La tecnocrazia si riferisce a un sistema di governo o di organizzazione sociale in cui il potere decisionale è affidato principalmente a esperti tecnici o specialisti nei rispettivi campi, piuttosto che a politici o rappresentanti eletti.
Il meme Loss, noto anche come CADbortion, Loss.jpg e | || || |_, si riferisce a un iconico fumetto della serie di fumetti web a tema videogiochi Ctrl+Alt+Canc in cui la protagonista femminile Liah vive l’esperienza traumatica di un aborto spontaneo. La striscia ha segnato un cambiamento significativo nel tono rispetto al fumetto solitamente comico, suscitando un autentico shock in moltissimi lettori.
La vignetta originale era questa:
Il drammatico cambiamento di tono della serie è stato inaspettato e, per molti lettori, senza successo, portando la striscia ad essere ampiamente ignorata e derisa online. Da allora è stato ampiamente parodiato in interpretazioni minimaliste dei quattro pannelli della striscia, rappresentati come “| || || |_”.
La storia del meme “LOSS” inizia con una striscia a fumetti pubblicata da Tim Buckley nel webcomic Ctrl+Alt+Del. Questa striscia è famosa per essere diventata un meme virale grazie alla sua transizione da una trama seria a uno stile visivo estremamente ridotto e astratto. Nel tempo si è evoluta in numerose versioni che ricalcano la freddezza ed il cinismo della serie originale, espressione del sentire dell’artista e che così poca eco positiva ha avuto all’interno delle community.
Origine del fumetto:
Ctrl+Alt+Del è un webcomic che segue le vicende di Ethan, un appassionato di videogiochi, e i suoi amici. Il fumetto è noto per il suo umorismo legato ai videogiochi e alla cultura geek.
Il 2 giugno 2008, Tim Buckley pubblica una striscia intitolata “Loss”. In questa striscia, il protagonista Ethan visita un ospedale dove scopre che la sua fidanzata Lilah ha avuto un aborto spontaneo. La striscia è composta da cinque pannelli che raccontano questa storia in un tono serio e drammatico.
Reazione della comunità:
La striscia “Loss” ha ricevuto reazioni miste dai lettori. Alcuni l’hanno trovata toccante, mentre altri l’hanno considerata fuori luogo rispetto al tono abituale del fumetto, più leggero e umoristico.
La natura seria e inaspettata della striscia ha portato molti a discuterne e a parodiarla.
Evoluzione in meme:
Nel tempo, la striscia “Loss” è diventata un meme, con utenti di internet che ne riproducevano la struttura in modo astratto e minimalista.
La striscia è stata ridotta ai suoi elementi base: quattro pannelli con figure stilizzate che rappresentano i movimenti e le posizioni dei personaggi. La prima figura sta in piedi, la seconda è piegata, la terza è sdraiata su una superficie, e la quarta è accanto a una figura sdraiata.
Questi quattro elementi sono stati riprodotti in vari contesti, diventando una sorta di linguaggio visivo per riconoscere la striscia originale.
Impatto culturale:
Il meme “LOSS” è diventato un fenomeno culturale su Internet, rappresentando un esempio di come una scena drammatica possa essere trasformata in un simbolo riconoscibile attraverso la riduzione visiva.
Ha generato innumerevoli variazioni e reinterpretazioni, da disegni minimalisti a riproduzioni con altri personaggi o in altri stili artistici.
In sintesi, “LOSS” è un esempio di come un’opera d’arte visiva possa essere reinterpretata e trasformata in un simbolo culturale attraverso il processo di memetizzazione, spesso perdendo il suo contesto originale ma guadagnando un nuovo significato condiviso all’interno di una comunità.
(l’intervista che segue è stata tradotta da lipercubo.it ed è tratta dal sito orphandriftarchive)
Delphi Carstens intervista Nick Land.
Anno 2009.
Nella seguente intervista Nick Land risponde ad alcune domande sui meccanismi dell’Iperstizione nel contesto dell’apocalisse – un tema leggero – giusto per cominciare col botto.
Q1. Potresti approfondire cosa c’è di occulto… cosa sarà rivelato dall’apocalisse?
R1. Ciò che è nascosto (l’Occulto) è un ordine del tempo estraneo, che si tradisce attraverso “coincidenze”, “sincronicità” e indicazioni simili di una disposizione intelligente del destino. Un esempio è il modello cabalistico occultato nelle lingue ordinarie – un modello che non può emergere senza erodersi, dal momento che la comprensione generalizzata (umana) e l’uso deliberato dei gruppi di lettere come unità numeriche chiuderebbe il canale della “coincidenza” (informazione aliena). È solo perché le persone usano le parole senza numerizzarle che esse rimangono aperte come canali per qualcos’altro. Dissolvere lo schermo che nasconde queste cose (e nascondendole, permette loro di continuare), significa fondersi con la fonte del segnale e liquidare il mondo.
Q2. Scrivere sull’apocalisse la ricaccia nell’ombra/la codifica in modo più pesante… oppure l’atto di indagare sull’apocalisse aiuta a decodificarla e attualizzarla?
R2. Per i teisti, il primo. Per i naturalisti trascendentali (come i cibernetici iperstizionali), quest’ultima.
Q3. Potresti approfondire il concetto di “sforzo iperstizionale”? Iperstizione è una parola chiave nel lessico della mia tesi… mi chiedevo se potessi scomporre il termine in un linguaggio che i normali accademici (come il mio supervisore!) possano capire. L’iperstizione è la spina dorsale o il canale in cui confluisce tutto ciò che è apocalittico, ma di cosa si tratta esattamente? Potresti definirlo? Il modo in cui lo capisco dal Catacomic è che si tratta di un meme o di un’idea attorno alla quale si cristallizzano idee/traiettorie). (i grassetti sono miei, ndt)
R3. L’iperstizione è un circuito di feedback positivo che include la cultura come componente. Può essere definita come la (tecno-)scienza sperimentale delle profezie che si autoavverano. Le superstizioni sono semplicemente false credenze, ma le iperstizioni – per la loro stessa esistenza come idee – funzionano in modo causale per realizzare la propria realtà. L’economia capitalista è estremamente sensibile all’iperstizione, dove la fiducia agisce come un tonico efficace, e viceversa. L’idea (fittizia) del cyberspazio ha contribuito all’afflusso di investimenti che lo hanno rapidamente convertito in una realtà tecnosociale.
Il monoteismo abramitico è anche molto potente come motore iperstizionale. Trattando Gerusalemme come una città santa con uno speciale destino storico-mondiale, ad esempio, si è assicurato l’investimento culturale e politico che trasforma questa affermazione in verità. L’iperstizione è quindi in grado, in circostanze “favorevoli” la cui esatta natura richiede ulteriori indagini, di trasmutare le bugie in verità.
L’iperstizione può quindi essere intesa, dal lato del soggetto, come una complicazione non lineare dell’epistemologia, basata sulla sensibilità dell’oggetto alla sua postulazione (anche se questa è ben distinta dalla posizione soggettivistica o postmoderna che dissolve la realtà indipendente dell’oggetto in strutture cognitive o semiotiche). L’oggetto iperstizionale non è una mera invenzione della “costruzione sociale”, ma è in un modo molto reale “evocato” all’esistenza dall’approccio adottato nei suoi confronti.
Q6. Esiste l’iperstizione al di fuori del tempo e come si nasconde? Ciò è affascinante, soprattutto in relazione al meme dell’apocalisse, che non lo è affatto. Come si relazionano i due termini?
R6. Il tempo è l’operare nel tempo storico di ciò che sta fuori (ma si costruisce attraverso) il tempo storico. L’Apocalisse chiude il circuito.
D7. In che modo l’iperstizione si collega al capitalismo come campo di forza?
R7. Il capitalismo incarna dinamiche iperstizionali a un livello di intensità senza precedenti e insuperabile, trasformando la banale “speculazione” economica in un’efficace forza storica mondiale.
Q8. Puoi dire qualcosa sul tema della finzione – cioè storia e filosofia come finzione, e finzione come attualizzazione più intensa del potenziale storico / scientifico / tecnologico / sociologico?
R8. L’iperstizione è in equilibrio tra finzione e tecnologia, ed è questa tensione che conferisce intensità a entrambe, sebbene l’intensità della finzione debba tutto al suo potenziale (catalizzare i “divenire” iperstizionali) piuttosto che alla sua realtà (che può essere mera espressività umana). .
La parola “dissare” deriva dall’adattamento del verbo inglese “(to) diss” nella lingua italiana, al quale è stata aggiunta la desinenza “-are” per formare un verbo italiano. “Diss” è un termine colloquiale dell’inglese americano, abbreviazione di “to disrespect”, che letteralmente significa “disprezzare” o “mancare di rispetto”. Il verbo “diss” è stato ampiamente utilizzato nella cultura hip-hop e nella sottocultura giovanile degli Stati Uniti, specialmente negli anni ’80 e ’90, per indicare un’azione di critica o di sfida nei confronti di qualcuno.
L’adattamento italiano “dissare” segue la stessa struttura del verbo inglese, ma con l’aggiunta della desinenza “-are” della prima coniugazione dell’infinito. In questo modo, “dissare” acquisisce il significato di “criticare”, “sfidare” o “mancare di rispetto” nei confronti di qualcuno o qualcosa. La parola è entrata nell’uso comune soprattutto in ambienti giovanili e nella cultura urbana, dove è impiegata per esprimere disaccordo o disapprovazione in modo informale e spesso provocatorio.
“Dissing”, è un adattamento, del verbo inglese “(to) diss” con l’aggiunta, della desinenza italiana “-are”, della prima coniugazione dell’infinito della rete internet, una realtà, dove le identità si dissolvono, e si ricreano con un semplice clic, dove la linea tra realtà, e finzione si sfuma, e il potere del ‘dissing’ si estende, oltre la sfera del linguaggio – che non è, di programmazione, è di aggressione, linguaggio di aggressione, per dissare, to diss siginfica opporsi, negare, fare il bastian contrario, ma a cosa posso oppormi, se non, al singolo – Nel tessuto intricato, dei flussi digitali, l’individualità si dissolve, come cellule colpite, da un virus implacabile. Ogni clic, ogni battito, di tastiera, è come un contagio, che infetta, e altera, le nostre identità, diffondendo, il suo veleno, attraverso i circuiti elettronici, con la stessa ferocia, di un’infezione virale. In questo labirinto, di codici elettronici, l’essenza, dell’umanità si contorce, e si contamina, come un corpo soggetto, a allergie, reagendo, e mutando, di fronte, alla costante esposizione, alle tossine digitali – Nell’oscurità, dei recessi virtuali, le menti sono soggette, a un assedio costante, di informazioni distorte, e manipolate, come antociani, che si diffondono, nei tessuti, dell’organismo, provocando, una reazione, a catena, di sintomi imprevedibili. Le barriere, tra ciò che è vero, e ciò che è falso, diventano sempre più sottili, mentre l’individuo si trova intrappolato, in un loop infinito, di dubbi, e incertezze. Ogni interazione, online, è un nuovo contatto, con il patogeno digitale, un’opportunità, per il virus, dell’ignoranza, e della disinformazione, di infettare, e corrompere, le menti vulnerabili – Nell’oscurità, dei recessi virtuali, le menti sono soggette, a un assedio costante, di informazioni distorte, e manipolate, come antociani, che si diffondono, nei tessuti, dell’organismo, provocando, una reazione, a catena, di sintomi imprevedibili. Le barriere, tra ciò che è vero, e ciò che è falso, diventano sempre più sottili, mentre l’individuo si trova intrappolato, in un loop infinito, di dubbi, e incertezze. Ogni interazione, online, è un nuovo contatto, con il patogeno digitale, un’opportunità, per il virus, dell’ignoranza, e della disinformazione, di infettare, e corrompere, le menti vulnerabili.
In psicologia, l’aggressione si riferisce a un comportamento che è intenzionalmente diretto a causare danni o dolore a una persona, fisicamente o emotivamente.
Utilizzare il testo in maiuscolo può essere interpretato come un modo per urlare nel contesto della scrittura online. MA COME POSSIAMO DISTINGUERE L’EMFASI DALL’IRRITAZIONE? FORSE È SOLO UN’ABITUDINE CHE DERIVA DALL’ERA DEI FORUM E DEI CHATROOM, DOVE I CARATTERI MAIUSCOLI SPICCAVANO TRA UN MARE DI MESSAGGI. OPPURE È UN RIFLESSO DEL NOSTRO STATO EMOTIVO, UNA MANIERA IMPULSIVA DI ESPRIMERE RABBIA O FRUSTRAZIONE. IN OGNI CASO, IL LINGUAGGIO DELLE MAIUSCOLE HA ACQUISITO UN SIGNIFICATO PIÙ AMPIO, VENENDO ASSOCIATO ANCHE ALL’IMPORTANZA O ALL’URGENZA DEL MESSAGGIO. TUTTAVIA, BISOGNA PRESTAR ATTENZIONE A NON ABUSARNE, ALTRIMENTI SI RISCHIA DI PERDERE IL LORO EFFETTO IMPATTO. Questo può manifestarsi in vari modi, come aggressione fisica, verbale, o anche attraverso azioni passive come l’ignorare deliberatamente o escludere qualcuno.
IL DISSING CIBERNETICO È L’ATTO DI OPPORSI O NEGARE QUALCUNO ONLINE ATTRAVERSO COMMENTI OFFENSIVI O INSULTANTI – COME ENTRARE IN UN RING DI PAROLE VIRTUALI E LANCIARE FRECCE DIGITALI CONTRO QUALCUNO – ANCHE SE SEMBRA SOLO UN GIOCO DI PAROLE – IL DISSING PUÒ AVERE CONSEGUENZE – REALI – PUÒ FERIRE SENTIMENTI – CAUSARE LITIGI – DANNEGGIARE LA REPUTAZIONE ONLINE DI QUALCUNO.
Dissare è come lanciare frecce nel cuore virtuale della gente.
Il meme “GigaChad” è un’immagine che ritrae un uomo muscoloso, sicuro di sé e attraente, spesso accompagnato da testo che esalta le sue qualità e lo paragona ad altri uomini in modo satirico o umoristico. Il termine “GigaChad” deriva dal gergo internet, dove “Chad” viene utilizzato per descrivere un uomo estremamente attraente e/o sicuro di sé. L’aggiunta del prefisso “Giga” è un’esagerazione ulteriore, sottolineando l’idea di grandezza e superiorità. Questo meme è spesso usato per parodiare gli standard di mascolinità ideale e per confrontare le qualità di “GigaChad” con quelle di altri uomini, spesso in modo esagerato e ironico. Può essere utilizzato anche per esprimere l’ammirazione o l’invidia nei confronti di chi possiede queste caratteristiche esagerate.
il termine “Chad” e alcuni concetti correlati sono spesso associati alla sottocultura degli incel (involuntary celibates), che è una comunità online caratterizzata da uomini che si identificano come incapaci di ottenere relazioni romantiche o sessuali nonostante i loro desideri. In questo contesto, “Chad” è spesso usato per descrivere un uomo estremamente attraente e socialmente abile, considerato un “rivale” dagli incel, mentre l’opposto di “Chad” è “Beta” o “Incel”, per descrivere uomini percepiti come meno attraenti o meno desiderabili. In alcuni casi, diventa il sottotesto per promuovere corsi di seduzione spesso di dubbio valore. In altri casi sono espressione di iperstizione: si crea un loop mentale in molte persone per cui rimarrò single perchè non sono un gigachad, non sono un gigachad per cui rimarrò single. Per fortuna il mondo della sessualità è variegato e trova a volte sbocchi inaspettati.
Fermo restando che il meme può essere usato anche in contesti non tossici, rimane un baluardo della cultura incel e delle sue declinazioni più note anche in Italia, da qualche tempo.
Come molti meme, il “GigaChad” ha avuto un’enorme diffusione sui social media e sui forum online, dove viene adattato e condiviso in vari contesti per creare umorismo e commentare sulle dinamiche sociali e culturali legate alla mascolinità e all’attrazione fisica. Con tanto di tendenza, a nostro avviso insana, ad assolutizzare il concetto di attrazione, a renderlo un teorema, un’asserzione incontestabile o – per dirla con Popper – non falsificabile. Essere gigachad è una constatazione che potrebbe valere per chiunque a discrezione degli altri. E forse questo dovrebbe far riflettere sul fatto che non bisogna prendere troppo sul serio queste cose.
Sento spesso dire che le intelligenze artificiali generative ruberanno il lavoro a chi ce l’ha, tipo scrittori e giornalisti.
Capisco il timore, ma non lo condivido.Per quanto istintivamente simpatizzi per hacker e boicottatori seriali per giusta causa, non riesco davvero a diventare luddista o almeno, se non proprio luddista, ostile all’uso delle nuove tecnologie che in realtà non rubano proprio nulla a nessuno.
Cosa sono le intelligenze artificiali generative
Le intelligenze artificiali generative sono sistemi informatici che utilizzano algoritmi complessi per generare autonomamente nuovi dati, testi, immagini o altri tipi di contenuti. Questi sistemi sono in grado di apprendere dai dati di input e creare nuovi materiali in modo autonomo, simulando in parte il processo creativo umano. Sono utilizzate in diversi campi, come la scrittura automatica di testi, la creazione di immagini, la produzione musicale e molto altro ancora. Esse hanno il potenziale di automatizzare alcuni compiti che tradizionalmente venivano fatti da esseri umani, come la scrittura di articoli o la generazione di contenuti.
Le intelligenze artificiali generative sono spesso basate su modelli statistici complessi, il cui esempio più popolare sono le reti neurali e tutto l’insieme di tecnologie analoghe utili per fare apprendimento macchina (machine learning). Il premio nobel per l’economia Daniel Kahneman (che citavo, abbastanza curiosamente, riguardo ai bias legati ai corsi di seduzione online) si è spinto a sostenere che l’uso intensivo di algoritmi per fare scelte importanti, alla lunga, potrebbe portare a scelte migliori i medici più preparati e tecnologicamente non ostili. Questo per un motivo semplice, in effetti: un algoritmo esegue il proprio compito freddamente, e per quanto soggetto a bug informatici non è soggetto ai bias / distorsioni cognitive a cui è soggetto l’uomo. Per quanto spaventoso o irreale possa sembrare, di conseguenza, una diagnosi fatta da un algoritmo (ammesso che sia stato correttamente tarato) potrebbe finire per salvare più vite di un medico, sempre nell’ipotesi che sia usato in modo corretto.
Ci pensano quelli bravi col computer (ma anche no)
Non si tratta ovviamente di cedere all’automatismo passivamente (il che sarebbe, non sia mai, bias di automazione); non si tratta neanche di immaginarsi su un tavolo operatorio con un Terminator che sogghigna alle nostre spalle: si tratta di riflettere su ciò che Domenico Conforti (mio docente universitario di Modelli di sistemi di servizio, una delle materie che ho amato di più) chiamava “metodi di supporto alle decisioni”. Che era un modo accademico e italianizzato per chiamare, già agli inizi degli anni Duemila, ciò che oggi è nota come intelligenza artificiale supervised o supervisionata. Per quanto il discorso sia leggermente più complesso per le tecnologie che rientrano nell’ambito non supervisionato (ovvero algoritmi che nascono, producono e muoiono da soli), direi che gran parte delle fobie tecnologiche legate al mondo delle IA supervisionate sono infondate. Lo sono perchè un medico che ha fatto il giuramento di Ippocrate e che quotidianamente cerca di dare del proprio meglio (presupposti non ovvi quanto necessari da specificare) non si potrà mai fidare di un algoritmo in modo blando o cieco, ma potrà tenere conto delle elaborazioni che fa in una grande varietà di modi. Il problema, semmai, è che sarà improbabile leggere risultati incoraggianti nel breve periodo, e sarà sperabilmente più agevole farlo nel medio-lungo.
Come funzionano le intelligenze artificiali generative
Restando su un ambito più blando, i modelli come ChatGPT che scrivono frasi come quella che ho appena riportato, “apprendono” dai dati forniti loro durante il processo di addestramento, per poi inferire nuova conoscenza: il che vuol dire che danno una forma ai dati che vengono passati e cercano di stabilire una funzione matematica, per intenderci, per rappresentarli con un certo grado di fedeltà. L’idea è che se capiscono come funziona il reticolo di informazioni in modo corretto nulla vieti, fino a prova contraria, che possano risolvere problemi mai visti prima. Ad esempio, nel caso del linguaggio naturale, una rete neurale può essere addestrata su un vasto corpus di testi per comprendere modelli, regolarità grammaticali e semantiche del linguaggio. Questa rete neurale, una volta addestrata, può essere utilizzata per generare nuovi testi coerenti e sintatticamente validi.
By Anonymous – https://i0.wp.com/universityarchives.princeton.edu/wp-content/uploads/sites/41/2014/11/Turing_Card_1.jpg?ssl=1, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=137325684
Tralasciando questioni etiche in ambito clinico (solo per amor di brevità), per una intelligenza artificiale che apprende un linguaggio naturale nulla dovrebbe essere più facile che “parlare da sola”, parlare in autonomia, scrivere in altrettanta autonomia. Come farebbe un bambino che ascolta gli adulti e prova a riprodurne le parole passo passo, ammesso che a qualche adulto non venga in mente di impedirne la crescita limitandolo o umiliandolo. Alan Turin nel suo epocale articolo su Mind si interrogò se le macchine possano davvero pensare, immaginando in un puro esercizio speculativo che fosse possibile addestrare un automa o un computer mediante una logica premio-punizione. La pratica ci suggerisce che insultare il navigatore quando ci porta fuori strada non aiuta a trovare la strada giusta, anche senza aver studiato comportamentismo: motivo per cui sarebbe anche plausibile e auspicabile convincerci che ChatGPT non ruberà il lavoro a nessuno. A meno che, ovviamente, non sia l’uomo a decidere di farne uso in questa veste.
Il problema del plagio
Ovviamente non va dimenticato – e non si può far finta di ignorare – che sistemi come ChatGPT possano effettivamente diventare dei plagiatori seriali, dei copiatori automatici che riempiano il mondo di testi scopiazzati e citino anche malamente autori precedenti. Possono copiare esattamente come farebbe uno scopiazzatore umano, e non va dimenticato che è proprio quest’ultimo, idealmente, a dargli l’esempio. Se dimentichiamo questo aspetto rischiamo di mostruosizzare le nuove tecnologie e, a quel punto, rigettare anche solo l’idea di uno smartphone, entrando in un vortice di preoccupazione paranoica che non aiuta a stare al mondo.
Il problema del diritto d’autore, in ogni caso, non sembra connaturato alle nuove tecnologie in sè: rientra semmai in un problema più generale, di coerenza e correttezza umana, per il quale peraltro ci si sta sensibilizzando anno dopo anno, anche se spesso in maniera scomposta o, alla meglio, sulla falsariga delle problematiche di privacy digitali (che erano ignorate con arroganza implicita fino a qualche anno fa, mentre adesso sono molto più discusse e pop). Un sistema di intelligenza artificiale (come andrebbe correttamente chiamato per evitare di “personalizzarlo” troppo o farlo sembrare grottescamente un robot umanoide che copia dal compagno di banco) sarà sempre soggetto a potenziali abusi, esattamente come un telefono può essere usato per inviare minacce, Photoshop può essere usato per creare fotomontaggi osceni, Word può essere usato per scrivere tutorial su come fabbricare armi artigianali. Si poteva copiare anche prima, si potrà copiare anche in futuro, la tecnologia è solo un catalizzatore e, come suggerivano autori accelerazionisti come Nick Land e Mark Fisher, non è da escludere che accelerare il progresso possa essere addirittura consigliabile per una società differente (anche se non necessariamente migliore della attuale). Se l’uomo non si responsabilizza e non la smette di dare la colpa agli altri, specie se gli altri sono letteralmente “cose” digitali, sarà difficile trovare una vera svolta.
Del resto app popolari come Midjourney o FakeYou hanno evidenziato ancora più chiaramente questa ambivalenza tecnologica, che non sembra eliminabile: un software può essere sfruttato per creare fake news o per costruire prodotti artistici di livello con la stessa probabilità. È un’ambiguità di fondo che dipende da come guardiamo la tecnologia in ballo, sulla falsariga di ciò che Slavoj Zizek chiama “parallasse“, una scissione dell’Uno in due prospettive diverse che non vanno viste come in contraddizione tra loro bensì, se si può, in cooperazione. Perchè da che mondo e mondo gli hacker sono sempre esistiti, i troll non ne parliamo, per cui tanto varrebbe non dimenticare l’importanza del contesto e non radicalizzare la nostra visione, che rischia di farci oscillare tra il radicalismo di 4chan (dove tutti sono anonimi e quasi nessuno viene beccato a commettere abusi) e l’ipocrisia rassicurante delle proposte di certi politici, che vorrebbero risolvere il problema obbligando gli utenti social a identificarsi come avverrebbe ad un posto di blocco, dimenticando (spesso maliziosamente) che anche il problema delle identità digitali clonate è ben precedente a quello dell’avvento delle intelligenze artificiali, e non si risolve in questa veste perchè potrei sempre connettermi a nome di altre persone, il che è anche il motivo per cui difficilmente ci ritroveremo a votare in forma digital.
Perchè non bisogna temere passivamente le IA
Non per altro, ma al di là della facciata terrorizzante e oscura, le IA possono aiutare a ottimizzare e accelerare alcuni processi, funzionando come strumenti di scrittura assistita e coadiuvando il compito di tanti redattori web, spesso costretti loro malgrado a produrre grandi quantità di articoli in poco tempo. Nella scrittura, ad esempio, le IA possono essere uno strumento per assistere gli scrittori, suggerendo idee o ottimizzando il flusso di lavoro, ma l’originalità, la creatività e la sensibilità umana rimangono irrinunciabili in molti campi. Nella speranza che i caporedattori non si mettano di traverso, in quei casi le IA generative possono essere molto utili, anche se non potranno mai sostituire del tutto il talento umano.
Lo aveva capito Alan Turing in quell’articolo seminale di metà anni Cinquanta, concependo la macchina che porta il suo nome come è un modello di calcolo di massimo livello ispirato ad un uomo che calcola e computa con carta e penna; lo aveva intuito Ada Lovelace quando scriveva sulla prodigiosa macchina analitica e sui suoi limiti: un modello di calcolo che era in grado di farsi programmare ma che non poteva, da sola decidere un bel nulla, mutuato da Charles Babbage. L’informatica teorica, del resto, da anni si interroga sul problema delle classi P ed NP, che significa: esistono o no problemi che sia più difficile risolvere che calcolare una soluzione? In modo formale (e a prescindere da quanto potenti e veloci siano i computer in gioco) si richiede in altri termini se ogni problema per il quale un computer possa verificare la correttezza in tempo finito sia anche risolvibile, ovvero se il computer sia (o no) in grado di individuare autonomamente una soluzione entro un tempo ritenuto accettabile.
I limiti già ci sono
Le preoccupazioni sui confini tecnologici, sull’etica, sui 9.999 “manifesti” (prodotti in certi casi giusto dagli imprenditori che ipocritamente le finanziano) sono, in gran parte, speculazioni vacue tra il pop ed il sociologico che dicono più sull’egocentrismo di chi le pubblica che su chi potrebbe metterle in pratica.
I limiti delle applicazioni di informatica sono ben definiti, salvo clamorose sorprese, dall’informatica teorica e dalle sue (poco note fuori dall’ambito specialistico, in effetti) speculazioni, teoremi e assiomi. Perchè preoccuparsene se il limite di fatto c’è già, e se l’unico limite da porre è quello imposto dall’etica umana o – se preferite – dall’uso che si decide di fare delle nuove tecnologie? In informatica tutto è numero, nel senso che ogni problema pratico è riconducibile ad uno matematico e un esempio può far capire cosa intendiamo: poniamo di voler trovare tutti i divisori di un numero intero N, problema facile da verificare puntualmente anche per numeri molto grandi.
Bisogna vedere la questione in termini generali, perchè un “problema” rientra nel “qualsiasi cosa un computer possa fare in modo esatto. Quello appena citato, nello specifico, è un esempio di problema polinomiale (P), mentre il suo suo duale non deterministicamente polinomiale (NP) richiederebbe: trovare tutti i numeri che siano divisori di n, cosa che diventa difficile e non accettabile come tempistiche per molti dei metodi di fattorizzazione che conosciamo ad oggi. Ho sempre pensato che mi piacerebbe vivere abbastanza da sapere se P coincida con NP o no, perchè spero davvero che la soluzione sia trovata nei prossimi anni. Il problema della fattorizzazione è alla base dell’efficenza della crittografia che usiamo ogni giorno su WhatsApp, in banca, sul web e anche leggendo le pagine di questo blog.
Certo, sappiamo che ci sono problemi come “trovare un/una fidanzato/fidanzata” che applicazioni come Tinder provano a risolvere – funzionalismo puro!, ma lo fanno in modo approssimato, sono euristiche buttate lì per fare qualche soldo, come ben sappiamo, e non possiamo occuparcene in questa sede.
In definitiva: piuttosto che cedere a dialettiche populiste (che danno soddisfazione, mi rendo conto, ma ci rendono ciechi al cambiamento e ostili all’innovazione senza un vero motivo) e parlare di “rubare lavoro”, va considerato che le IA potrebbero offrire opportunità sempre più innovative, realizzando l’utopia accelerazionista-progressista: permettere agli scrittori e ai giornalisti di concentrarsi su compiti più creativi e che diano vero valore aggiunto (quelle che ci rendono migliori), lasciando che le IA si occupino delle attività più ripetitive, puramente analitiche o didascaliche (anche queste, in effetti, necessarie).
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