successivamente – come da titolo – nella famosa città USA al giorni d’oggi: Manhattan Baby di Lucio Fulci, oltre a riprendere l’idea archetipica dell’orrore proveniente da luoghi oscuri ed esotici, si ispira in parte alle idee contenute in due pilastri dell’horror settantiano: “L’Esorcista” di Friedkin ed il “Il Presagio” di Donner. Pur senza la spettacolarizzazione fisica e psicologica di questi due cult movie, l’uso dell’innocente presenza di un ragazzino (in questo caso una ragazzina) come strumento, burattino infido nelle mani del maligno è piuttosto riuscita. Questo nonostante un ritmo rallentato nella metà del film, e degli effetti speciali non esattamente holywoodiani.

    Si tratta di un film che risente ovviamente del periodo in cui è uscito, e che giudicare oggi come datato appare scontato – e in parte secondario – rispetto alle idee sviluppate: il soggetto è affidato a Dardano Sacchetti ed Elisa Briganti, la coppia di artefici di piccoli capolavori di cinema off-limits, quali Zombi 2, Quella villa accanto al cimitero e, naturalmente, la creazione – assieme ad Umberto Lenzi – del personaggio di “Er Monnezza”. Non è un mistero che Sacchetti sia stato enormemente valorizzato da Fulci, e questo si nota in parte – e nonostante una pochezza di mezzi a volte troppo evidente – anche in “Manhattan Baby“, una storia veramente suggestica e con un discreto sottotesto storico abilmente ricostruito. Il celebre finale, poi, che finisce per evocare le fobie de Gli uccelli di Hitchcock, non soltanto lo cita, ma lo rielabora in chiave fulciana: solo il grande maestro romano, infatti, avrebbe potuto mostrare la soggettiva della vittima mentre viene massacrata dai becchi dei volatili, con tutto il cinico realismo che accompagnava molte delle sue sequenze più truci. Un film non indispensabile in mezzo alla sterminata filmografia di Fulci, ma probabilmente uno degli ultimo veri film diretti dal regista.

    Musiche, come sempre di grandissimo livello, a cura di Fabio Frizzi.

    Locandine: imdb.com

     “Le tombe sono dei morti”

  • Perchè “Halloween II” di Rob Zombi è un horror incisivo e accattivante

    Perchè “Halloween II” di Rob Zombi è un horror incisivo e accattivante

    Apparentemente morto nel capitolo precedente, il crudele villain con la maschera inespressiva Michael Myers è tornato sulle scene.

    In breve. Molto simile al primo episodio, ne costituisce un prosieguo naturale e funziona, a conti fatti, solo in parte. Non esente da difetti, ma certamente dignitoso.

    Secondo episodio del reboot di Halloween di John Carpenter, che segue direttamente – e senza troppi preamboli – l’ottimo capitolo precedente girato da Rob Zombie: era francamente difficile bissarne le qualità (sempre soggettive, ovviamente, ma a mio parere è inequivocabile ci siano), ed il nostro regista riesce solo in parte nell’impresa. Lo fa, peraltro, impreziosendo la pellicola con spunti onirico-surreali del tutto assenti dal feeling generale della saga (la visione del cavallo e della madre di Michael, entrambi in bianco), che servono soprattutto a spezzare quella che, in mano ad altri registi, avrebbe rischiato di diventare monotonia. D’altro canto, pero’, si evidenzia il lato isterico e spaventoso della psiche di Laurie, che ignora di essere sorella di Micheal Myers ed accentua, per questo, il proprio lato più oscuro. Se in generale poteva essere uno spunto interessante, in certi momenti questo sembra un po’ monocorde.

    Il livello di splatter è prevedibilmente alto anche qui, con una sorta di seguito naturale delle vicende narrate in precedenza, e che mi pare opportuno vedere prima, per evitare che molti dettagli scorrano troppo velocemente senza comprenderne il senso. In questo Zombie è ancora una volta magistrale: il suo horror è rapido (in certe scene d’azione, forse troppo), diretto, essenziale e ricco della giusta dose di gore, che viene spiattellata in modo inesorabile ad un pubblico che, forse quasi esclusivamente, lo ama per questo motivo. Già Zombie aveva sfatato il tabù dell’intoccabilità dei classici, facendo togliere la maschera a Myers (una cosa impensabile, ai tempi dell’uscita), arricchendo la trama di un certo senso onirico e simbolico (sul cavallo bianco ed il suo significato ci sono varie interpretazioni), rielaborando la storia come se fosse un soggetto proprio – ed in effetti lo è: probabilmente la sua è anche l’unica strategia per dare dignità al concetto, perlopiù travisato, del fare un remake.

    Un problema di fondo di questo film è anche legato alla sua indistinguibilità dalla miriade di seguiti anche precedenti: non si tratta di Halloween II degli anni ’80 (quello che Carpenter sceneggiò e fece girare ad un esordiente Rosenthal), ovviamente, per quanto addirittura alcune scene siano simili (Myers nell’ospedale, ad esempio). Soprattutto – per certi versi – la rilettura della saga proposta dal regista, pur validissima nel suo esordio, in questa sede sembra smarrire un po’ di mordente, nonostante i tributi (vari horror classici ed uno al Rocky Horror Picture Show, con le tre ragazze vestite da Magenta, Columbia e Frank-n-further), riuscendo di meno a sorprendere e riavvolgendosi a spirale su idee già note, sia pur con l’apparizione improvvisa ed inquietante della madre di Michael, sempre accompagnata dal figlio da ragazzino. Alcune sequenze onirico-surreali rimangono sopra le righe, se non altro, ed è anche curioso come Loomis, la storica figura del dottore che aveva curato Myers, diventi quasi un personaggio negativo, avido e privo di scrupoli nel cercare di vendere il proprio libro. Alla base del film, la taglineFamily is forever“: Myers cerca ancora una volta la propria famiglia, per potersi ricongiungere ad essa.

    A quanto pare il regista decise di girare il seguito (cosa che inizialmente si sarebbe rifiutato di fare, a suo stesso dire) solo per evitare che la visione complessiva ne risultasse alterata da qualcun altro, buttandosi a capofitto nell’impresa che sa ancor più di kolossal, con questo secondo episodio. Il film stavolta è girato a 16mm in 1.85:1, a differenza del precedente remake che era invece in 2.39:1 (che per motivi tecnici Zombie ha dichiarato di non amare troppo). Di fatto non sembrano sussistere troppe differenze a livello di dinamiche d’azione e di omicidi, come è facile immaginare, senza contare che non sono neanche trascorsi troppi anni dal precedente (appena due): Myers diventa un’ombra che si aggira per uccidere nei modi più brutali, questa volta (dettaglio considerevole) comparendo in più occasioni senza maschera. Il Faerch che interpretava il giovane Myers, peraltro, viene qui sostituito da un altro interprete abbastanza somigliante, probabilmente perchè all’epoca sarebbe sembrato più grande rispetto al film precedente. Nota considerevole sul film, peraltro, è legata al fatto che alcuni attori interpretano più ruoli diversi: Jeff Daniel Phillips ad esempio è sia Howard Boggs che Uncle Seymour Coffins, mentre Dick Warlock ne interpreta addirittura tre.

  • Brivido: macchine che si ribellano agli uomini, regia di Stephen King

    Brivido: macchine che si ribellano agli uomini, regia di Stephen King

    Come diretta conseguenza del passaggio di una cometa le macchine (dai cabinati di videogame ai bancomat, passando per camion e coltelli elettrici) impazziscono, e si ribellano agli uomini. Un gruppo di persone si ritrova in una stazione di servizio per provare una disperata fuga.

    In due parole. Un classico dell’orrore anni ’80, caratterizzato da una minaccia strisciante e infida che viene fuori dalle macchine, ed è in grado di rivoltarsi violentemente contro l’uomo. King, omaggiando il cinema di genere anni 50 e 60, con Brivido volle simboleggiare la propria inquietudine per l’avvento di una tecnologia in rapido sviluppo in quegli anni, che oggi (peraltro) appare obsoleta: nonostante questo, il film non sembra troppo vecchio rispetto all’età che ha, e presenta vari punti positivi che lo rendono puramente cult (anche se non al top).

    Annunciato con scarsa modestia (vedi tagline della locandina) come un masterpiece del terrore diretto da uno dei più grandi scrittori del genere, Brivido si rivela quasi subito, durante la visione, per quello che è: un modesto b-movie che, a seconda dei punti di vista, convince poco o abbastanza – ma diverte, tutto sommato. Anche solo per le situazioni che si vedono, perfettamente riconoscibili per i fan del regista (abituati alla sua scrittura ed agli scenari che descrive): il cinico boss della stazione di servizio, ad esempio, oppure la svampita che lavora ai tavoli, sono senza dubbio tra i più stereotipati.

    “Tesoro, se ho ben capito questa macchina mi sta dando dello stronzo” (S. King)

    A cominciare dal bancomat che insulta un cliente, passando per coltelli elettrici impazziti, camion con istinti omicidi, flipper che si muovono da soli, ponti mobili che si aprono senza preavviso e distributori di bibite che sputano lattine, con “Brivido” Stephen King tenta la sua prima ed unica esperienza registica, mostrando da subito una capacità fuori da comune di sintetizzare gli stereotipi dell’orrore. Il più grande pregio di un film del genere, del resto, risiede proprio in questa immensa capacità di sintesi, nel suo saper dire qualcosa senza dire nulla di nuovo. E questo si nota soprattutto nelle classiche situazioni e/o scenette tipiche del genere negli anni ’80: l’apparente normalità che aggredisce l’uomo, l’ambientazione in una stazione di servizio, i personaggi tipici – dal cinico alla svampita, passando per il lavoratore sfruttato nonchè deus ex machina – soprattutto i richiami alla situazione di stallo romeriana: tutti i personaggi restano intrappolati in un edificio per via di una minaccia esterna, trend inaugurato da La notte dei morti viventi.

    Questo avviene sia dal punto di vista delle sequenze, delle scene e delle svariate situazioni archetipiche per il genere, che da quello di valorizzare un cinema classico che stava per perdere, suo malgrado, numerosi colpi: un equilibrio globale piuttosto raro nel periodo, che potrebbe interessa il pubblico ancora oggi e fa sentire poco l’età del film stesso. Certamente il fatto che l’autore dello script sia uno scrittore di professione e soprattuto coincida con la figura del regista ha fatto sì che l’intera impalcatura potesse reggere in modo dignitoso, anche se (soprattutto se visto oggi) sembra fuoriluogo parlare di un vero e proprio capolavoro.

    Certamente si tratta di uno dei tanti classici del genere horror anni ottanta, per quanto non sia troppo raffinato o sanguinolento, e soprattutto nonostante la situazione base ricordi in parte (e con mezzi molto minori, ovviamente) quella vista nella popolare saga di Terminator o Hardware – Metallo letale – nelle quali, pero’, per macchine che si ribellano agli uomini si intendevano cyborg molto fighi.

    In definitiva un film per appassionati “raw & wild” o, se preferite, per onanisti dell’orrore. Colonna sonora affidata interamente agli AC/DC, su esplicita richiesta kinghiana.

  • Phenomena: un capolavoro horror senza tempo, firmato da Dario Argento

    Phenomena: un capolavoro horror senza tempo, firmato da Dario Argento

    Jennifer viene dagli Stati Uniti per studiare in Svizzera, in una particolare regione detta la “Transilvania” della stessa. Si reca a risiedere in un collegio femminile, dove viene da subito presa di mira da una direttrice ultra-autoritaria (e vagamente cattolico-integralista, come si coglie da una sua battuta) e dalla maggioranza di allieve della scuola. Nel frattempo si stanno consumando dei misteriosi omicidi di ragazze molto giovani, e toccherà alla nostra Jennifer (che possiede un’insolita capacità telepatica di comunicare con gli insetti) riuscire a trovare il bandolo della matassa.

    In breve. Phenomena è sicuramente uno dei migliori film del periodo “tardo” argentiano, si parla del 1985 e della splendida (in ogni senso) protagonista Jennifer O’ Connelly.

    Vagamente simile per l’ambientazione e alcune scene al celebre Suspiria, vanta una serie di caratteristiche che lo hanno reso uno dei film più famosi ed influenti anche (e forse soprattutto) all’estero. Un’ambientazione prettamente naturalistica, piena di vermi ed insetti di ogni specie – fanno davvero paura, in fondo perchè mai? – in particolare insetti come la mosca cosiddetta “sarcofaga” che viene utilizzata dall’entomologo protagonista per datare i cadaveri.

    Si registra la presenza nel film di Dalila di Lazzaro (direttrice) e soprattutto del mitico e rimpianto Donald Pleasence (entomologo). Il film è carico, come raramente in Argento, di simbologie e metafore. In particolare, la figura di Jennifer non sta che a simboleggiare l’umanità persa, quella capace con la sua grande sensibilità di comunicare con gli insetti, ma impossibilitata a dire qualsiasi cosa ed a ricevere fiducia dagli altri esseri umani. Quegli esseri umani crudeli, cinici e senza cuore che la ridicolizzano e la prendono in giro per il suo essere “diversa”. Quel senso di discriminazione che la protagonista appaga soltanto con gli animali, che sono liberi dalle convenzioni ipocrite dell’uomo e non è escluso che vivano ogni cosa più intensamente, ivi compresi l’amore ed il rispetto per i propri simili. Una parabola ambientalista, senza dubbio, libera dai luoghi comuni e dalle ipocrisie che a volte la accompagnano.

    Un film assolutamente da vedere e riscoprire.

    Colonna sonora: Iron Maiden (Flash of the blade), Motorhead e Goblin.

  • The Last Horror Movie: la celebrazione retrò dello snuff da videoteca

    The Last Horror Movie: la celebrazione retrò dello snuff da videoteca

    Un serial killer sfrutta un originale modus operandi per far conoscere i propri delitti: noleggia videocassette di slasher a basso costo e sovrascrive i nastri filmando i propri film snuff. Max Parry è ufficialmente un fotografo di matrimoni…

    In breve. Nel sottogenere found footage e mockumentary The Last Horror Movie spicca non tanto per le qualità visive, che rimangono modeste, quanto per lo spessore che viene fornito al protagonista: un killer feroce, insospettabile e cannibale, che si riprende durante i propri crimini, accompagnato da un timido e sottomesso cameraman.

    Julian Richards scrive e dirige questo film tratto da un’idea considerevole: immaginare che un killer provi ad arrivare al proprio pubblico mediante un video-noleggio. Siamo nel 2003, e le videocassette sono prossime alla scomparsa definitiva: guidato da un certo nostalgismo e da un retrogusto vintage per la regia, Richards dirige un horror compatto, semplice nel suo impianto e di durata ragionevolmente bassa (poco più di un’ora). La costruzione della figura di Max è solidissima quanto spaventosa: parla davanti alla telecamera e si rivolge direttamente al pubblico, ponendo vari dilemmi filosofici e morali sull’opportunità di guardare degli snuff. Nel frattempo vediamo come si svolge la sua vita, tra le visite alla sorella, alla nonna e ai nipotini, tra interviste che realizza per strada (a volte minacciando o aggredendo i passanti). In questo il protagonista è molto sulla falsariga del personaggio principale di Henry – Pioggia di sangue, con la differenza che possiede uno spiccato sarcasmo ed uno humour nero da manuale.

    L’ispirazione principale del film sembra partire dalla serie horror anni ’90 Zio Tibia Picture Show, noto negli USA come Uncle Creepy e dotato anch’esso di un certo humour paradossale nell’introdurre storie di sangue e morte. In questo, a quanto sembrerebbe, Max potrebbe considerarsi una versione realistica di quel personaggio, in grado di sorprendere immediatamente lo spettatore con una cura particolare per i dialoghi e senza disdegnare riferimenti ai classici (Non aprite quella porta, ad esempio, che viene apertamente citato).

    Max, il protagonista, è istrionico e possiede velleità artistiche, ma sembra venire preso poco sul serio dai propri familiari che più volte sembrano invitarlo a “trovarsi un lavoro vero“: per questo, apparentemente, l’uomo sfoga la propria frustrazione ponendosi al di sopra della folla, operando un distinguo fondamentale tra i propri affetti (nipoti, sorella, la propria ex compagna) e l’uomo della strada, perennemente sbeffeggiato, deriso e torturato. Max si pone (anche filosoficamente, mediante discorsi forbiti e – per certi versi – addirittura sensati) al di sopra della massa, che a suo avviso è inebetita da vite monotone: in questo, l’omicidio è il suo modo di uscirne e prenderne le distanze. Durante le proprie efferatezze Max si fa accompagnare da un mite e remissivo cameraman, che lo accompagna durante le proprie giornate – siano essi momenti ordinari che altri decisamente più violenti – e con il quale ha in mente il progetto che stiamo guardando: letteralmente, “an intelligent movie about murder“, senza dubbio un bel sottotitolo per un lavoro del genere.

    The Last Horror Movie alterna senza preavviso, poi, momenti da filmino amatoriale coi parenti a delitti commessi con particolare sadismo ed efferatezza, dei quali molto si intuisce con varie inquadrature da video amatoriale, spesso fuori campo: in questo modo, Max arriva a sbeffeggiare gli stessi spettatori, sottolineando come quello che stanno vedendo non sia un film arthouse e come, soprattutto, in fondo anche loro vogliano vedere più nitidamente quello che succede. Il sogno di Max, in fondo, è quello di guadagnare la “visibilità” del proprio operato in un’ossessione cupa ed istrionica per il delitto, in cui il lato killer della sua personalità bilancia quello dotato di umorismo, empatia e capacità di stare con gli altri. Max non è, in altri termini, un vero e proprio anti-sociale come il succitato Henry, ma vive un odio represso che sfoga periodicamente girando i propri snuff, e che contribuiscono a dotarlo di un certo equilibrio dall’esterno e renderlo perfettamente anonimo, inquietante e insospettabile. Del resto chi mai penserebbe che un fotografo sognatore e stralunato come lui sia un serial killer feroce e, come se non bastasse, anche cannibale?

    La modalità del delitto segue un copione preimpostato: Max killer indossa dei guanti bianchi, si intrufola in casa delle persone, ne filma la vita di ogni giorno e poi le uccide nel modo più feroce (mediante un coltello, per soffocamento oppure con un batticarne), spesso legandole e costringendole a vedere la morte dell’eventuale partner, consapevoli di essere ripresi. Nella vita di ogni giorno, poi, continua a filmare cene di famiglia (di cui una con una carne “speciale”) e matrimoni, sempre accompagnato dall’introverso The Assistant: un anonimo cameraman trovato per strada, che proverà poi a rendere protagonista, a suo modo, del film che sta girando. Grottesco e voyeurismo sono, pertanto gli ingredienti base di questo found footage o mockumentary, di livello medio-alto e superiore alla media del genere come forma e contenuti: quasi a livello di The Poughkeepsie Tapes, che ha dalla sua una qualità fotografica superiore, che qui viene degradata probabilmente per adeguarsi ai tempi ed al formato VHS.

    Oggi un film del genere non si potrebbe più girare: sono finiti i tempi delle videoteche, e l’ultima fabbrica di VHS ha ormai chiuso. Per cui certi paradossi, come il momento in cui Max inizia ad aggredire e torturare il pubblico del suo stesso film che è andato a noleggiarlo, rischiano di passare in modo poco efficace o comprensibile. Al netto di questo, The Last Horror Movie spicca nella sua originalità e vive il suo principale punto di forza nella figura dell’istrionico protagonista.