TECNOCRAZIA_ (51 articoli)

La tecnocrazia si riferisce a un sistema di governo o di organizzazione sociale in cui il potere decisionale è affidato principalmente a esperti tecnici o specialisti nei rispettivi campi, piuttosto che a politici o rappresentanti eletti.

  • La vera storia del meme “Let him cook” – Lasciatelo cucinare

    La vera storia del meme “Let him cook” – Lasciatelo cucinare

    Lasciatelo cucinare. È questo il messaggio dietro il meme “Let him cook“, nonchè la sua traduzione letterale dall’inglese. Ma cosa significa e cosa indica questo meme?

    Let Him Cook, noto anche come Let That Boy Cook o Let him cook Toy Story, è un termine gergale e uno slogan usato come richiamo per dare a qualcuno lo spazio per pianificare, elaborare strategie o affinare la propria arte.In molti casi viene riferito scherzosamente a flirt in corso, specialmente sui social, ovviamente in ottica predatoria o maschilista e spesso all’insaputa dei partecipanti al flirt stesso.

    Lo spezzone originale è tratto dal film Toy Story 3.

    Spiegazione del meme

    Il meme “Let him cook” è diventato popolare sui social media come espressione di fiducia in qualcuno che sta per fare qualcosa di potenzialmente sorprendente o straordinario. La frase viene utilizzata per incoraggiare qualcuno a continuare con quello che sta facendo, suggerendo che potrebbe avere un piano o un’idea che porterà a risultati impressionanti. In Italia il meme è diventato “lasciatelo cucinare” ed è spesso riferito all’attuale allenatore dell’Inter Simone Inzaghi, il “Demone” di Piacenza, secondo la pagina Aggiornamenti quotidiani sul demone di Piacenza.

    Utilizzo sui social media

    Sui social media, la frase è stata adottata in modo più ampio e viene spesso utilizzata in modo ironico o umoristico. Ad esempio:

    • Situazioni comiche: Se qualcuno sta facendo qualcosa di strano o divertente, si può usare “let him cook” per suggerire che potrebbe esserci un senso nascosto dietro le sue azioni.
    • Creatività e ingegno: Quando qualcuno sta lavorando su un progetto creativo o sta ideando qualcosa di nuovo, la frase può essere usata per mostrare fiducia nelle sue capacità.
    • Video e meme: È comune vedere questa frase accompagnata da immagini o video di persone che sembrano completamente immerse in quello che stanno facendo, spesso con risultati inaspettati o comici.

    Esempio visivo

    Un esempio classico potrebbe essere un video di qualcuno che prepara un piatto in modo non convenzionale o inventa un nuovo modo di fare qualcosa. Qualcuno potrebbe commentare “let him cook” per suggerire che, nonostante l’approccio strano, il risultato potrebbe essere sorprendente.

  • I corsi di seduzione online non servono a niente (e lo dice la statistica)

    I corsi di seduzione online non servono a niente (e lo dice la statistica)

    In una mia precedente vita lavorativa mi venne proposto di frequentare un corso di seduzione in presenza, su “raccomandazione” di un collega che affermava pomposamente di conoscere un coach a cui voleva introdurmi. Trovavo molesto il modo di approcciare alla questione, soprattutto perchè stavamo andando a pranzo e non ricordo come eravamo arrivati a parlare dell’argomento (la dinamica non doveva essere diversa dall’equazione becera identificare un single + additarlo come sfigato, in effetti). Lo lasciai parlare per un po’, in omaggio alla dialettica lacaniana per cui il linguaggio, prima di significare qualcosa, significa per qualcuno: per questo soggetto significava molto dirmi quelle cose, dato l’ardore e la falsa empatia con cui me lo comunicava, e anche perchè (credo) avrebbe incassato una potenziale commissione sul mio futuro acquisto del corso. Alla fine non se ne fece nulla. Dopo neanche un anno da questo episodio, nemmeno lavoravo più lì.

    Mi ritrovo a ripensarci quasi quattro anni dopo.

    Su Google si trovano 2 milioni e 190 mila risultati annessi alla ricerca corso di seduzione, nelle differenti varianti di pluralità (corsi di seduzione), di genere (corsi di seduzione per uomini, soprattutto, ma ce ne sono pure per donne) oltre che su base geografica (corsi di seduzione bologna, strangolagalli, roma, palermo, milano, pocapaglia, cosenza, capracotta e via dicendo). Molti si presentano tra i risultati come coach della seduzione, ed è impossibile non osservare che scrivono addirittura di essere psicologi, in alcuni casi. Il corso di seduzione ovviamente è un presumibile percorso in cui uno impara come sedurre l’altro, sfruttando specifiche tecniche e supponendo, ovviamente, che esista una tecnica (o più di una) per farlo. Mindset, 10 modi per copulare, come guardarla dritta negli occhi, come andare direttamente al punto (che era l’ossessione primaria e il mood dominante del libretto rosso del lupo di Wall Street)

    Un corso di seduzione dovrebbe essere un tipo di programma di formazione o istruzione che mira ad insegnare agli individui come attrarre romanticamente o sessualmente potenziali partner. Questi corsi hanno la pretesa di insegnare abilità sociali, comunicazione efficace e strategie di approccio per aumentare le probabilità di successo nelle relazioni romantiche o sessuali. Alcuni di essi promuovono l’empatia, la comunicazione autentica e il rispetto reciproco come fondamentali per costruire relazioni sane (si spera), mentre altri possono concentrarsi su tattiche più maliziose o manipolative per cercare di “sedurre” qualcuno. Alcuni corsi hanno spesso sollevato preoccupazioni etiche qualora possano promuovere un comportamento coercitivo, ingannevole o (alla meglio) poco rispettoso.

    In molti contesti i corsi di seduzione sono stati oggetto di controversie e critiche, in particolare per il modo in cui possono influenzare le dinamiche di genere e la percezione delle relazioni. Tutte le volte che ho parlato dell’esistenza di questi corsi con qualcuno (a parte il soggettone di cui sopra, ovviamente) il parere unanime era che non fossero efficaci (o peggio), ma la cosa che ho trovato sempre molto curiosa è che la discussione finiva lì: forse si erano imbarazzati e pensavano ne avessi fatto uno, forse (più probabilmente) nessuno avrebbe saputo dire per quale motivo non erano efficaci.

    In alcuni casi, ad esempio, questi corsi provano a proporre elementi di linguaggio del corpo, ma anche una serie di frasi precostituite che un uomo X potrebbe dire ad una donna Y (o viceversa). In altri (mi baso sui video promozionali che ho visto, oltre che post su Twitter e Facebook) vengono promosse (soft?) skill del tipo come farti rincorrere dalla ragazza che ti piace (…rubandole la borsetta, verrebbe da ironizzare), al limite di instaurano preconcetti inconsci – tipo l’uomo è una bestia o è la puttana della donna, mutuando più o meno malamente dalla psicologia e dal mondo della leadership aziendale un po’ di terminologia, a volte prevedendo il futuro per generalizzazione (scoprirai cosa vogliono davvero le donne), senza dimenticare l’immarcescibile conquista del mindset da vero seduttore/seduttrice.

    Non è raro che il corso sia condotto da donne per uomini, da uomini per uomini e via dicendo, in tutte le combinazioni possibili (e non è da escludere che possano riguardare anche i generi non binari), e se in alcuni casi sono autentici scappati di casa, in altri sono professionisti del settore a vari livelli (terapeuti, psicologi). In alcuni casi i corsi avvengono pure in pubblica piazza, con il coach che opera dal vivo e spiega all’allievo come esercitare l’arte di seduzione sulla gente che passa in quel momento per strada.

    Nel libro Pensieri lenti, pensieri veloci dello psicologo Daniel Kahneman si trattano tematiche essenzialmente legate al mondo degli eventi statistici, con un taglio rigoroso quanto discorsivo e senza il piglio (e la supponenza) da scienza dura, rimanendo sempre ancorati ai fatti. Uno dei passaggi meno intuitivi del libro, peraltro, descrive quella che l’autore chiama scienza del “senno di poi” in questi termini, con un esempietto discorsivo:

    Sta imparando troppo da questa storia di successo, che ha un po’ troppe cose giuste al posto giusto. Si è lasciato catturare dalla fallacia della narrazione.

    E poi, poco dopo, si scrive:

    Non ho prove per sostenere che quell’azienda è gestita male. L’unica cosa che so, è che le azioni sono calate. È un bias del risultato, fatto in parte del senno di poi, in parte dell’effetto alone.

    Le affermazioni sono veritiere e verificabili quanto, in apparenza, poco logiche: come si fa a dire che uno stia “imparando troppo” da una case history di successo, ad esempio? Perchè mai non dovrei dare peso al fatto che le azioni sono calate ed hanno causato cattiva gestione? In realtà potrebbe essere un caso  di inversione causa ed effetto: potrebbe essere capitato, in altri termini, che la cattiva gestione di cui il manager era a conoscenza lo abbia depresso e indotto a comportarsi male, e non (al contrario) che il suo cattivo comportamento abbia causato cattiva gestione.

    In effetti non sembra neanche un azzardo prefigurare che un corso di seduzione specifico (non ci riferiamo a nessuno in particolare, tra quelli esistenti, tanto per sgombrare il campo da eventuali risentimenti o peggio: ne parliamo in generale) riporti una certa case history positiva, per dirla con l’autore un po’ troppe cose giuste al posto giusto. È opportuno specificare che quando le situazioni sono troppo “pulite” e prive di imprevisti sono proporzionalmente difficili da mettere in pratica, per lo stesso motivo per cui si studia nella scuola guida e poi difficilmente ti ritroverai degli incroci stradali nell’ordine in cui te li hanno presentati nel manuale. Non per altro, ma anche se uno mi fornisse un algoritmo esatto per sedurre non sono sicuro che potrei applicarlo facilmente: in gioco non ci sono singolarità, bottoni ON/OFF da accendere o spegnere. Semmai, direi, sono in ballo quelli che Deleuze e Lacan chiamano con­ca­te­na­menti di significato, contesti, persone con annesse storie ed esperienze, occasioni uniche nel loro genere, situazioni su cui spesso non sappiamo nulla a priori (possiamo avere tutta la formazione del mondo, per intenderci, ma non potremo mai evitare che il nostro crush sia già impegnato, ad esempio).

    Kahneman dedica un paragrafetto del suo monumentale libro sul funzionamento del cervello umano (distinto da pensieri lenti elaborativi vs. pensieri veloci istintivi quanto fallaci) alle famigerate ricette del successo: la statistica potrebbe essere effettivamente uno strumento utile per misurare il tasso di “acchiappo”, del resto – semplificazione becera e degna dell’argomento del giorno. Se mi si presentano tre occasioni e le fallisco tutte, ad esempio, invece di dannarmi l’anima a capire cosa ho sbagliato potrei pensare di allargare il campione e porre N=100 o N=1000 tentativi, anche perchè il corretto calcolo della probabilità evidenzia la necessità di una adeguata numerosità del campione. Anche se non incontrerò mai 1000 super modelle o sosia di Jason Mamoa, per intenderci, nel lungo periodo mi ritroverò all’incirca una metà di casi potenzialmente favorevoli (e se consideriamo che molte esclusioni comportano che siamo noi a dire di no, ogni tanto, rilevarlo è quantomeno consolatorio). Non serviva un manuale per capirlo, a pensarci, che non fosse al limite uno di statistica e probabilità. Sui piccoli numeri, al contrario, non concludiamo quasi mai nulla: è quando si arriva a numerosi tentativi che le cose diventano interessanti, e non vale solo nella seduzione (qualsiasi cosa si voglia intendere con questa parola, in effetti).

    Kahneman parla anche dell’illusione di aver capito il passato come ingrediente (tossico e fuorviante) per cui ci convinciamo, senza motivo, di aver “imparato la lezione” per il futuro, controllandolo. Come se in futuro si ripeteranno le stesse circostanze, come se il futuro diventasse nostro solo perchè abbiamo attribuito un senso all’esperienza. Sono illusioni confortanti, se non altro, a volte servono a ridurre l’ansia per l’incertezza, ma in generale sarebbe molto più utile imparare a gestire l’ansia un po’ per volta (magari mediante psicoterapia, mi permetto di sottolineare per esperienza diretta). L’autore fa poi l’esempio di blasonati quanto ingannevoli libri di management che mostrano le 10 aziende che hanno avuto successo, invitando i CEO a prendere esempio e replicandolo. 10 aziende scelte perchè hanno avuto successo e che quindi per forza ne avranno, magari dopo averne scartate altre 990 che tanto di successo non erano.

    Del resto il vituperato principio di imitazione – nello specifico l’idea libertaria o liberale che un pinco pallino qualsiasi possa avere successo imitando beceramente la gente che è considerata cool – sulle prime sembra che non presenti nulla di anomalo, anzi. Se ha funzionato per te, perchè non dovrebbe funzionare per me? Provate ad applicarlo quando vedete il palleggio virtuoso di un giocatore di serie A e capiterete cosa intendo. Statisticamente parlando, insomma, ci sono vari errori e bias cognitivi in ballo se decidiamo di seguire questo approccio: chiaro, è evidente che esiste un’influenza tra le scelte del CEO ed il fatturato aziendale, così come le nostre azioni quotidiane condizionano il fatto di rimanere single per X anni o al contrario innamorarci della collega del piano terra. Ma non possiamo controllare tutto e non abbiamo tutto questo potere in mano, alla fine. Al netto del contesto (che è un bel mattoncino da considerare nella sua interezza, e che si potrebbe riassumere nella massima sbrigativa non possiamo controllare tutto, e prima lo accettiamo meglio sarà), entra pure in ballo la  fallacia della narrazione, un ulteriore livello di randomicità che molti scienziati e saggisti hanno evocato per riferire la falsa attribuzione di cause agli eventi, l’illusione di aver capito qualcosa, l’idea che una narrazione accattivante sia pure realistica, l’idea che A provoca B quando in realtà le correlazioni sono quasi sempre randomiche, non causali (esiste una correlazione spuria totalmente insignificante tra il numero di morti per annegamento ed il numero di film girati da Nicholas Cage).

    Consultare o seguire metodi di seduzione facendone uso in senso propositivo può sembrare sulle prime un’idea creativa, quasi divertente, ed è anche fuori di dubbio che esistano almeno un po’ di casi di successo in tal senso. Il problema è che sono comunque affetti dal bias del risultato: significa che tendiamo a considerarli validi perchè hanno prodotto un risultato favorevole, ma questo non vuol dire affatto che sia stata una buona idea farne uso a monte. Molte relazioni iniziano malamente e finiscono peggio anche per questo motivo, ed è comune che uno possa pentirsi di aver preso quel maledetto caffè quel giorno, per poi ritrovarsi con un partner geloso e indisponente al seguito. Senza contare che il tutto si somma ad un potenziale effetto alone, che si esplica nel percepire un tratto basandosi su un parametro errato che non c’entra niente: giudicare l’intelligenza in base all’aspetto fisico, ad esempio, oppure la seduttività mediante il numero di ore giornaliere connessi online.

    La positività e negatività di un approccio di seduzione qualsiasi, in altri termini, è soggetto alla valutazione ed al coinvolgiment di fattori non misurabili (su tutti, il benessere dei soggetti coinvolti) e non andrebbe pertanto affidato a nostro avviso a considerazioni troppo semplicistiche o biased. Questo discorso potrebbe non aver convinto il lettore reduce dal centoquattordicesimo due di picche consecutivo, ma (anche qui) è plausibile che ci sia un bias di campionamento di mezzo: il motivo dei continui fallimenti potrebbe essere legato all’aver escluso (magari inconsciamente) tutte le situazioni favorevoli, limitandosi a considerare quelle negative, assaporando (si fa per dire, ovviamente) la pluri-citata profezia che si autoavvera.

    Non se ne esce facilmente, insomma: l’unica cosa che sappiamo scientificamente è che allargando il campione le probabilità favorevoli prima o poi arrivano, anche perchè esiste il fenomeno di regressione alla media che tende a distribuire  il numero di lanci della moneta tra testa e croce in modo globalmente uniforme (senza che ciò implichi che i casi si “bilanciano”, perchè altrimenti si scivolerebbe nella fallacia del giocatore). Prima o poi, insomma, su lungo periodo qualcosa di buono arriva. Se ci mettiamo a manipolare il campione come io stesso ho fatto per anni, ovviamente, i tempi possono diluirsi un po’ (si spera non troppo).

    L’amore è legato alla fortuna, in fondo: si tratta di un tabù che la società tecnologica e accelerata come quella in cui viviamo non riesce a riconoscere senza diventare isterica, o tende addirittura a negare o ad attribuire ad una “mancata formazione” in ambito seduttivo o allo scarso uso di app di dating. Dubito che la persona che mi propose quel corso con quel modo viscido o passivo-aggressivo fosse troppo esperto della materia, peraltro: a suo stesso dire, a ripensarci, aveva sposato una vicina di casa da ragazzino, e non dava comunque, di per sè, esattamente l’idea di essere l’uomo di mondo che non deve chiedere mai.

    L’ingiustamente vituperata fortuna, del resto, sembra ancora un retaggio odioso e ripugnante, e quanto è antipatico Gastone e quanto è simpatico Paperino, ma andrebbe probabilmente rivalutata nell’ottica di Richard Wiseman,  psicologo sociale orientato (anche qui) sulla statistica, che nel suo libro di auto-aiuto Fattore fortuna suggerisce come, per certi versi, per essere più fortunati nella vita basti (si fa per dire) provarci un po’ di più, in molti casi. Ovviamente bisogna considerare anche ciò che significa per noi soggetti, senza mai sentirci cavie di un progetto malefico: oppure, se preferite, senza mai sottovalutare il nostro vero stato d’animo.

    Una cosa che si impara esclusivamente a proprie spese, del resto.

    Foto di Thomas Bormans su Unsplash

  • Per l’amor di Dio: la vera storia di “Se lo vuoi fare, fallo”

    Per l’amor di Dio: la vera storia di “Se lo vuoi fare, fallo”

    Per l’amor di dio, fai! Se pensi di non poterti fermare, fallo. E fallo. Pensaci n’attimo, pero’ se vuoi fallo. Potresti anche non farlo, vedi? Mi apro… pero’, se lo vuoi fare…

    È il protagonista di uno dei meme più citati su internet, e la sua fama è ormai universale: sono usciti articoli sui giornali che parlano del prof Tamburello: a 78 anni (al momento in cui scriviamo) Antonino Tamburello è il fondatore e direttore dell’Istituto Skinner e della Facoltà di Psicologia dell’Università UER di Roma. Nei suoi spettacoli teatrali ama approfondire il tema della «mente nuova».

    Se pensi di non poterti fermare è il meme che invita all’azione, all’agentività, all’idea di provare a sentirsi operativi nel fare un qualcosa che ci perplime o ci crea qualche dubbio, ansia intollerabile. Il discorso di tamburello esprime – a nostro avviso, s’intende –  un conflitto interno tra impulso e riflessione, azione e esitazione. È un invito a confrontarsi con la propria libertà di scelta, un’esplorazione del desiderio e della possibilità di agire o trattenersi.

    Il discorso “Fallo! Ma pensaci. Oppure no, fallo davvero” rappresenta un nodo fondamentale della condizione umana: il confronto con la libertà e il peso della scelta. Apparentemente semplice, questo invito a decidere esplora il conflitto tra il desiderio di agire e il dubbio che accompagna ogni decisione. Esso tocca corde profonde che attraversano filosofia, psicologia, esoterismo e persino la politica della volontà.

    Il tono è sempre oscillante e possibilista, rivelando la tensione tra il voler fare qualcosa e il dubbio che accompagna l’azione. Ed è diventato un meme che non coglie pienamente il senso di un cambiamento interiore, ma – come dire – non ci sentiamo di affidare ad internet un compito così arduo. Diffonde una cultura dell’agentività, e tanto basta.

    In chiave interpretativa:

    1. Impulsività e razionalità: L’atto è continuamente incoraggiato (“Fallo!”) e poi rimesso in discussione (“Pensaci un attimo”). Questo riflette la dialettica tra il desiderio immediato e la necessità di ponderazione.
    2. Libertà e indecisione: Si sottolinea che l’azione è una scelta personale e non obbligata (“Potresti anche non farlo, vedi?”). È un’esortazione a riconoscere il proprio potere decisionale.
    3. Apertura emotiva: “Mi apro…” segnala una vulnerabilità, quasi a dire che il dialogo non è solo razionale ma anche emotivo. L’atto non riguarda solo il fare, ma il modo in cui ci si relaziona con se stessi e con l’altro.

    In definitiva, il discorso rappresenta il tumulto dell’interiorità quando ci si trova di fronte a una scelta significativa, oscillando tra azione e riflessione, desiderio e dubbio.

    Esercizio di stile: come l’avrebbe detto…

    Per l’amor di dio, fai! Se pensi di non poterti fermare, fallo. E fallo. Pensaci n’attimo, pero’ se vuoi fallo. Potresti anche non farlo, vedi? Mi apro… pero’, se lo vuoi fare…

    La seguente parte è stata generata e rielaborata grazie ad un’intelligenza artificiale generativa.

    Aleister Crowley

    Aleister Crowley, con il suo stile esoterico e provocatorio, avrebbe enfatizzato il concetto di Thelema (Volontà) come espressione del vero Sé, invitando a un’azione consapevole, libera e in armonia con la propria natura spirituale e probabilmente avrebbe riformulato così:

    “Fallo, perché il tuo vero volere non conosce catene! Se pensi di non poterti fermare, è perché l’energia della tua volontà arde nel profondo. Ma rifletti, se credi sia necessario: il vero volere non teme il silenzio prima dell’atto. E se non lo fai, allora sappi che hai scelto, e ogni scelta è sacra. Apriti al tuo desiderio più autentico, perché solo così conoscerai la legge: Fai ciò che vuoi sarà tutta la Legge. Ma bada, ‘volere’ non è capriccio: è scoprire il tuo destino e seguirlo senza timore.”

    Di Arnold Genthe – The Equinox 3.1 (Detroit: Universal Publishing Company, 1919), facing page 197., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=68027246

    Jacques Lacan

    “L’atto, una volta eseguito, è un attraversamento del reale. Non è il desiderio che guida bensì il confronto con il vuoto, con quel punto impossibile che struttura il soggetto. Fallo, dunque, se vuoi incontrare il tuo desiderio, ma sappi che, una volta fatto, l’Altro non sarà più lo stesso. Sei pronto a sostenere lo scarto simbolico che ne deriverà?”

    Slavoj Žižek

    “Fallo o non farlo, ma sappi che entrambe le scelte sono intrappolate nell’ideologia. Pensare di avere una scelta è già un sintomo dell’illusione ideologica. Vuoi davvero farlo? O è il Grande Altro che ti spinge? L’unica via d’uscita è assumere il rischio e fare l’atto autentico: fallo, ma fallo davvero!”

    William Gibson

    “L’atto che contempli è come un codice che vuoi eseguire in uno spazio liminale. È la soglia tra l’uomo e il cyberspazio, una linea sottile tra fare e non fare. Fallo, per riscrivere te stesso nel sistema, ma ricorda che ogni azione lascia una traccia nel flusso dati. Sei pronto a vedere cosa succede quando premi invio?

    Karl Marx

    “La tua esitazione riflette l’alienazione dell’individuo nel capitalismo. Fallo, se ciò significa rompere le catene della passività e agire come soggetto storico. Ma ricordati: l’atto non è mai solo individuale. È nel fare che trasformi non solo te stesso, ma anche i rapporti di produzione che ti determinano.”

    Aleksandra Michajlovna Kollontaj

    “Se scegliere di fare è un atto che ti libera, allora fallo, ma fallo con coscienza collettiva. Il tuo desiderio deve essere intrecciato con quello degli altri, perché solo nell’armonia tra il personale e il politico può emergere una vera emancipazione. Fallo, se ciò significa avanzare verso una società in cui la scelta è un diritto condiviso, non un privilegio.”

  • Questa data scientist ha fatto ricreare le copertine di alcuni dischi a un’intelligenza artificiale: ecco com’è andata

    Questa data scientist ha fatto ricreare le copertine di alcuni dischi a un’intelligenza artificiale: ecco com’è andata

    Su internet è nota come Lucy, e gestisce un proprio blog sui big data. Di recente ha proposto un uso curioso dell’intelligenza artificiale nota come DALL E, creata dalla OpenAI nel 2021 – una delle innovazioni forse più importanti  in questo ambito tecnologico che consiste, in breve, in un software avanzato in grado di generare immagini a partire da una descrizione testuale. Nel senso: diamo in input “disegna un cavallo” e DALL E riesce a disegnarne uno, in modo originale e senza ricopiare immagini già esistenti, peraltro con vari stili, angolature e sfumature del soggetto.

    Non solo: DALL E riesce a processare input complessi in linguaggio naturale, come ad esempio “disegna un cavallo che usa un computer mentre beve il caffè“, mediamente entro pochi minuti a seconda della risoluzione richiesta per l’immagine.

    La tecnologia in questione è profondamente perturbante, nel senso freudiano del termine: sappiamo cosa significhi chiede ad un computer di farci un disegno sulla base del nostro input descrittivo, possiamo intuirne la portata e ne ammettiamo, in media, la possibilità. Ma il pensiero che il disegno realizzato possa risultare inatteso, spaventoso e destabilizzante sembra inscindibile dalla tecnologia stessa, e questo porta il dibattito etico, sostanziale e tecno-cratico in una direzione di cui si continuerà a parlare a lungo, a mio avviso, nei prossimi anni. Del resto questo è ciò che restituisce DALL E se gli chiediamo di disegnare:

    – Una scimmia che programma sorseggiando una birra fresca
    – Cani che giocano a #scacchi.
    – Un ingegnere informatico che gioca a pallone (in porta).
    – Un pinguino che fa skateboard a Roma, nei pressi del Colosseo.
    – Una tigre al cinema che mangia popcorn.

    Molto interessante, senza dubbio, quanto suggestivo per una potenziale generazione di artisti visuali che potrebbero dover imparare a scrivere, per poter disegnare. Il tutto ha portato Lucy a porsi una domanda interessante: riuscirà DALL E a riprodurre le copertine di celebri album musicali dei Beatles, dei Rolling Stones, dei Nirvana e dei Pink Floyd?

    La risposta sembra essere affermativa (fonte delle immagini).

    The Velvet Underground & Nico – The Velvet Underground & Nico

    A banana on a white background in the style of Andy Warhol: questo l’input che ha prodotto il risultato seguente, ricalcando addirittura lo stile di Warhol “su richiesta”. Niente male, per essere il prodotto di un algoritmo. La copertina originale è diversa ma, a suo modo, l’algoritmo di IA ha saputo ricrearla in modo originale.

    Pink Floyd – The Dark Side of the Moon

    Qui abbiamo una delle copertine forse più complesse da riprodurre per la macchina (Welcome to the machine, parafrasando i Pink Floyd): il problema principale è infatti nel descrivere in modo testuale e comprensibile la posizione del prisma rispetto alla rifrazione, ed i risultati sono frammentari quanto, a loro modo, emblematici – e in qualche modo onirici.

    Pink Floyd – Wish You Were Here

    Anche qui abbiamo una reinterpretazione creativa della copertina originale, rappresentata da due uomini (di cui uno in fiamme) che si danno la mano: l’IA ha pensato di rappresentarli di fronte ad un’industria, di cui una dal sapore vagamente post apocalittico.

    Nirvana – Nevermind

    Anche in questo caso la copertina è stata riprodotta in maniera impressionante: da più angolazioni, con stili differenti e con una sostanza abbastanza fedele alla copertina originale.

    The Rolling Stones

    Le labbra realizzate sul modello cartoon ed associate ai Rolling Stones sono diventate ormai iconiche: le originali sono state concepite e disegnate a suo tempo da John Pasche, ispirate dal desiderio di Mick Jagger di votare, a quanto pare, un tributo alla dea Kalì della tradizione indù ed al senso energizzante.

    L’immagine è la copertina di una antologia della band di Mick Jagger del 1983.

    The Beatles – Abbey Road

    In questo caso abbiamo un’immagine abbastanza fedele rispetto al celebre originale, tratto dal dodicesimo album dei Beatles, del 1969. Siamo in pieno fermento – non solo musicale – e i quattro di Liverpool si ispirano ad Abbey Road, una delle vide che li aveva visti incontrarsi più volte in passato per quello che sarebbe diventato, di fatto, il loro ultimo album.

    L’intelligenza artificiale è riuscita a riprodurre la celebre camminata beatlesiana al netto dei visi, che la data scientist è riuscita a riprodurre inizialmente da angolazioni differenti:

    per poi produrre una nuova versione più allineata all’originale, per quanto i quattro appaiano curiosamente senza testa.

  • Sull’intelligenza artificiale e le “lettere aperte”

    Sull’intelligenza artificiale e le “lettere aperte”

    Uno dei tratti distintivi del 2023 è stato senza dubbio il tema dell’etica dell’intelligenza artificiale, che si pone in maniera universale forse per la prima volta nella storia. Fa riflettere che le stesse tematiche vengano sollevate dagli esperti da ben prima che si scomodassero dei miliardari per esprimere un parere solo apparentemente più autorevole di quello di altri.

    Ci sono vari aspetti ed è bene procedere per ordine, nella trattazione. La celebre lettera firmata da Wozniak e Musk e diffusa a marzo 2023, per esempio, sollevava vari ordini di preoccupazione e di tecnofobia, paradossale se si pensa a quanto le tecnologie siano state determinanti per mettere alcune (non tutte) di quelle personalità al centro del dibattito. I dubbi etici sollevati all’epoca riguardavano due assunti: non solo quello esplicito di disporre di IA che fossero troppo potenti per essere gestite attualmente (diciamo da GPT-4 in poi), ma anche uno implicito altrettanto profondo. Poco ovvio, per la verità, ma sostanziale: ovvero il fatto che dietro la volontà di frenare le IA ci fosse un qualche tipo di interesse personale.

    Fin quando, infatti, un qualsiasi politico anti-tecnologico e diffidente facesse un’affermazione sulla pericolosità di sottovalutazione delle IA potremmo discuterne, confutare in termini politici. Se invece lo fa un imprenditore o un gruppo di imprecisate personalità del mondo IT ed annessi, si tratta di figure jolly che si adeguano al contesto per definizione (il loro obiettivo chiaro rimane, sempre e comunque, quello di far guadagnare la propria azienda, perchè se non lo facessero perderebbero l’interesse da parte di azionisti ed inserzionisti).

    Sono uscite miriadi di lettere di richiamo in merito: la succitata richiesta di stoppare le IA per 6 mesi si affianca ad esempio ad un condivisibile (parere personale, s’intende) manifesto dell’AI sottoscritto da vari italiani, di circa un anno prima, e che sottolinea tra i punti che “come agiamo, così diventiamo”. Sembra più psicologia che tecnologia, curiosamente, ma le cose non sono scorrelate come potrebbe sembrare: ormai in effetti è chiaro che non esiste più un’informatica che sia avulsa dal contesto e che si limiti a fare i suoi calcoletti nerd. Anzi, le tecnologie dilagano in ogni aspetto quotidiano e ci suggeriscono come vivere, dove lavorare, dove mangiare, dove andare, quando uscire, con chi accoppiarci. Sta al nostro comportamento limitarne l’uso indebito, e non spetta certamente a delle “lettere di richiamo” in cui miliardari di vario ordine e grado decidano paternalisticamente quale debba essere la giusta disciplina da impartire alle macchine artificiali (come sottolineato dall’articolo di Paolo Bory su LMDP di giugno, che evidenzia come siano quasi sempre figure maschili ad essere investite di questo ruolo, per definizione inappellabile).

    Già nel 1950 il genio visionario di Alan Turing, informatico par excellence (tanto per doti quanto per incomprensione da parte del mondo a lui contemporaneo), immaginò tra le altre cose la possibilità di creare una child machine: una vera e propria “macchina bambino”, un prototipo di macchina di apprendimento (espressione del machine learning) che fosse in grado non solo di eseguire diligentemente i compiti che gli venivano assegnati, ma anche di correggere il tiro se sbagliava. Turing stava giocando intellettualmente sul tema del gioco dell’imitazione, ed era probabilmente influenzato dalla scuola comportamentista inaugurata da da Watson nel 1914, la quale si incentrava sui meccanismi di reazione organica agli stimoli e alle logiche tipo “premio e punizione”, poi rigettate dalle scuole pedagogiche modello Maria Montessori. L’idea della macchina bambino era esattamente questa, e si immaginava che una macchina potesse essere letteralmente educata a fare del suo meglio. Oggi sappiamo che il comportamentismo è solo una delle tante scuole pedagogiche, ed è plausibile che una pedagogia-macchina possa un giorno esistere ed essere utilizzata per provare a misurare i risultati.

    Per comprendere i rischi autentici delle IA, che certamente non vanno sminuiti nè sottostimati, serve un approccio che sia corretto metodologicamente, e che non ci esponga allo sciacallaggio del primo imprenditore che passa per strada e che vorrebbe, con la sua lettera aperta, imporre agli altri la propria visione del mondo.