Un documentario in cui Slavoj Zizek esamina molti film celebri, glissando dai titoli di Hitckcock a quelli di David Lynch, dal punto di vista filosofico e psico-analitico.
In breve. La filosofia di Žižek può ritenersi condivisibile o meno, ma di sicuro è più comprensibile di quella di molti suoi colleghi. Questo documentario può ritenersi, alla peggio, una guida ragionata alla riscoperta di titoli cinematografici (soprattutto horror e thriller) che hanno fatto la storia, e che siano rilevanti dal punto di vista psicoanalitico.
La Guida perversa al cinema rappresenta probabilmente uno dei documentari più importanti ed incisivi mai usciti su questo argomento; a cominciare dal titolo, che evoca evidentemente uno storico di cinematografia di genere e che coinvolge titoli di ogni ordine e grado, analizzandoli dal punto di vista del filosofo e psicoanalista sloveno Slavoj Žižek (doppiato brillantemente da Tatti Sanguineti).
Se il punto di vista di Žižek è considerato a volte controverso e, quasi senza dubbio, non sempre pienamente condivisibile, rimane un’analisi molto lucida ed efficace alla riscoperta del significato psico-analitico di molti titoli che abbiamo amato, che fosse da cinefili incalliti o da pubblico affascinato. Ad esempio quelli di Hitchcock, ed ampio spazio viene riservato a La donna che visse due volte e naturalmente Psico. Molti passaggi di quel cinema che spesso passavano sottogamba, di fatto, vengono qui rivalutati e rivitalizzati in un’ottica filosofico-concettuale decisamente affascinante, facendoci capire le probabili reali intenzioni di quei registi.
https://www.youtube.com/watch?v=Azu1t1I3lDM
Il rischio, in questi casi, è che la critica finisca per travolgere le effettive intenzioni del regista, associando a vari film intenzioni e sottosignificati che il cineasta di turno non avrebbe neanche mai pensato; alcune digressioni, effettivamente, rischiano di risultare vagamente azzardate, come ad esempio il citato corto della Disney Il giorno del giudizio di Pluto, che secondo il filosofo sloveno sarebbe una rappresentazione allegorica di un processo politico staliniano, in cui la condanna viene unanimamente e grottescamente stabilita ancora prima di iniziare il processo.
Il problema, secondo me, non è tanto stabilire se Žižek abbia torto o ragione, quanto utilizzare la visione di questo documentario per riscoprire titoli incredibili e sottovalutati negli anni: a partire ad esempio dal cinema di David Lynch, in cui viene quasi sempre prefigurato il desiderio sessuale ed il mistero della femminilità attraverso figure (quasi da teatro dell’assurdo, verrebbe da scrivere) di grotteschi padri-padroni (vengono citati Strade perdute, Mulholland Drive, Cuore selvaggio e Velluto Blu).
Non solo: molte questioni emblematiche sul concetto di osservare, sulla filosofia annessa al desiderio e come il cinema finisca per essere più realistico della realtà sono tratte sia film celebri (ampio spazio è dedicato anche a Matrix, ad esempio) che da piccole perle del passato come, ad eempio, Possessed(L’amante) di Clarence Brown del 1931.
L’analisi viene condotta in modo originale ed accattivante, coinvolgendo concetti complessi in modo comprensibile anche perchè – nella maggiorparte dei casi – Žižek si reca personalmente nei luoghi dove i film citati sono stati girati, affiancando brillantemente le riprese originali con quelle della regia Sophia Fiennes. Possiamo vedere, ad esempio, il commentario al pluri-premiato film La conversazione di F. F. Coppola, direttamente dal motel in cui Gene Hackman osserva un omicidio.
In tutto questo, ovviamente, la regia della Fiennes gioca un ruolo fondamentale, in quanto nelle riprese documetaristiche vengono riprodotte le condizioni ambientali e di illuminazione delle pellicole originali dando così, in molti casi, un senso di continuità tra il protagonista che parla con un altro personaggio e Žižek che sembra “inserirsi” materialmente nella scena. Se alcuni momenti, poi, sono visibilmente grotteschi – in certi casi forse al limite del risibile, vedi ad esempio la digressione su quella che non esiterei a definire “filosofia del cesso”, con Žižek seduto sul water a commentare una specifica scena del film di Coppola in cui il personaggio di Gene Hackman – detective con l’ossessione per la privacy – ispeziona un bagno e lo scarico del WC si riempie di sangue.
Un documentario che potete trovare su Amazon Video e che, pertanto, suggerisco caldamente di procurarvi.
È uscito nei cinema il lungometraggio thriller d’esordio firmato Domenico Croce, girato sulla falsariga del sottogenere psicologico, e pervaso da curiose reminiscenze ai classici del genere e, cosa non da poco, con un sottotesto tecnologico tutt’altro che accessorio. Un lavoro per molti versi originale quanto semplice nella sua struttura, che sembra rifiutare l’effetto shock facile (troppo spesso banale scappatoia per accattivarsi il pubblico, o costruire serie TV pop) e si declina sulla tradizione del cinema di genere italiano, più ragionata e introspettiva. Un film che vale la pena, definitivamente, vedere almeno una volta nella vita e coglierne, in definitiva, ogni singola sfumatura.
Il film è incentrato su un forte senso di claustrofobia, mood immarcescibile che pervade costantemente tutta la narrazione, e che racconta una singolare vicenda “di ogni giorno” scritta e sceneggiata da Luca Mastrogiovanni e Ciro Zecca. La sinossi assume tratti inusuali, rispetto alla media del genere, fin dal principio: il focus è infatti su una giovane protagonista, interpretata da Carolina Sala, rinchiusa da tempo indefinito nella propria camera.
Vetro è un giallo zero-knowledge più classico che mai, quello in cui lo spettatore è catapultato nel mondo voluto dal regista senza complimenti, nè troppi preamboli. Non sappiamo perchè la ragazza si trovi lì, non conosciamo tantomeno il nome dei personaggi, non siamo nemmeno sicuri dell’ambientazione (Torino? Milano? …?), soprattutto non sappiamo di cosa abbia paura la ragazza. Nel frattempo la vediamo brancolare timidamente nella propria camera, in perenne ricerca di un qualcosa, di uno stimolo, di un perchè ad una vita, che sembra vivere isolata dal mondo esterno, in compagnia del solo padre. Padre che, di fatto, non appare per gran parte del film: sentiamo solo la sua voce, poi si affaccia dalla porticina del cane, rigorosamente chiusa a chiave dalla ragazza, giusto per portare da mangiare alla figlia, dialogando amorevolmente con lei dietro una porta chiusa. Non sembra esserci verso di farle cambiare idea: quella porta non deve essere aperta, là fuori c’è qualcosa che la terrorizza. In questo scenario programmaticamente claustrofobico tutto potrebbe ancora essere, da una potenziale apocalisse in corso fino a eventuali morbose implicazioni relazionali.
Non c’è tempo per rifletterci troppo durante la visione del film, peraltro, e – cercando di evitare spoiler che in questa circostanza potrebbero guastare parte della bellezza dell’opera -la narrazione si articola in due fasi ben distinte tra loro. Nella prima ci limitiamo ad entrare nella stanza (e nella vita) della diciassettenne protagonista, alle prese con quella che sembrerebbe una “ordinaria” crisi adolescenziale ed un rigetto verso il mondo esterno, forse a causa di un trauma regresso. Il film ci mostra il primo contatto coi social network della ragazza, la sua titubanza nell’iscrizione e la sua conoscenza (e frequentazione virtuale) in videochat con un ragazzo. Non è il mondo virtuale che conosciamo via Google e Facebook, per inciso: la scelta registica è quella di mostrarci motori di ricerca e piattaforme sociali inventate per l’occasione, con l’effetto di incrementare il senso di straniamento e concludere una prima sezione del film intrigante quanto forse, a ben vedere, un po’ prolissa. La seconda parte fa degenerare Vetro in un thriller onirico, anti-causale e vagamente simil-lynchiano, in cui la situazione è portata verso un’evoluzione psichedelica (uso e abuso di farmaci), fantasmatica e sempre più stringente, fino alla rivelazione ed al twist finale modello argentiano (Profondo rosso, peraltro, viene omaggiato da una specifica sequenza talmente evidente da provocare un sussulto nello spettatore, che sicuramente non passerà inosservata per quanto è azzaccata e liberatrice). Dopo aver visto il film sono abbastanza sicuro che non sarà difficile vedere nel personaggio della Sala una tragica, silente figura Femminile per eccellenza, un po’ anti-eroina un po’ scream queen, nella tradizione raccontata da autrici pluri-citate come Carol J. Clover.
Nel disperato tentativo di capire cosa turbi così tanto la protagonista, tanto da far prefigurare allo spettatore apocalissi varie o eventuali nel mondo esterno, lo spettatore è messo davanti ad un’unico spiraglio di speranza: il talento per il disegno che caratterizza la protagonista, abile a disegnare fedelmente ciò che osserva, esasperato dall’essere alle prese con la manìa di spiare i vicini di casa dagli spiragli delle tapparelle della stanza, anch’esse tenute barricate. Un riferimento voyeuristico che non esprime solo una citazione al classico hitchcockiano di sempre (La finestra sul cortile), ma che diventa allegoria dell’utente qualunque, del popolo del web sui social network alle prese con lo sbirciare – e provare a ricostruire – le vite altrui.
Non è un caso, a questo punto, che la protagonista sia una donna, una giovane donna in un universo popolato da quasi soli uomini, dove il proprio ruolo di vittima viene ribaltato da assunti sempre più spaventosi, in cui la lotta per la riscoperta del proprio Sè represso diventa causa di dolore, liberazione ed emancipazione. Sembra in altri termini la raffigurazione di un incubo cristallizzato, destinato a frantumarsi o a ricomporsi – lo stesso che abbiamo vissuto nei tempi più difficili della pandemia, quando il contatto con gli stessi consaguinei era limitato per motivi sanitari, ed in cui il “virus” questa volta è sociale, radicato nel nostro inconscio e, a questo punto, nell’intera società in cui ci pregiamo di vivere. Un incubo sconnesso in cui lo scenario è grottesco quanto paradossale, a volte onirico-psichedelico, e che non sembra un azzardo inquadrare come una raffigurazione dell’isolamento disagiato dell’individuo, così come una raffigurazione delle più atroci dipendenze da internet che affliggono tanti esseri umani sul pianeta.
Come una novella protagonista di Luis Buñuel (L’angelo sterminatore), la donna non può uscire dalla propria stanza, bloccata da una paura irrazionale del mondo esterno, che riesce quantomeno ad esorcizzare mediante originali disegni e ritratti, anche grazie all’amore incondizionato per un cagnolino, unico essere vivente ammesso in sua compresenza. Una fobia, la sua, realmente esistente e ben nota in psicologia, tipicamente curata da farmaci e percorsi di psicoterapia, e che si riconduce al fenomeno degli hikikomori, i giovani giapponesi che si isolano dalla vita sociale volontariamente, costruendo il proprio mondo esclusivo all’interno della propria stanza.
Su Wikipedia italiana, peraltro, una frase impietosa (quanto forse troppo generalizzante) ne definisce il comportamento: uno dei motivi che spingono gli adolescenti giapponesi a isolarsi – si scrive – è la volontà di sfuggire al conformismo tipico della società giapponese. Se è davvero così, il fenomeno degli hikikomori diventa il dilemma di un qualsiasi giovane pronto ad inserirsi nella società, attratto dalle lusinghe del guadagno e del sesso facili, quanto respinto da individui ostili e organizzazioni gerarchiche quanto stereotipate. Insomma, è una delle più grandi tragedie psicotiche del nostro tempo, o poco ci manca perchè lo sia. Nel caso di Vetro questa motivazione non sembra reggere del tutto, e presenta un considerevole distacco narrativo da quella tradizione anime/manga (da cui, peraltro, sembrerebbe prendere ispirazione almeno in parte), in cui il ragazzino isolato era l’eroe del fumetto o cartone animato di turno: la protagonista assume semmai la valenza di un’eroina più smaccatamente sociologica, immersa in un mondo in cui non ha colpe e da cui, probabilmente, vorrebbe mantenere il distacco. È dopo aver considerato tutto questo che – forse – entra in gioco il vetro del titolo, non solo chiave di volta a livello narrativo ma anche simbolo della psicologia della protagonista, fragile e tagliente al tempo stesso, trasparente quanto potenzialmente dannosa una volta fracassato.
Per un thriller d’esordio, a conti fatti, tutto questo ci piace molto e, al netto di qualche momento di stanca ravvisabile soprattutto nella prima metà del film, la missione potrà dirsi compiuta. E molti di noi, speriamo per molto tempo, continueranno a vedere, amare e discutere Vetro. Un film italiano autentico e terrorizzante (soprattutto negli intensi, quanto improvvisi, minuti finali) di cui, sballottati come sempre tra improbabili reboot e terrificanti rehash delle medesime trame da quasi cento anni, avevamo bisogno.
Nel tentativo di studiare sul campo i comportamenti umani nelle situazioni più estreme, un gruppo di scienziati convoca 20 volontari che dovranno simulare altrettanti giorni di prigionia all’interno di un carcere. Perennemente inquadrati dalle telecamere come in un Grande Fratello, e sotto l’occhio più o meno vigile degli osservatori, il gruppo viene suddiviso in 8 detenuti e 12 guardie e, dopo l’iniziale clima bonario che si viene a creare, la permanenza diventa un autentico incubo.
L’ispirazione è il terrificante esperimento carcerario di Stanford, condotto da un docente universario di psicologia (Philip G. Zimbardo) che pero’ venne interrotto dopo pochi giorni di sperimentazione a causa del clima di violenza e sopraffazione che si era venuto a creare. Il film si incentra sulla figura controversa di Tarek Fahd, noto semplicemente come N. 77 e principale artefice, suo malgrado, dei conflitti sociali che si scateneranno al suo interno: dalla natura scaltra, profondamente passionale e naturalmente contestatore dell’autorità.
“E’ solo un gioco“
Diretto con grande maestria dal regista tedesco Oliver Hirschbiegel, ed interpretato con altrettanta intensità dai 20 protagonisti del social experiment, il film offre innumerevoli spunti di riflessione, configurandosi come un Grande Fratello snuff e man-in-prison: è, in altri termini, la spettacolarizzazione dell’orrore realistico che diventa reale. Questo esce fuori, in modo assolutamente agghiacciante, nella scena il cui il n.77 viene sequestrato dalla propria cella, insultato e addirittura urinato addosso dalle finte-guardie (che prendono così le difese di un loro collega che era stato sbeffeggiato perchè puzzava). A dirla tutta, la singolare caratteristica dell’uomo – l’inizialmente mite Berus – viene anche notata dai suoi colleghi, ma il film sottolinea come il vero problema sia “avere una divisa del colore sbagliato“, e quindi una forma di sopraffazione di un branco sull’altro. In effetti Berus era forse l’ultimo individuo che, all’apparenza, potesse diventare un leader del gruppo, eppure suo malgrado lo diventa.
Ma il vero senso del film non risulta essere tanto la rappresentazione del continuo mobbing che viene effettuato ai danni del “non allineato” 77, e che si esplica in continue umiliazioni e punizioni allo scopo – come ammesso anche da Zimbardo, del resto – di disgregare il gruppo di carcerati. Il vero senso è che il regista mostra con occhio asettico, quasi documentaristico, quello che risulta essere il vero nocciolo di mille problemi sociali, ovvero la violenza che il più forte scatena, spesso senza alcun vero privilegio nel farlo, sul più debole, o – se preferite – la mania di grandezza di chi è stato definito più forte, bello o bravo che si ritorce contro i reietti. Alla fine, infatti, le guardie saranno fin troppo forti, i detenuti decisamente più deboli ma dovranno per forza di cose organizzare una vera e propria rivolta: la natura umana viene quindi ritratta come definitivamente ed inspiegabilmente infida e violenta, senza speranza.
Nonostante infatti la data del compenso si avvicini, infatti, le guardie si fanno inebriare dal potere, si coalizzano e fanno un vero e proprio “colpo di Stato” contro gli studiosi che li hanno convocati: si isolano rispetto al mondo esterno, immobilizzano uno degli addetti all’osservazione, addirittura ne incarcerano un’altra assieme ad un ex-“collega” troppo debole, e rinchiudono l’indisciplinato 77 nella black box (una cassaforte con un singolo spiraglio al suo interno). A quel punto non è più una simulazione: è la realtà, che spingerà una delle guardie addirittura a tentare di commettere uno stupro.
E’ come se la divisa stessa, in un certo senso e dato l’ambiente, creasse i presupposti perchè lo spirito di sopraffazione venga fuori, facendo letteralmente “dimenticare” ai presenti (in particolare alle guardie) che si tratta di un semplice esperimento simulato, fatto solo ed esclusivamente per i soldi. Questo “gioco delle parti” che rapisce ed immedesima lo spettatore, lasciandolo smarrito, viene esasperato nonostante tutti si trovassero d’accordo, nella prima metà del film, a far finire pacificamente l’esperimento allo scopo di incassare il compenso ed andarsene. “The experiment” non da’ scampo: mi ha lasciato quasi intontito, sorpreso, e soprattutto soddisfatto come spettatore.
Una malattia mentale misteriosa sembra aver contagiato varie persone: il sospetto che ci sia qualcosa di reale all’interno di una apparente psicosi colletiva convince sempre di più un medico della città.
Dr. Miles Bennell/Kevin McCarthy (Photo by Allied Artists/Getty Images)
Se c’è una cosa che spesso fa riflettere nei vecchi film d’annata è la sostanziale (più ingenua, poco elaborata, a volte spicciola, senza dubbio differente da oggi) percezione della realtà, percezione che sceneggiatura e regia, in primis, dovevano aver avuto. Difficile del resto trovare un film di fantascienza più archetipico di questo, in tal senso – quanto meno tra i titoli più pop: un film che si apre lateralmente con il botto, e ci mostra quello che sarà il protagonista della storia, considerato pazzo per qualcosa che ha detto, o teme di aver visto. Certamente le diagnosi di pazzia di oggi sarebbero parecchio diverse, ed è anche corretto che ci sia una maggiore sensibilità sul tema psichiatrico in generale, tanto che viene da pensare che un film come Il corridoio della paura non uscirebbe mai oggi, o uscirebbe tra interminabili polemiche sui social.
L’etichetta di “pazzo” oggi andrebbe attribuita con una certa cautela, giustamente: a differenza di quanto avvenisse all’epoca quando, più e più volte, veniva utilizzato come escamotage narrativo per creare i presupposti di miriadi storie del genere (viene in mente Invaders from Mars, un prodotto ottantiano in cui venivano criticati l’eccessivo disincanto e l’apatia del mondo degli adulti, così come avviene anche in Nightmare). Il folle di questo film è un folle che soffre di insonnia, letteralmente, perchè non accetta il conformismo generale e si mantiene sveglio per evitare di essere ghermito dagli alieni durante il sonno.
Un ultracorpo si guarda allo specchio (DALL E)
La sequenza iniziale del protagonista che afferma una verità clamorosa che il pubblico ancora non conosce, e che non viene creduta, è archetipica, per forza di cose, e crea frustrazione o apprensione in chi guarda, nonostante siamo ancora ai primissimi fotogrammi e l’unico antefatto che abbiamo visto è una macchina della polizia. Creare più sospensione di così era impossibile, dato che nulla ancora si è ancora visto: cosa è successo di preciso?
Il film prosegue sulla falsariga di un flashback di ciò che è il protagonista che dice di essere un medico afferma di aver visto, in un crescendo di tensione e di persone comuni che ritrovano prima dei corpi clonati di se stessi e poi, addirittura, dei giganteschi baccelli (pods) in cui tali cloni vengono coltivati, nelle serre come nel terreno agricolo. Gli ultracorpi (traduzione di body snatchers, letteralmente ruba-corpi o pod people, nel gergo che poi sarebbe stato reso celebre dal film più famoso di Don Siegel) stanno invadendo la terra, e si nascondono tra gli esseri umani mediante questo singolare e memorabile stratagemma.
Quando sarà finito, che faccia avrà? Rispondimi! Che faccia avrà?
Il dottor Bennel è l’eroe archetipico che si accorge, primo e unico fra tutti, del pericolo a cui l’umanità è esposta, facendo quasi tutto di propria iniziativa e ponendosi come simbolo del risveglio delle coscienze dall’apatia. L’invasione degli ultracorpi resta una fantascienza essenzialmente mentale, misteriosa e concettuale, che si sviluppa come un noir (la voce del protagonista che racconta i fatti a titolo di narratore onniscente) e per cui non si vede nulla di propriamente fantascientifico in quanto tale. L’attributo “mentale” non è casuale, in ogni caso, perchè fin dalle prime mosse vediamo un personaggio raccontare della propria cugina che non riconosce più il proprio padre: una sindrome di identificazione errata rara quanto realmente esistente (sindrome di Capgras).
Il caso non è isolato: poco dopo il medico protagonista si imbatte in un ragazzino che non riconosce o diffida della propria madre, manifestando la paura di essere catturato a sua volta. Ciò che viene presentato come patologia mentale è in realtà afferente al reale, e sarà compito dell’eroico (quanto incompreso) protagonista occuparsene per salvare il mondo. La recitazione composta e teatrale degli interpreti contribuisce alla costruzione di un film invecchiato benissimo, se rivisto oggi, tratto dal romanzo di Jack Finney del 1955 sempre con lo stesso nome, L’invasione degli ultracorpi: un cardine della fantascienza paranoica di ogni tempo e luogo.
In termini sociologici L’invasione degli ultracorpi aiuta a leggere la realtà in cui vivevamo, già ai tempi in cui uscì. Ad esempio vale la pena di osservare, tra le altre cose, come i primi cento casi di nevrosi riferiti nel film siano attribuiti ad una causa precisa: “preoccupazione, nervi scossi” (secondo il cauto doppiaggio italiano), “preoccupazioni per ciò che sta succedendo nel mondo” (secondo una traduzione più precisa dalla lingua originale). Profezie che raccontano di come le tragedie globali possano influenzare le vite dei singoli (gli stessi che poi, per intenderci, non vanno neanche a votare perchè “tanto non cambia nulla“) che se riviste minuziosamente oggi (eravamo negli anni cinquanta, in piena Guerra Fredda) più che profezie sono racconti auto-riferiti, al limite profezie che si autoavverano. Un genere umano che si sente in colpa per i danni che provoca ai propri simili, rimasto radicato a superstizioni e credenze, contrapposizioni sterili e tutto ciò che ne consegue, e che ha smarrito il senso civico e di partecipazione alla vita vivendo passivamente i propri giorni. Secondo la lettura del regista Don Siegel, per amor di cronaca, nessuno per la verità aveva mai pensato “ad un qualunque simbolismo politico. Nostra intenzione era attaccare un’abulica concezione della vita”, una frase di culto a cui i soliti critici politicizzanti, ne siamo certi, attribuiranno lo stesso, comunque la giri, una valenza politica. Si attacca concettualmente, con quest’opera, la stessa indolenza che si raccontava anni dopo in un film quale 2022 I sopravvissuti, fantascienza post-umana e distopica tanto da sembrare reazionaria, per certi versi.
La straordinaria regia di Don Siegel si evidenzia in tantissime sequenze di culto: la scoperta dei baccelli alieni nella serra di uno dei personaggi, i momenti da film romantico in cui emerge la nobiltà d’animo del protagonista contrapposta alla passività del resto del mondo, la sequenza di culto in cui il medico e la donna assistono dalla finestra alla distribuzione dei baccelli tra la popolazione, che si muove esattamente all’arrivo della polizia convergendo passivamente verso la stessa. Sono scene difficili da dimenticare, che restano impresse e ci ricordano di restare umani, per quanto questo messaggio sia ormai stato corrotto e banalizzato, nella realtà di oggi, da qualcosa che se non è un germoglio alieno potrebbe assimilarsi a qualcosa di simili (l’indifferenza, il cinismo ostentato).
L’invasione degli ultracorpi rappresenta inoltre la disgregazione sistematica della fase dello specchio lacaniana: il momento in cui ogni bambino forma il proprio Io, una fase gioiosa che avviene solitamente sorridendo alla propria immagine riflessa. Qui viene capovolto e degenerato il concetto: ogni uomo ritrova un replicante alieno a propria immagine e somiglianza in cui, ovviamente, non può riconoscersi. L’alieno non solo lo imita nella forma biologica, ma ambisce addirittura a prendere il suo posto, a usurparne il trono. È l’uomo che non sa più riconoscersi nell’Altro e ne diffida passivamente, e sono i presupposti da cui era nato un altro cult d’epoca, uscito qualche anno prima, La cosa da un altro mondo (1951, reso poi celebre da John Carpenter negli anni ottanta).
La morale del film è a questo punto tutt’altro che inconsistente: il mondo appare diviso da diffidenza reciproca, dove ogni buon americano diffida dal proprio vicino o parente rifiutando di riconoscerlo. Questo esasperato disconoscimento avrebbe una causa psico-somatica in qualsiasi altro contesto, ma non qui: Don Siegel mostra un medico razionalista quanto guidato da una premonizione, che nota qualcosa di strano nel mondo che risulta familiare e terrorizzante al tempo stesso. Non un azzardo pensare, a questo punto, agli ultracorpi come elementi perturbanti per eccellenza. Non è un azzardo pensarci anche perchè, a ben vedere, la sostituzione progressiva degli alieni agli uomini avviene durante il sonno, il che rappresenta lo stesso piano immaginifico in cui si muoveva Freddy Krueger, spaventoso a livello onirico quanto, anch’esso, non creduto dai più nella realtà.
Del resto anche quel finale – solo apparentemente nichilistico – riserva un barlume di speranza: messa alla strette la sua stessa sopravvivenza, l’umanità può ancora trovare un modo per rigenerarsi e tornare umana. Atteggiamenti e parole che pesano, viste oggi, sia pur viziate da esigenze di produzione che all’epoca imposero un finale ottimistico per piacere al grande pubblico. Nel finale originale, il film si chiudeva sulla sequenza in autostrada in cui il dottore è perseguitato dagli ultracorpi e, rimasto solo, cerca di fermare gli automobilisti che non credono alla sua storia. La frase che concludeva il film nelle intenzioni del regista è “you’re the next!“, voi siete i prossimi, mentre il finale in ospedale e l’antefatto vennero di fatto imposti dalla produzione dell’epoca.
Che cos’è davvero l’ideologia nel mondo in cui viviamo? Secondo Slavoj Zizek è possibile raccontarlo attraverso l’analisi di alcune strutture narrative di celebri film di ogni genere. Analogamente a quanto fatto nella Guida perversa al cinema, Zizek sceglie accuratamente dei titoli dagli anni 30 ad oggi ed esamina, con un discreto spirito cinefilo e sapore di riscoperta, una ventina di film che vanno dai primi ann 20 fino ad oggi.
Per inquadrare fin da subito il discorso, Zizek parte dall’analisi di uno dei film più discussi e celebri di John Carpenter, Essi vivono. L’ideologia è qui vista come un qualcosa a cui ognuno di noi si adatta e, col tempo, si adagia: rinunciare a quei principi, ci viene detto da Zizek, è percepito tanto pericoloso quanto doloroso. Gli “occhiali di critica all’ideologia” (che sono gli occhiali da sole che, nel film, permettono di vedere le cose per quelle che sono, senza il filtro dell’autorità) sono alla chiave della decifratura dei reali messaggi dei cartelloni pubblicitari, e ci fanno pervenire ad una conclusione drastica: la verità (e come estrema conseguenza, la libertà) fa male, e questo è ben raffigurato dalla epica, altrimenti inspiegabile, scazzottata di quasi dieci minuti tra il protagonista ed il suo migliore amico. Amico che, ci dice il narratore, in termini psicologici rifiuta di vedere la realtà e non si fida, o teme che faccia troppo male, indossare quegli occhiali.
Questo tema della scelta del filtro, e per estensione della scelta dei nostri sogni, sarà ripresa metodicamente in varie fasi di questo ennesimo saggio cinematografico-filosofico e psicoanalitico, in cui vedremo Zizek abilmente integrato in scenari celebri di varie pellicole sfruttando gli stessi colori o analoghe scenografia (il letto del protagonista di Taxi Driver, il bagno in cui avviene il suicidio di Full Metal Jacket e così via), il che aiuta a non appesantire la narrazione e, anzi, a renderla del tutto gradevole, nonostante la gravosità dei temi trattati. Nel film Tutti insieme appassionatamente (1965), viene raccontato, la suora protagonista non può, di fatto, esserlo perchè sente di avere una potenza amorosa e sessuale inespressa: la madre superiora, posta di fronte al problema, affronta i suoi successivi sensi di colpa mediante una canzone, che Zizek ci racconta essere stata censurata nell’ex Jugoslavia.
La canzone – cantata nel film dal soprano Patricia Neway – è stata riproposta in chiave industrial dai Laibach, esattamente con le stesse parole ed un arrangiamento analogo, quasi un inno al soddisfacimento edonista del desiderio. Anche qui, torna prepotente il tema del desiderio, sublimato da ciò che viene indotto dal consumismo delle uova Kinder o della Coca-Cola: ed è un desiderio insoddisfacibile per definizione, che si nutre di ulteriore desiderio e che non può mai essere pienamente soddisfacibile, per poter avere un senso.
Climb every mountain Search high and low Follow every highway Every path you know
I Laibach stessi, peraltro, così come i Rammstein e molti altri artisti della corrente industrial -nella sue complesse e spesso contraddittorie declinazioni – hanno spesso richiamato l’idea di un’ideologia “estesa”, non ferma alle mere apparenze politiche o propagandistiche, ma intendendole in modo più estensivo nelle forme artistiche più varie. E di questo, peraltro, Zizek parlerà apertamente anche nel film in questione.
Altro aspetto a mio avviso interessante è incentrato su quelle che Zizek chiama immagini pseudo-concrete, ovvero una sorta di obiettivo o capro espiatorio (gli ebrei per il nazismo, ad esempio) che possano sobbarcarsi del senso perverso dell’ideologia, e delle sue successive declinazioni violente. Molti film di propaganda nazista vengono brevemente presentati e svelati nella loro essenza, così come avverrà in seguito con altrettanti film prodotti e fortemente voluto dal regime sovietico.
A proposito di questo, peraltro, viene anche citato l’impianto scenografico dei concerti dei Rammstein, che in parte – come molte altre band del genere, peraltro – richiamano l’immaginario di era nazista ma lo fanno, secondo Zizek, in modo pre-ideologico, senza connotazioni fideistiche o realmente politiche, e ciò ci permette di vedere certe movenze ed iconografia senza, in qualche modo, doverci sentire in colpa.
C’è poi un film molto significativo che, a questo punto, bisogna citare: La caduta di Berlino di Mikheil Chiaureli, un film sovietico del 1949 che racconta la fine della seconda guerra mondiale dal punto di vista dei russi. È secondo Zizek il film che spiega come funziona realmente l’ideologia nelle sue varie declinazioni: non incentrandosi sulla retorica staliniana di per sè (dato sicuramente presente e preponderante) bensì focalizzandosi su una coppia che si riforma dopo la guerra, dopo che lui aveva ricevuto consigli da Stalin in persona su come conquistare l’amata (questa scena, secondo Zizek, è stata tagliata in seguito in alcune versioni del film stesso). Ma questa analisi può essere condotta, secondo l’autore, anche nell’osservare film meno impegnativi come Titanic, ed è questo che corrobora la sua tesi, che convince proprio perchè è trasversale.
L’ideologia è pertanto considerata questa forma di condizionamento, di credenza quasi religiosa che, spesso anche negli atei, finisce per condizionare la propria esistenza, non sempre in modo funzionale, degenerando in potenziale depressione o violenza. Sono molti i temi che vengono richiamati nel film, dopo aver citato un piccolo capolavoro di fantascienza distopica come Operazione diabolica (Seconds) di John Frankenheimer (1966), e che si prefigura come una documentario “di concetto” che cita particolarmente gli scritti di Lacan. Un’ottima scusa per curiosare tra il cinema più o meno noto e scoprirne pregi e virtù inattese, ancora una volta (come anche per la Guida perversa al cinema) senza necessariamente condividere il punto di vista, spesso radicale, dello studioso sloveno.
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