DENTRO_ (101 articoli)

Film psicologici, thriller e opere che hanno valorizzato e approfondito gli studi di Lacan, Jung e molti altri.

  • Repulsion: Polanski racconta le ansie della sessuofobia

    Repulsion: Polanski racconta le ansie della sessuofobia

    Carol è una donna introversa che non sopporta il fidanzato della sorella: il film è un viaggio da incubo nella sua personalità.

    In breve. Il film che ha consacrato Polanski come regista di culto, incentrato su una delle protagoniste thriller forse più formidabili del genere. Da non perdere, nonostante l’età.

    Il secondo film di Polanski dopo Il coltello dell’acqua, girato interamente a Londra e primo film in assoluto prodotto in inglese dal regista (siamo nel 1965). Repulsione si basa su una trovata che oggi troveremmo quasi prevedibile, tanto che è diventata la regola in un certo giallo o thriller, soprattutti quelli devoti al doppio o triplo finale con avvitamento carpiato. All’epoca venne tanto apprezzato da far conoscere Polanski il tutto il mondo, ancor più per la sua successiva capacità di trattare elegantemente qualsiasi tema.

    Le paure di Carol

    Carol (Catherine Deneuve) è un personaggio complesso: in prima istanza è solo una donna introversa, ma scopriremo nello scorrere degli eventi aspetti nascosti legati alla sua personalità. Anche la sua profonda sessuofobia (o androginia) è tutt’altro che incidentale:  sembra dovuta ad un vissuto che la condiziona profondamente, che tutti gli altri personaggi sottovaluteranno o prenderanno sottogamba. Di fatto, Polanski svela gli aspetti della personalità di Carol un pezzo alla volta: la frattura che avverte dentro di sè, nel frattempo, viene letteralmente rappresentata da crepe nei muri e nei pavimenti (che forse, in alcune fasi del film, la donna sta solo immaginando).

    Un film che è diventato emblema

    Se è vero che il linguaggio di Polanski sguazza nella critica – e nelle sue fantasiose o pindariche dissertazioni, è altrettanto vero che la struttura puramente da giallo è un modo per mantere la narrazione ben salda ed ancorata, con vari punti di contatto ad un altro film incentrato su una donna (depressa e traumatizzata anche in quel caso) come la protagonista di Io la conoscevo bene. Le conseguenze saranno diverse, sicuramente, ma la sostanza ed il feeling sembrano molto simili. Se questo film ha fornito un modello di riferimento per molteplici figure e lavori successivi, è impossibile non pensare anche a Madeleine / Frigga, l’anti-eroina muta e bendata raccontata da Bo Arne Vibenius, che è un po’ la figura mitologica, esacerbata tratta dal suo personaggio – tanto che potrebbe considerarsi un archetipo.

    Carol: perchè agisce in quel modo?

    Il personaggio di Carol sembra innocente, timida, insicura o introversa: di fatto, non diversa da una donna comune con cui lo spettatore è portato ad empatizzare. La seconda cosa che rileva, di fatto, è legata al suo profondo rapporto con la sorella, a cui sembra appoggiarsi con abbandono in caso di necessità. Sorella che, a partire dai capelli scuri, è molto diversa da lei: tant’è che frequenta un uomo sposato, esasperando una sorta di insano paragone con lei e, di conseguenza, esasperando il suo conflitto interiore. I dialoghi con la stessa sono sempre significativi: il tono monocorde, assente, evitante e sempre più inquietante di Carol suggeriscono ulteriori indizi per la ricostruzione della sua personalità. Il senso del paradosso indotto dalla sceneggiatura è molteplice, e si esplica soprattutto nel fatto che, nonostante tutto, lo spettatore simpatizza comunque con la protagonista, nonostante l’efferatezza del suo comportamento e la sua chiusura aprioristica al mondo maschile.

    È anche significativo che il personaggio forse più irritante del film (Michael), con i suoi modi burberi e sgradevoli nei confronti delle donne, sia anche l’unico a dire una cosa involontariamente saggia (cioè che Carol dovrebbe vedere un dottore). Che cosa renda pensierosa e incomprensibile Carol, del resto, non è chiaro: sembra vivere nel passato, come visibile dal fatto che guarda in modo interrogativo varie foto di famiglia. Il suo evidente fastidio nel sentire i rumori di più amplessi, nella stanza a fianco, tende ad amplificare il conflitto con la sorella maggiore. Ad un certo punto, Carol fa anche sparire alcuni oggetti personali di Michael, quasi a volersi disfare simbolicamente di lui. Il suo primo appuntamento con Colin, accettato tra mille indecisioni, finisce con un disastro: dopo il primo bacio non può fare altro se non correre via a lavarsi i denti.

    Diventa sempre più evidente la presenza di un uomo (o più di uno, forse) che l’abbiano traumatizzata in passato, e Polaski continua inesorabile il suo racconto con una camera gelida, spesso grandangolare o distorta, quasi fosse il racconto distaccato di uno psichiatra. Sullo sfondo, vediamo un coniglio in putrefazione che svolge il medesimo ruolo del cadavere in Der Todesking: è la personalità di Carol che marcisce, giorno dopo giorno, in un oceano di incomprensione da e verso il mondo esterno.  A completare il dramma, Helen parte per un viaggio a Pisa con il suo uomo, lasciandola sola coi suoi tormenti e, poco dopo, con delle orribili allucinazioni. A questo punto, Polanski vira sul linguaggio del thriller per rappresentare meglio lo stato d’animo della protagonista. E mai scelta avrebbe potuto essere più adeguata: Carol, da donna avvenente quanto riservata, inizia ad essere convinta di aver visto un uomo minaccioso in casa sua, il villain dei suoi incubi sessuofobici. I tormenti interiori della protagonista diventano sempre più allucinati e spaventosi, fino a farle perdere il posto di lavoro.

    L’incubo ripetuto dello stupro – con una figura oscura al suo cardine, a cui sembrano mancare solo occhiali scuri, guanti, impermeabile e cappello nero – è accompagnato dal macabro ticchettìo di un orologio, ed è intensa e rapidissima, interrotta regolarmente dal suono di un telefono. Sembra di trovarsi in una sequenza alla Dario Argento: sempre più cupa e assente, Carol è destinata a trasformarsi in un killer, primariamente contro chi ama o vorrebbe possederla. Il primo omicidio, ad esempio, è strutturato in maniera magistrale: il suo innamorato si è introdotto sfondando la porta di casa, visto che non riusciva più sentirla. La porta rimane aperta, ed il vicino di casa (uscito in quel preciso istante) osserva la scena, in secondo piano. Non appena Colin la richiude per una maggiore privacy, Carol (con un candelabro in mano, già dall’inizio) lo colpisce ripetutamente: un omicidio calcolato quanto hitchcockiano, oserei scrivere, che delinea la follia androgina in cui è precipitata. C’è anche spazio per una rapida componente horror, che vediamo nella sequenza (anch’essa magistrale) in cui Carol si aggira nel corridoio, fuori di sè, con le mani di vari uomini che fuoriescono dal muro.

    Spiegazione del finale

    Diversamente dalla tradizione di Hitchcock e di altri registi che, classicamente, alla fine fornivano una spiegazione razionale agli eventi, Polanski si limita ad inquadrare una vecchia fotografia di Carol da ragazzina, algida come sempre e altrettanto spaventata, assieme ad un anziano familiare (che potrebbe essere il padre, lo zio o il nonno). È chiaro che, neanche troppo velatamente, il regista voglia alludere ad un caso di molestie da parte dell’uomo, probabilmente mai venute a galla, che hanno sedimentato per anni dentro di lei. Questa è l’interpretazione che sembra più plausibile, e che certa critica ha rilevato come sostanziale difetto (ma una spiegazione esplicita avrebbe anche rischiato di risultare inutilmente didascalica).

    La suggestione è ciò che conta, il dubbio rimane ed il finale, in cui si chiude il cerchio, molte domande restano senza risposta.

  • Blade Runner: la fantascienza filosofica di Ridley Scott

    Blade Runner: la fantascienza filosofica di Ridley Scott

    All’interno di una Los Angeles distopica nell’anno 2019, la tecnologia ha consentito di creare i “replicanti”, androidi o robot fortemente umanizzati, utilizzati per servire gli esseri umani e esteticamente non distinguibili da questi ultimi. Sei di essi, particolarmente evoluti e dotati di possente forza fisica, sono fuggiti dalle colonie extramondo e cercano di introdursi nella Tyrell Corporation, la fabbrica che li produce. Il poliziotto Deckard è sulle loro tracce.

    In breve. Suggestivo, sempre straordinario da rivedere e ricco di spunti, suggestioni onirico-futuristiche ed affascinanti ambiguità, mai veramente sciolte e oggetto di infinite fan theory. Chi sono gli umani, chi gli androidi? Quale valore assumono i ricordi nella vita dell’uomo? Forse, senza timore di esagerare, uno dei migliori film di fantascienza di tutti i tempi assieme a Brazil.

    Scrivere oggi di “Blade Runner“, indimenticabile capolavoro (che potremmo definire proto-cyberpunk) girato da Ridley Scott, rischia di ricadere inevitabilmente nella sterile ripetizione di concetti, idee e visioni futuristiche che hanno formato buona parte del cinema di fantascienza “colta”.

    L’analisi, che non può – in casi del genere – essere approssimativa in alcun modo, dovrebbe comunque basarsi su una duplice considerazione. Se da un lato infatti questo film ha stilato dei veri e propri canoni stilistici all’interno del cinema di fantascienza, dall’altro – senza nulla togliere a regia ed interpretazioni – è in effetti la storia di Philip Dick da cui è tratta ad avere gran parte della responsabilità del successo della pellicola. “Do Androids Dream of Electric Sheep?” (1968) poneva, in anticipo sui tempi, una tematica estremamente intrigante: se è umano amare, proteggere e relazionarsi con altri simili, cosa implica uccidere un androide che, in preda ad una “presa di coscienza” progressiva, si senta “vivo”?

    Bisogna rispondere a questa domanda formulandone molte altre, e questo potrebbe non piacere a chi concepisce la fantascienza in modo più orientato verso l’azione pura che altro. Il film possiede dunque la capacità di far immedesimare grandi fette di pubblico, e questo sia nella coscienza per così dire “organica” di alcuni protagonisti che in quella “artificiale” dei replicanti, rendono impossibile la chiarificazione definitiva dei ruoli di ognuno – è quasi certo che Deckard sia un replicante (forse…), e rimane vivido il fascino di lasciare questo interrogativo “appeso” fino all’estremo.

    Se si guarda Blade runner oggi, peraltro, va fatta una certa attenzione a procurarsi la director’s cut: la versione voluta dal regista con il finale ambiguo, mille volte più poetico e intrigante di quanto non sia la versione imposta dalla produzione, che forza fantozzianamente un happy end che, visto oggi, convince meno della metà del pubblico a cui era teoricamente rivolto. Il punto merita una breve digressione tanto per capirne il grottesco: dopo averci raccontato per quasi due ore che gli androidi vivono solo per pochi anni, tanto che sarebbero disposti a fare qualsiasi cosa pur di diventare immortali (vedi la caccia al loro creatore, che vanno a stanare direttamente a casa per farsi rivelare il segreto della vita eterna), quel finale scellerato (che è lo stesso che potete vedere nella versione Amazon Video, per inciso) afferma, mediante un improbabile solipsismo di Deckard, che Rachael in realtà non era programmata per morire dopo quattro anni e che dovremmo goderci la vita, demolendo la simbologia fondamentale degli origami (l’unicorno e via dicendo) e di conseguenza, a nostro modesto avviso, uno dei capolavori del genere, rendendolo incoerente prima che melenso.

    Una scelta che risulta ancora peggio oggi, e per cui uno dovrebbe scusarsi con il cast a cominciare dal compianto Rutger Oelsen Hauer, scomparso giusto nel 2019 (per una macabra coincidenza, verrebbe da scrivere, tra la scomparsa del suo personaggio e dell’attore) e qui artefice di una delle sue interpretazioni più iconiche di ogni tempo. Il suo personaggio è un androide diventato dolorosamente consapevole di sè, in un processo psicologico di rinnovamento e ricerca del senso della vita che mai gli ingegneri genetici avrebbero potuto prevedere. E anche oggi, per restare sul pezzo, l’eco di Blade Runner risuona sinistramente nelle nostre coscienze, mentre rabbrividiamo nello scoprire che certe profezie del film si sono quasi avverate (i robot umanoidi sono una realtà, e riusciamo a creare video deepfake talmente realistici da ingannare anche i più esperti).

    In fondo il tratto distintivo di questo cult – uno dei film che possiede ben 7 cut differenti, tra Director’s, International e Final – è rappresentato essenzialmente dalla profondità dei topic che tira in ballo: questo è visibile non soltanto all’interno di ambientazioni metropolitane gigantesche e tutt’altro che a misura d’uomo, ma anche per via delle tematiche esistenzialiste che sono inserite nell’intreccio. È interessante la chiave visiva scelta da Ridley Scott, pure, che affianca al futurismo classico delle automobili che possono volare – il film è del 1982, ed è ambientato nel 2019 – il degrado dei bassifondi delle città, in cui troverai un ambiente fumoso, personaggi ambivalenti e poliziotti intenti a mangiare sushi. Una scelta che, anch’essa, è diventata profondamente iconica.

    https://www.youtube.com/watch?v=Wo3HpcRJxUg

    I replicanti, del resto – umanoidi che assumono le precise fattezze di esseri umani – non soltanto possono pensare, agire e vivere per quattro anni, ma si trasformano in autentici “oggetti” sia multimediali che biologici. È questa loro duplice natura che li rende i veri elementi tragici della storia, e ciò è visibile soprattutto nel momento in cui iniziano a porsi delle domande, a crescere mentalmente, ad interrogarsi sul presente. Oggetti, dunque, che sono consapevoli di esserlo e che sviluppano autonomamente sofferenza, disgusto e – di rabbioso controbalzo – desiderio di diventare immortali. Cosa ci sarà dato fare nell’arco della nostra breve vita? Ha davvero importanza se i ricordi ci sono stati impiantati artificialmente oppure sono frammenti di vita vissuta?

    La complessa simbologia scomodata da “Blade Runner“, di cui i celebri origami di Gaff sono soltanto la punta dell’iceberg, pone domande per il nuovo millennio che meriterebbero risposte fin troppo articolate. Risposte che si possono provare a cercare vedendolo ancora una volta, senza esitazioni.

    Per finire, un tutorial per emulare Gaff, e fare un origami a forma di unicorno.

  • Antrum – Il film maledetto: l’horror criptico di Amazon Video

    Antrum – Il film maledetto: l’horror criptico di Amazon Video

    Un ragazzino e una giovane donna si recano nel bosco, al fine di scavare una fossa che possa condurli direttamente all’inferno: l’idea è far vedere per l’ultima volta al giovane Nathan il suo cane, Maxine, morto qualche tempo prima. Antrum rappresenta il mockumentary in questione, risalente a fine anni 70, il quale esamina amabilmente, ancora una volta, la potenza orrorifica della narrazione realistica.

    In breve. Mockumentary sulfureo e sinistro come pochi, costruisce un’atmosfera impagabilmente tesa, pur mostrando un impianto semplice e relativamente lineare. Cosa ancora più interessante, si muove su un duplice livello interpretativo (sovrannaturale vs. realistico).

    Lanciato da una tagline fulminante e a suo modo geniale (“c’è un motivo per cui non hai mai visto Antrum: se l’avessi fatto, saresti morto“), Antrum (un mockumentary del 2018 della Else Films) prefigura l’idea stessa del film maledetto, la classica fissazione da cinefili incalliti, alla perenne ricerca di pseudo-snuff introvabili, inediti o tanto cruenti da essere messi al bando.

    Scritto sapientemente dalla coppia di registi David Amito e Michael Laicini, Antrum ci introduce nella storia sfruttando un doppio livello narrativo: da un lato un horror low budget che racconta la storia di un ragazzino e della sorella a contatto con dei demoni, dall’altro dei ricercatori ed organizzatori di festival horror che ne riferiscono la minaccia per l’incolumità del pubblico. Se i presupposti sono sulla falsariga della strega di Blair, la sostanza cambia parecchio: Antrum è corposo, sostanziale e minaccioso, permeato come è da un’aura di tensione costante. Gli sguardi dei protagonisti, spesso persi nel vuoto e nell’indefinito, hanno un che di esoterico e “preoccupano” lo spettatore, che spesso non capisce realmente cosa stia succedendo. Un gioco di equilibri importante che rende l’opera a mio avviso superiore di qualità a quella dei numerosi film analoghi su questa falsariga.

    Prima di passare alla parte sostanziale dell’intreccio, vediamo una breve premessa: essa è atta a raccontarci le cose orribili accadute a quasi tutti coloro che hanno visto – o si sono interessati al film, per poi passare ad un avviso con la più classica delle declinazioni di responsabilità. Lo aveva già fatto Wes Craven con L’ultima casa a sinistra, peraltro già allora accarezzando il mood degli snuff (gli horror reali o realistici che mostrerebbero vere morti, pubbliche esecuzioni e via dicendo) pur senza scomodare i formalismi legali che introduccono Antrum. A testimonianza di un linguaggio che, per evidente fame di iperrealismo, ha finito per adeguarsi ai tempi che corrono, anche a scopo di sembrare francamente esagerato. Un film tanto maledetto da essere un “assassino di pubblico” è un’idea perfetta per un horror memorabile, anche se non certo una novità assoluta, dato che è stata già sviscerata da piccoli capolavori quali The last horror movie, ad esempio, ma anche – qualche anno prima – da Cigarette Burns di John Carpenter (in cui si narrava della pellicola dannata “La Fin Absolute du Monde“, proiettato una sola volta e seguìto da un raptus omicida che aveva colto gran parte del pubblico).

    Certo, non è un invito a continuare allegramente la visione ma, al tempo stesso, diventa un’operazione di accattivante narrativa degna del miglior scrittore horror.

    A conferma di un certo gusto esotico da parte dei registi David Amito e Michael Laicini, i titoli di testa sono parzialmente in carattere cirillico, quasi a voler disorientare il pubblico, o magari impedirgli di effettuare ricerche “di sgamo” su Google durante la visione del film stesso. Tutto sembra iniziare a fine anni 80, quando il film è stato proiettato per la prima volta a Budapest, provocando l’incendio del cinema e 56 morti. In seguito, molti produttori e promoter di festival del cinema che lo avevano visionato avrebbero subito la stessa sorte, senza contare una sorta di delirio collettivo (la spiegazione in questo caso è razionale: il proprietario del cinema avrebbe inspiegabilmente sciolto pasticche di LSD nel burro per friggere i popcorn, circostanza che non può che richiamare Climax di Gaspar Noè).

    Quando poi inizia il film vero e proprio – di cui abbiamo visto la cornice narrativa che ne fa da premessa – sembra di tuffarsi realmente nel cinema horror anni ’70: la grana della pellicola è consumata, sembra realmente un film di 30 o 40 anni fa ed è un espediente che richiama film underground come The last house on dead end street oppure, meglio ancora, il filone satanico dell’epoca che viene omaggiato, ad esempio, da The house of the devil. C’è anche da notare che, dopo aver visto il film per intero, possiamo considerare i demoni sia in senso letterale (e ciò rende Antrum un horror sovrannaturale di grandissimo livello) sia, volendo, in senso figurato (ed in questo caso abbiamo comunque visto un film che omaggia una tradizione exploitation simboleggiata dai due grotteschi cannibali e dai sacrifici umani che sono soliti perpetrare).

    La narrazione è complessa ed è in realtà strutturata in vari strati, che dovrebbero corrispondere con i gironi infernali di dantesca memoria, che i due protagonisti scoprono scavando una fossa sempre più profonda. A quel punto, come in un spettacolo di teatro sperimentale (o come in Dogville di Lars Von Trier) la foresta diventa un non-luogo privo di dimensioni e riferimenti temporali, in cui non esistono muri separatori o non sembra succedere mai nulla – quando invece, nella realtà, si tratta di un universo parallelo popolato di non morti, demoni ed altre creature non identificabili.

    Altri elementi della storia vivono di non sequitur, sono tutt’altro che ovvi oppure, ancora, probabilmente pregni di simbologia che i soliti fan, come spesso accade, potranno divertirsi a sviscerare o interpretare: ad esempio, quando nella foresta compare – un po’ dal nulla, apparentemente – un uomo dai tratti orientali, che sta per eseguire un suicidio rituale tipico dei samurai (un seppuku). Si gioca anche molto con le suggestioni, dato che molti personaggi sono ombre che si muovono nell’oscurità, e non sempre esiste un approfondimento in merito.

    Che cos’è Antrum?

    Seguendo la trama del film, “Antrum” è il nome di un presunto lungometraggio maledetto girato negli anni ’70, circostanza ovviamente inventata dai registi nonchè sulla falsariga della campagna viral che aveva lanciato il primo film sulla strega di Blair. Ma a differenza del cult dei primi anni duemila che, rivisto oggi, lascia poco più di una sensazione di camera traballante, in Antrum è tutto tremendamente ordinato, una sorta di caos calmo che non aspetta altro se non svelarsi in tutto il proprio orrore: nulla è casuale, dal cadavere inquadrato quasi accidentalmente alla comparsa di un demone in forma di scoiattolo.

    Le urban legend che circondano questo lavoro – che non sono troppo difformi da quelle che, ad esempio, sono legate alle disgrazie avvenute a chi aveva lavorato al film The Omen –  insistono ossessivamente sull’idea che si tratti di un film maledetto, e che chiunque abbia osato guardarlo sia destinato a morire (idea identica, peraltro, a quella della videocassetta della saga di The Ring).

    Cosa sono i fotogrammi in bianco e nero che si intravedono in alcuni momenti del film?

    Sempre nell’ambito delle leggende urbane resta da considerare l’inserimento di alcuni frame in bianco e nero che intervallano la visione del film: in uno, ad esempio, si intuisce la presenza di due persone che urlano mentre vengono torturate (a prima vista sembra che si trovino in una sorta di mattatoio), in un altro si vede il viso di un demone inespressivo, in primo piano, che muove gli occhi e sembra fissare il pubblico. Verso la fine del film, le due persone sembrano prima abbracciarsi, poi urlare esasperate forse in vista di una potenziale liberazione. In seguito, le vediamo sdraiate, e non vediamo mai il loro aguzzino (cosa che suggerisce possa trattarsi di uno snuff, cosa che pero’ sembrerebbe piuttosto scollegata con il resto della trama).

    Frammenti di un altro film? Allucinazioni? Fino a qualche anno fa si discuteva della presenza di fotogrammi occulti o satanici all’interno di vari film Disney, da Bianca e Bernie a Chi ha incastrato Roger Rabbit, e che plausibilmente furono quasi tutti Easter egg (sorprese fuori contesto, collocate non ufficialmente dai creativi al lavoro sul film). Riportare questa dimensione in un horror è un’idea molto funzionale, così come inframezzarlo con quello che potrebbero essere (tiriamo ad indovinare, visto che non ci sono risposte definitive) frammenti di un film snuff, anime dannate presenti all’interno dei vari gironi o semplici allucinazioni che vivono i protagonisti durante il proprio viaggio.

    Cosa c’è scritto nelle scritte che passano rapidamente in sovraimpressione?

    Oltre ai frammenti in bianco e nero, vediamo anche delle scritte scorrere rapidamente. Alcune di esse sono al contrario (come in uno specchio), altre nel verso corretto, ma passano troppo rapidamente perchè si possa vedere qualcosa. In alcuni casi, vediamo un simbolo del pentacolo, verso la fine un triangolo rovesciato: il primo è il simbolo del demone Astaroth, mentre il triangolo è molto più ambivalente e sembra chiara la sua natura occulta di “evocatore”.

    Si tratta di elementi che alimentano la suggestione del film, e dal carattere fortemente caratterizzante.

    La storia di Nathan e Oralee

    Nell’introduzione e nella conclusione del film vediamo riprese moderne, da documentario, che ci raccontano quello che dovremmo sapere sul film; si tratta di una sorta di meta-introduzione all’argomento. Nella storia vera e propria il registro visuale cambia del tutto e, da digitale, diventa quello di una pellicola da 35mm anni ’70. Un bambino rimane traumatizzato dalla morte del proprio cane, e la sorella (in seguito ai suoi frequenti incubi) decide di organizzargli una grottesca “gita all’inferno” per farglielo rivedere. Proprio questa disinvoltura di fondo, nonchè abile giustapposizione tra l’innocenza del piccolo Nathan e l’ambiguità della sorella Oralee, crea i presupposti per innalzare la tensione, soprattutto per l’ordinarietà con cui effettuano i rituali, con tanto di grimorio e di una conoscenza di quel mondo evidentemente regressa.

    Cosa ancora più inquietante, non si riesce subito a capire – anche se poi col tempo forse lo intuiremo – se Oralee stia agendo con effettiva convinzione, per aiutare il fratello ad esorcizzare il trauma o, al limite, per entrambi i motivi. Dalla colonna sonora in stile Goblin, poi, emerge un riferimento ben preciso all’epoca d’oro del cinema di Bava, Fulci ed Argento, mentre una certa dissonanza psichedelica sembra implicitamente fare riferimento al mondo del satanismo e della demonologia.

    Inquadrare il contesto di un film di genere, motivo per cui ho dovuto fare una infinita sfilza di premesse, è fondamentale per non banalizzarne l’atmosfera e godersene ogni singolo frame: perchè questo è uno di quegli horror che va dritto al cuore degli orrorofili più incalliti o disillusi, quelli convinti che gli horror di oggi non facciano più paura  – cosa falsa, peraltro, perchè per fortuna – anche grazie agli emergenti servizi di streaming – le distribuzioni horror sono sempre più online e sempre più capillari.

    Tutto questo, ovviamente, con tutte le rielaborazioni derivate dai precedenti dello stesso genere, che vanno da The Blair Witch Project a Cannibal Holocaust, passando per The war game, ovviamente in chiave satanica e con evidenti richiami ad un orrore che, in media, è più “di parola” che visuale. Una tradizione di falso-documentario che, anche in questo caso, ci tiene a rendersi credibile a ogni costo (e Antrum non fa eccezione), arrivando a “minacciare” virtualmente lo spettatore, pena che l’intero impianto risulti risibile.

    Per questo, e per un finale apertissimo e sopra le righe, Antrum è promosso a pieni voti.

    Spiegazione del finale

    Merita qualche parola il finale, che in realtà è un doppio (se non un triplo) finale, aperto ad innumerevoli interpretazioni, per quanto basti vederlo per trovare la risposta ad almeno una parte degli interrogativi. Seguendo la falsariga dell’analisi di un film come Il gabinetto del dottor Caligari e, direi soprattutto, Omen Il presagio, ho deciso di trarre un po’ di considerazioni secondo me importanti. Bisogna secondo me partire da qualche minuto prima, per entrare correttamente nel mood di queste considerazioni.

    Come nel capolavoro espressionista di Weine, secondo me ci sono almeno due livelli interpretativi: nel cult in questione c’erano una storia realmente accaduta, e poi i deliri immaginati da alcuni pazienti di un ospedale psichiatrico. Una cosa non esclude l’altra, questa è la cosa affascinante – ed è esattamente quello che succede in Antrum: Oralee sembra aver individuato un trauma che preoccupa il giovane fratello Nathan, e decide di applicare una sorta di “terapia d’urto” per fargli superare il dolore per la perdita del cane. Il viaggio, peraltro, è suggestivo e vorrebbe essere fonte di distrazione e svago per Nathan, ma le cose sembrano sfuggire di mano, istante dopo istante. Viene più volte il dubbio, in effetti, che il viaggio nell’aldilà infernale sia effettivo, e non semplicemente un gioco immaginato dai due protagonisti (il riferimento alla parola “gioco”, peraltro, è anche presente nello spiegone conclusivo). I due personaggi, peraltro, non sembrano poter più uscire dal bosco una volta entrati, dato che hanno preso una barca, poi hanno camminato a lungo verso casa – salvo ritrovarsi con orrore nel punto di partenza (situazione tipica di molti horror surrealisti e concettuali).

    Per tutto il film vediamo un’escursione in un territorio che, a giudicare dal comportamento di Oralee, dovrebbe conoscere bene: questa confidenza col bosco, unita ad una sostanziale destrezza nel campeggio e l’essere l’adulta della situazione, potrebbe anche suggerire una certa familiarità ambigua con i rituali satanici e con l’evocazione di demoni, tant’è che siamo in un non-luogo e lei stessa ammetterà che il grimorio lo aveva scritto ed illustrato da sola. Sembra quasi che i protagonisti giochino con il mondo occulto – fin quando è possibile farlo in modo relativamente sicuro, nelle loro intenzioni – anche se poi la protagonista diventa molto lucida quando avverte un pericolo reale (i due cannibali che li catturano).

    Nathan, dal canto suo, è un topos cinematografico ben noto: è infatti molto simile al pacato e sinistro Damien di The Omen, i suoi silenzi ed il suo guardarsi attorno sono quasi sovrapponibili e – soprattutto – poco prima della scritta The End lo vediamo sorridere alla camera, non sappiamo se rivolto alla sorella, agli spettatori, al proprio cane finalmente ritrovato o a qualche altra presenza oscura. Il finale del cult di Richard Donner era ambiguo, conteneva anch’esso un sorriso alla camera da parte del bambino e, probabilmente in modo incidentale, anche in quel caso era stato appena ucciso qualcuno con un colpo di pistola (l’ambasciatore nell’uno, il cannibale nell’altro). In entrambi i film, non abbiamo un’idea netta su chi sia davvero il bambino, se abbia natura umana o sovrannaturale e quali conseguenze ciò potrà avere.

    Il sorriso alla camera sarebbero stato il finale aperto perfetto – ed io stesso ero convinto, sulle prime, che fosse finita lì. Ma c’è di più, perchè Antrum contiene un duplice finale: vediamo ora la fine della storia questa volta dal punto di vista di Oralee, mentre corre nel bosco per raggiungere il fratello. Si rende conto, quindi, di essere circondata da vari demoni mimetizzati tra gli alberi, probabilmente infastiditi dal mancato sacrificio avvenuto poco prima.

    Non sembra esserci modo di scacciarli, tant’è che ha perso il cerchio magico che utilizzava per proteggersi (glielo hanno smantellato i due cannibali), e non le resta a questo punto che bruciare il grimorio. Questo non la preserva da una sorta di follia finale: si rintana nella tenda, in attesa dell’arrivo di Nathan. Non vediamo se lo sparerà o meno, ma sentiamo il colpo e poi finisce il film, questa volta sul serio. La necessità di un doppio finale, in effetti, sembra più dettata da un omaggio che ad altro (i doppi finali sono tipici del cinema horror classico a qualsiasi latitudine), anche se rimane suggestiva l’ipotesi che Nathan sia ormai controllato da uno dei demoni (a cui, a questo punto, avrebbe sorriso). Interessante anche pensare che si tratti di una sorta di extra che i registi stessi siano stati “spinti” a girare, in nome di un Male che tenderebbe nichilisticamente a sopraffarci (che è un po’ lo spirito con cui è stata girato, ad esempio, Morituris). È anche l’unica spiegazione al fatto che decida di compiere questo gesto, che stando alla stretta logica è inspiegabile mentre, nel vortice delle suggestioni di cui è avvolto il film, potrebbe avere più di una valenza.

    Le considerazioni conclusive sono meta-filmiche ancora una volta, e svelano alcuni simbolismi usati nella pellicola. Non viene detto nulla, curiosamente, dei frammenti pseudo-snuff (forse per accattivare il pubblico), ma si conclude il cerchio con una serie di riflessioni incentrate sui simboli, su alcuni dettagli del film e sul potere della ritualità e della credenza, autentico motore in grado di suscitare le più disparate emozioni umane, incluse quelle mortali.

  • Metti, una sera a cena: amore e infedeltà secondo Giuseppe Patroni Griffi

    Metti, una sera a cena: amore e infedeltà secondo Giuseppe Patroni Griffi

    Film insolitamente popolare, e questo nonostante la profondità auto-indulgente dei temi che lo caratterizzano: il tutto grazie al successo della sua versione teatrale, ma soprattutto per la componente piccante che lo accompagnò. Metti, una sera a cena evidenzia così un mood che sembra il manifesto della decadenza, in particolare di quella che all’epoca si chiamava – secondo una terminologia oggi desueta – borghesia.

    Noto per essere stato l’esordio sia di Florinda Bolkan (che poi sublimerà la propria presenza in Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto e, forse soprattutto, nel fulciano e mai abbastanza lodato Non si sevizia un paperino) che di Lino Capolicchio (La casa dalle finestre che ridono), il film divenne celebre per i dialoghi concettuali e speculativi che molti, probabilmente, hanno più finto di capire che apprezzare e saper discutere. Diretto nel 1969 da Giuseppe Patroni Griffi, venne da lui sceneggiato sulla base di un suo omonomico copione teatrale, in collaborazione con l’allora esordiente Dario Argento.

    La scrittura del testo è drammaturgia elaborata e di concetto, che si basa su un’elaborata psicologia di fondo (o, alla peggio, una parvenza della stessa): un dramma concettuale improntato su cinque personaggi intorno ai quali si mostrano azioni (e soprattutto pensieri) rivolti all’ambito sentimentale e sessuale: da un classico menage a trois – fino ad un esacerbato ed ipotetico menage a cinq.

    “Il tuo amore è sporca prapaganda”

    Emerge in primis un complicato simbolismo figurativo, legato allo spettacolo teatrale di cui ricorsivamente Max fa parte per lavoro, il che si presta ad infinite elucubrazioni meta-filmiche, ma soprattutto per il dettaglio della bandiera nazista, con cui Ric si avvolge mentre dialoga con Nina. Si tratta forse di uno dei simboli più potenti e sottovalutati associati all’opera. È come se, in altri termini, l’unico coadiuvante erotico possibile (per quella borghesia pigra, viziosa ed avulsa all’amore sincero) fosse legata agli abusi, alla violenza, all’assolutismo. Simbolo reso ancora più esplicito dal fatto che si tratta della medesima bandiera con cui Ric, ad un certo punto, tenterà di suicidarsi. Si può certamente dire qualcosa in più del classico legame tra sesso & violenza: si può dire, ad esempio, che il sesso ha una valenza puntuale, risolve una noia di fondo dei personaggi e probabilmente smette, a momenti, di procurare piacere, essendo più un dovere da borghese che un sincerto impeto proletario (come dimenticare, a riguardo, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto della recentemente scomparsa Lina Wertmuller?)

    Anche l’idea classica che si tratti di “teatro borghese”, destinato ad un pubblico colto o per meglio dire presuntuoso, di fatto è smentita dalla pratica: proprio perchè il quadro che ne esce è, in fondo, tanto auto-indulgente quanto vanesio, inafferabile, difficile da formalizzare. Va specificato a chiare lettere che il film non possiede una forma narrativa troppo agevole: questo soprattutto per via del montaggio frammentato che lo rende, di fatto, sperimentale ad ogni latitudine. Molti, di fatto, lo troveranno pesante e difficile da cogliere in ogni sfumatura, soprattutto nel finale che è particolarmente criptico ed assume venature fataliste, probabilmente espressione di un senso di colpa radicato (Freud, Lacan, dove siete?). La lunghezza dell’opera in questo non aiuta, anzi da’ l’impressione di diluire e di non essere semanticamente indispensabile ma – come dire – il difetto più sostanziale dell’opera risiede proprio in questo.

    Cinema “da intellettuali”. o presunti tali

    Se è vero che la trama esibisce fin troppe forme di vezzi intellettualoidi e fumisterie assortite – ostentando una ricchezza di contenuto che non sempre trova riscontro nella sostanza – è altrettanto vero che il film funziona, specie se lo contestualizziamo in relazione all’era post-rivoluzionaria in cui uscì (1969). Funziona ancora oggi, a nostro avviso, in ottica provocatoria, un’ottica che un tempo avrebbero etichettato come piccolo-borghese, di un gruppo di persone edoniste, rigorosamente avulse dalla gelosia, che vivono le proprie relazioni come puro e semplice status sociale, senza neanche godersele. Anche se, in tutta onestà, quel finale speculativo e logorroico rischia di sembrare quasi inconcludente, perso tra allusioni più o meno esplicite a Platone, Omero e alla Cina dell’epoca.

    Il montaggio del film venne realizzato da Franco Arcalli, noto per lo stile non lineare che aveva utilizzato anche in altri film (Il portiere di notte, Zabrieske Point, Ultimo tango a Parigi e Se sei vivo spara). Qui  in effetti trova una sua collocazione ideale: non vediamo, infatti, la sequenza di eventi in modo coerente con la relazione causa-effetto: vediamo una sequenza di flashforward e flashback dai quali riusciamo a costruire la trama solo un pezzo per volta, per quanto il clou della storia appaia evidente a metà dell’opera.

    Ric, che ha probabilmente avuto una relazione anche con Max in passato, si è innamorato di Nina, e questo sentimento terrorizza e fa istintivamente ritrarre la donna. Che non è sessuofoba come la protagonista di Repulsion (tutt’altro), ma sembra intimorita dalla sincerità dell’uomo, dalla purezza di quel sentimento, che non viene pero’ mai idealizzato ma anzi, addotto a causa di mera infelicità collettiva. Tanto che poi il passivo marito di lei, Michele, quasi per riparare quell’infiltrazione lacerante, finirà per ricorrere al blob conformista che conosce meglio: invitare a cena Ric, facendolo così diventare uno di “loro”.

    Le musiche, indimenticabili ed altamente evocative, vennero firmate da Ennio Morricone.

    Tra decadenza e astrattismo

    Il rischio di un film del genere è quello di goderselo “per sentito dire”, perdendo di vista la logica comportamentale dei personaggi e la narrativa in ballo. Ma il punto probabilmente è proprio questo: alla base dell’opera vi sono vari concetti non ovvi (alcuni dei quali, francamente, sono più fumosi e salottieri che altro), derivati in parte dalla sociologia, dalla fanta-politica e dalla psicologia moderna – uno su tutti: accettare che i personaggi possano avere comportamenti illogici, perchè pensare il contrario è un retaggio tipico del pensiero retrò. Se accettiamo quest’ultimo assunto, il flusso narrativo diventa (forse) più agevole da decifrare.

    Ric, Max, Nina, Michele e Giovanna sono del resto, in senso figurato, puri adepti del culto della decadenza, il che viene testimoniato da frasi significative come, ad esempio, l’unica salvezza sta nel vizio. Il loro agire non è tanto basato sulla logica o sull’istinto, ma serve a scuotere il pubblico in maniera indiretta, giocando su vari sottintesi e suggerendo, in qualche modo, che più di qualcuno possa specchiarsi in quegli intrighi di amanti e gelosie malcelate. Tutt’altro che reali visto che si tratta di un film sperimentale, eppure tutt’altro che irrealistici, date le storie di “corna” – come la vulgata spesso racconta ad ognuno di noi in modo un po’ becero – che conosciamo tutti più o meno per sentito dire.

    La borghesia in cui si muovono i personaggi è mediocre quanto inebriata del proprio status, annebbiata da una visione nichilista sul matrimonio o, ad esempio, dal fatto che una madre non possa che essere madre single (da cui l’ossessione per l’idea, rivolta a Giovanna, di trovare un uomo che debba farle fare un figlio e poi scomparire). I personaggi sembrano comunque trascorrere più tempo a discutere che ad agire, e anche quando agiscono vediamo sempre il fatto compiuto: anche questa (oltre ad essere essenza del teatro moderno) è una cristalizzazione del pensiero in cui finzione e realtà, a momenti, finiscono per miscelarsi in una dimensione possibilista, perennemente erotizzata ed in tensione (per non dire meramente di facciata o ipocrita).

    Addirittura l’erotismo di Metti, una sera a cena è pura e insopportabile formalità: deve esserci, ma la regia sembra aver fatto di tutto per renderlo simbolico e scarsamente stimolante, per quanto poi i nudi di alcuni personaggi siano affascinanti, oltre che causa non indifferente di successo della pellicola.

    L’inutilità del mondo esterno

    Se l’intreccio del film, di per sè, deve moltissimo alla rispettiva forma teatrale (ai suoi spazi ridotti ed alla sua ambientazione quasi sempre collocata in un appartamento angusto, quasi inospitale), risalta molto una sostanziale inutilità del mondo esterno. Questo tema emerge in maniera indiretta fin da subito, a cominciare dalla sequenza del trio che guarda un incontro di pugilato in modo distaccato, e se a qualche spettatore potrà sembrare puro snobismo, serve a focalizzare l’attenzione su una trama che funziona accettando la succitata cristallizzazione dei pensieri dei protagonisti.

    Ai cinque personaggi della storia (Ric, Max, Nina, Michele e Giovanna) non serve altro: si nutrono di sè stessi, della propria capacità di maneggiare una sintassi elaborata quanto vuota, dei propri vezzi, delle rispettive attrazioni mal celate o mal espresse – conducendo nel contempo una vita pigra e orientata al pettegolezzo, alla passività e alla decadenza.

    Cinque solitari che giocano ad accompagnarsi nella noia

    I personaggi vivono un singolare status di solitudine sempre marcata e costante, poco cambia se si trovino in più di una tresca oppure, come Giovanna, siano tormentati ed irrigiditi dalla solitudine. Viene parzialmente in mente la figura de Il solitario di Ionesco, un romanzo breve del 1973 (dalla lettura, per inciso, abbastanza ostica) in cui il protagonista eredita una grossa somma da uno zio d’America, e decide così di ritirarsi a vita privata, abbandonando il lavoro dipendente. Il protagonista sembra proprio come il quintetto del film: scettico, disilluso, facile a stancarsi e stanco, uno che vive senza scopi, che lavora il meno possibile, e che trova rifugio nell’alcol e nel cibo, come i protagonisti che spesso vediamo a tavola, assimilati ad una ritualità puramente formale che, di fatto, espone i rispettivi vizi ed ipocrisie quotidiane.

    Vediamo così la figura di Nina (Florinda Bolkan), che si reca a casa di Ric, una sorta di artista bohémien, il quale si esercita (e si sfoga) sparando con una pistola contro una figura ritratta sul muro. Ric è stato scritturato dall’amante di Nina, Max, per ravvivare un rapporto clandestino che la donna considera scarsamente stimolante. Formalmente, poi, continua ad essere la moglie di Michele, un autore teatrale che sta immaginando, guarda caso che non è un caso, di scrivere un’opera incentrata su una relazione a tre.

    Al netto dei succitati (e ben noti) difetti, è da considerarsi un esperimento riuscito: lo è anche perchè i film derivati dal teatro sono raramente ben riusciti, e Metti, una sera a cena ha un peso specifico sostanziale e la propria importanza, per quanto recondita. Al tempo stesso è una forma seminale di cinema filosofico o speculativo a cui probabilmente molti autori, dal Von Trier di Melancholia e Dogville a Elio Petri, hanno finito per ispirarsi in un modo o nell’altro.

  • La proprietà non è più un furto: il film più sperimentale di Elio Petri

    La proprietà non è più un furto: il film più sperimentale di Elio Petri

    Il 19 ottobre 1973 uscì un articolo su La Stampa dal titolo inequivocabile: Sequestrato a Genova la ‘proprietà’ di Petri, con riferimento al film di Petri che era uscito nelle sale appena 16 giorni prima. Le accuse erano di oltraggio al pudore: produzione e regia rifiutarono di apportare tagli ai contenuti della pellicola, per cui lo stesso uscì uncut vietato a minori di 18 anni, un divieto che oggi probabilmente si capisce poco e che lo declassa, molto ingiustamente, ad un film pornografico qualsiasi. Per inciso, a Berlino nello stesso il film venne premiato (Official Selection del Berlin Film Festival), e si tratta di un film rimasto nella memoria sia per il ruolo di molti caratteristi che, soprattutto,  per via dell’apparato ideologico che viene messo in discussione.

    Film simbolico e di concetto, La proprietà non è più un furto non è considerato il miglior film in assoluto di Elio Petri, per quanto sia sicuramente uno dei lavori più complessi ed interessanti mai realizzato dal regista. Molti concetti e stilemi registici derivano direttamente da Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, anche se il focus è in questo caso incentrato su tipi umani o sociali, non tanto su personaggi politici come nel film appena citato. È una storia di ossessione, avidità, persecuzione e sublimazione di questi stessi sentimenti, in cui quello che inquieta è duplice: ciò che vediamo fare ai personaggi, ma anche ciò che gli stessi “confessano”, meta-cinematograficamente, agli spettatori. Il cinema di Petri rimane comunque archetipico, ovvero gioca la propria essenza sulla caratterizzazione di esseri umani, quasi tutti avidi o spregevoli: l’idea è quella di favorire l’immedesimazione per poi accentuare il distanziamento da parte del pubblico, probabilmente. Sfruttando la fotografia oscura e teatraleggiante di Luigi Kuveiller, la trovata più clamorosa della sceneggiatura è quella di intervallare la storia con dei monologhi dei vari protagonisti, che commentano ciò che fanno invitando il pubblico, nel frattempo, a farsi due domande.

    L’intreccio è molto semplice e racconta di un giovane impiegato in banca (Flavio Bucci), affetto da una singolare (ed estremamente simbolica) allergia da contatto alle banconote. L’uomo è anche affetto inoltre da una patologia nevrotica, tanto da essere ossessionato da un cliente della sua stessa banca, un macellaio (Ugo Tognazzi), che ogni giorno deposita svariati milioni in contanti. Un giorno il protagonista assiste ad una rapina e, da allora, si licenzia, e sviluppa una sorta di avversione al denaro ancora più marcata: al tempo stesso, diventa morbosamente incuriosito dal furto, oltre che dalle modalità poco trasparenti utilizzate dal macellaio per guadagnare, che infatti inizia a perseguitare. Il suo monologo iniziale è emblematico in tal senso, e si rivolge – come i monologhi di tutti gli altri personaggi – direttamente al pubblico del cinema: e il punto chiave è proprio legato alla ricerca spasmodica del denaro, in una lotta interiore che non può che provocare insoddisfazione e frustrazione perenne.

    Io, ragionier Total, non sono diverso da voi, né voi siete diversi da me; siamo uguali nei bisogni, diseguali nel loro soddisfacimento. Io so che non potrò mai avere nulla più di quanto oggi ho, fino alla morte. Ma nessuno di voi potrà avere nulla più di quanto ha. Certamente molti di voi avranno più di me, come tanti hanno meno. E nella lotta legale o illegale per ottenere ciò che non abbiamo molti si ammalano di mali vergognosi.

    La “trilogia della nevrosi” di Elio Petri include questo titolo, Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto e La classe operaia va in paradiso. Al netto della lunghezza e della diluizione della trama (circa due ore di film), l’intreccio riesce comunque ad accattivare perchè vediamo Total, anonimo impiegato in cui è facile immedesimarsi, interessarsi progressivamente al mondo del furto, fino a rubare alcuni documenti alla polizia pur di trovare i recapiti di uno dei ladri più ricercati della città, ed imparare qualcosa da lui. L’uomo si autodefinisce marxista-mandrakista, che è una classificazione geniale quanto grottesca, forse poco percepita dalla critica dell’epoca: è un marxista letterale, nel senso di amante dell’esproprio proletario, ma è anche un mandrakista perchè vorrebbe saper emulare le magagne che hanno portato il macellaio (ed altri personaggi come lui) ad arricchirsi indebitamente. Le sue tendenze, pertanto, sono doppiamente tragiche perchè doppiamente anti-sociali, ed è questa l’idea del film che Petri intendeva, molto probabilmente, anche quando diceva che questo film fosse incentrato sulla nascita della disperazione in seno alla sinistra. La proprietà non è più un furto racconta provocatoriamente la crisi di una società in cui, di fatto, il capitalismo stava prendendo il sopravvento e, già all’epoca, si avvertiva che certi discorsi orientati sul sociale sarebbero stati declassificati e sviliti dall’andazzo generale di una società corrotta all’osso.

    Total è il simbolo degli oppressi, gli stessi oppressi che avrebbero voluto espropriare i beni ai padroni che li sfruttano, ma è mosso da un’invidia sociale che non lo rende affatto scontato o didascalico, come protagonista: come sempre nelle sceneggiature di Petri, infatti, non esistono buoni e cattivi in modo netto, ed i personaggi apparentemente più epici diventano inesorabilmente anti-eroi. Total, peraltro, non è ossessionato dal denaro in quanto tale: è turbato dal non avere il possesso dello stesso, dal non essere un capitalista, dal non avere una donna “acquistabile” che a sua volta possa sfruttarlo. La negazione ossessiva del piacere, ed il conseguente innegabile feticismo del suo personaggio, peraltro, è sviluppato molto chiaramente durante il primo furto che effettua nella casa del macellaio: lo vediamo portare via esclusivamente gioielli, lasciare il denaro e, soprattutto, constatare che tutte le volte che possiede un contatto con Anita non la possiede mai carnalmente, bensì la sublima per poi disprezzarla (la sequenza in cui la costringe a stare nuda a letto, immobile, per poi mandarla via). C’è molta psicologia non ovvia nel suo comportamento, a mio avviso, e qui Petri ha sfruttato complesse simbologie grottesche che si potrebbero paragonare allo stile usato, ad esempio, dal surrealismo di Lynch negli anni a venire, e probabilmente era anche normale che non tutti le apprezzassero. Di fatto, è anche uno dei film più sperimentali mai girati dal regista, ed è questo ad impreziosirlo e a spingermi ad una sostanziale rivalutazione, proprio perchè si tratta di un film che si presta a svariate letture, e non necessariamente di natura politica, in fin dei conti.

    È singolare, a mio avviso, che questo film sia considerato dalla critica il più debole della trilogia, anche perchè le scelte stilistiche di affidarsi a monologhi (che, come una commedia grottesca dell’arte, si rivolgono spesso e volentieri al pubblico) sono sempre funzionali e mai didascaliche. Come al solito, inoltre, la scelta degli interpreti non è casuale, ed è estremamente incisiva: Ugo Tognazzi (cinico ed egoista, per quanto il ruolo del suo personaggio fosse stato probabilmente pensato per Gian Maria Volontè, il quale per dissidi con Petri non collaborò a questo film), Flavio Bucci (abile nel caratterizzare un insospettabile “ladro in erba” ossessionato feticisticamente dal marxismo e dal furto in quanto tale), Daria Nicolodi (nell’insolito, per lei, ruolo di femme fatale, superficiale quanto subdola), Orazio Orlando (che interpreta un brigadiere giustamente sospettoso, dai modi rudi quanto impotente nel risolvere le ingiustizie). Ne esce fuori un quadretto desolante della società italiana, in cui questi personaggi interagiscono tra loro in un gioco di convenienze, opportunismo e feticismo degno di un mondo sempre più alla deriva, sul quale Petri si mostra ancora una volta molto pessimista.

    Nonostante questo, e nonostante una complessità sociale tutt’altro che banale in ballo, il film generalmente non piacque. Probabilmente la critica non riuscì ad accettare il ruolo del malvagio co-protagonista affidato a Tognazzi (che generalmente era associato a ruoli comici), non accettò il personaggio di Anita (che è l’emblema della donna che si fa comprare o sfruttare sessualmente, paragonandosi ad una macchina nelle mani di operaio: una metafora che oggi, forse, è meno incisiva di quanto non fosse all’epoca, ma – contestualizzando all’epoca ai noti problemi di sfruttamento, danni fisici e psicologici ed alienazione degli operai – Petri colpì profondamente nel segno), non accettò probabilmente l’impostazione da teatro dell’assurdo che Petri conferisce al film, soprattutto nell’enigmatica frase finale del padre di Total, che alla fine compare su un’altalena pronunciando la frase

    Mio figlio era come un padre per me.

    Questa globale non accettazione, di fatto, è la stessa che frustra Total nella sua ricerca spasmodica del materiale, nel suo desiderio perennemente frustrato; ed è proprio qui, forse, che emerge la grandezza dell’opera. Il film è disponibile gratuitamente in streaming su RaiPlay oltre che su Prime Video.