BRIVIDI_ (84 articoli)

Recensioni dei migliori thriller usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Schramm: l’horror violento e insostenibile di Buttgereit

    Schramm: l’horror violento e insostenibile di Buttgereit

    Retrospettiva autobiografica di Lothar Schramm, un tassista ed insospettabile serial killer che sta morendo: mediante una serie di flashback vediamo la sua vita e le sue allucinazioni ossessive.

    In breve. Un altro tassello di horror del regista Buttgereit, solo apparentemente più “amichevole” nel formato (rispetto ad altre digressioni filosofico-esistenziali di altri film); nonostante questo, il film è una autentica mazzata in quanto a ferocia ed effetti espliciti.

    Appare difficile dare un giudizio certo su questo Schramm, uno dei film più lineari di Buttgereit ma, al tempo stesso, tutt’altro che appetibili nella forma, quasi sempre esplicita e priva di allusioni: la storia di Lothar si prefigura quasi come una favola nera, con un uomo timido e impacciato segretamente innamorato della vicina che fa la prostituta. Utilizzando un sapiente uso della telecamera ed effetti speciali forse un po’ datati ma, al tempo stesso, decisamente realistici e disgustosi, Schramm esplicita la filosofia esistenzialista del regista, tanto da far sembrare ogni nudità corporea corrispondente ad un’ossessione o perversità, capace di travolgere il protagonista in un vortice di orrore. Alla base di tutto, una frustrazione latente ed un senso di forte inadeguatezza per il mondo reale (“Sono seduto in classe, l’insegnante sta camminando su e giù mentre detta qualcosa. Improvvisamente realizzo che sono completamente nudo. Mi guardo intorno molto intimorito che qualcuno possa averlo visto, quindi lentamente, con attenzione faccio scivolare la mia mano fra le mie cosce ma non c’era niente, assolutamente niente“).

    Girato in 16mm per imprimere un maggiore realismo, il formato diventa anche una scusa per mostrare le peggiori efferatezze senza pietà, comprese sequenze di masochismo davvero estreme e difficilmente visibili in qualsiasi altro horror (quella sul pene, soprattutto, visibile in primo piano perchè lo stile di Buttgereit questo impone). Numerosi i riferimenti ad altri serial killer, su tutti il Lipstick Killer (il killer del rossetto) e qualche riferimento a Jeffrey Dahmer, morto un anno dopo l’uscita del film. Se il primo è noto soprattutto per via della sua ossessione feticista per la collezione di oggetti personali delle sue vittime, quasi sempre di sesso femminile, il secondo lo fu per gli atti di particolare ferocia sulle proprie vittime, aspetto da cui Schramm non è certamente esente. Tuttavia è evidente come Buttgereit abbia sviluppato indipendentemente i caratteri del suo personaggio, facendolo vivere di vita propria e di una certa imprevedibilità.

    La patologia da cui è affetto Schramm è un disturbo antisociale di personalità, caratterizzato da un disprezzo patologico per le regole e le leggi della società, dall’incapacità di assumersi responsabilità e dall’indifferenza e dalla mancanza di senso di colpa nei confronti degli altri, pur soffrendo di base un forte senso di solitudine (che potrebbe un po’ essere la chiave di lettura globale del film). Una forma di schizofrenia che affligge il protagonista, quindi, che appare come vittima e carnefice fin dall’inizio: sappiamo che sta per morire, la sua morte sarà completamente accidentale e quello che vediamo è solo un flashback del suo passato, di come è arrivato lì. Al tempo stesso, il secondo vero personaggio della storia, la prostituta vicina di casa – che sembra più compatirlo e sfruttarlo che esserne realmente attratta, fa emergere tutte le sue debolezze in modo esplicito, ed è questo che causa prima la sua reazione in un climax di ferocia (dall’usare una bambola gonfiabile ad auto-mutilarsi) che poi culmina in ennesimi omicidi.

    Schramm in tal senso è un film decisamente esplicito e davvero per stomaci forti, non annoia e non rischia in nessun caso – se non altro – di lasciare indifferente lo spettatore.

  • The hitcher: La lunga strada della paura, regia di Harmon

    The hitcher: La lunga strada della paura, regia di Harmon

    Mentre si trova alla guida di una lussuosa Cadillac Seville, il giovane Jim da’ un passaggio ad un misterioso autostoppista, dando inizio ad un terrificante incubo su strada…

    In breve. Probabilmente uno dei migliori thriller anni 80 in assoluto: risente solo parzialmente dell’età che possiede, e (soprattutto avvalendosi della superba interpretazione di Rutger Hauer) riesce a colpire e coinvolgere fino all’ultimo fotogramma. Da non perdere.

    The hitcher” – titolo difficilmente traducibile in italiano ma che è da intendersi come “chi intoppa”, “chi lega” – è uno dei più celebri (e memorabili) film thriller degli anni 80, uscito peraltro in un periodo caratterizzato principalmente da produzioni horror o slasher “pure” (Hooper, Cunnigham, Bava). Una storia ambientata quasi interamente su strada (molto road movie, quindi), immersa in scenari tipici come i deserti sconfinati degli Stati Uniti, le centrali di polizia e le stazioni di servizio malfamate. Evocazioni parziali di un mondo impazzito e sconnesso, di autovetture impazzite sulla falsariga di Brivido di Stephen King, del clima di diffidenza instaurato tra gli esseri umani, privati completamente della componente sovrannaturale per favorire quella di azione, sempre con un sano pizzico – anch’esso tipicamente eighties – di irrazionalità.

    “Perchè gli hai dato un passaggio? Ero stanco… mi avrebbe aiutato a stare sveglio.”

    Rutger Hauer – “John il cavaliere” (John Ryder) – è una sorta di archetipo di villain immerso in un contesto meramente thriller, e già dalle sequenze iniziali si presenta allo spettatore come una sorta di Nightmare, un “uomo da incubo” a tutti gli effetti, un crudele demone ex machina  che attanaglia il povero Jim in una spirale senza via d’uscita. Il motivo per cui agisce rimane il principale motivo di interesse della storia, ed in questo è indispensabile dare un enorme credito al regista Robert Harmon che ha saputo selezionare accurtamente tempi, modi e montaggio complessivo del lavoro. L’atmosfera claustrofobica del film, del resto, a cominciare dalla celebre sequenza iniziale – con l’autostoppista che “gioca” con il malcapitato come se fosse un burattino – è diventata uno stereotipo consolidato da road movie, citato in svariate pellicole ed almeno un paio di cortometraggi – tra cui L’autostoppista (ne I nuovi mostri). Un’atmosfera di quelle unica, meramente cinematografiche e romanzate, che vive di se stessa e ne rimane orgogliosa, a patto di accettare il patto di farsi coinvolgere dalla storia così come è (nella realtà, per capirci, non vedremmo troppi autostoppisti chiedere passaggi in maniera così disinvolta: ad esempio potrebbero chiamare, che so, il soccorso stradale).

    Il suo fare beffardo, cinico e privo di scrupoli, rispecchia una sorta di lato oscuro, e serve a lasciare il pubblico in bilico tra un incubo in piena regola ed uno dei più vividi sogni ad occhi aperti mai concepiti da un uomo. Ma sarebbe sbagliato ridurre tutto ad una semplice dualità tra il ragazzo dalla faccia pulita ed il cattivo con il sorriso da joker: “The Hitcher” si espande in svariate direzioni, introducendo vari (e convincenti) protagonisti e diramando la trama in altrettanti versanti. Essi servono ad arricchire la trama del film, il quale possiede uno sviluppo decisamente imprevedibile e si arricchisce di infinite sequenze sia thriller (il ragazzo arrestato dalla polizia, la lotta tra protagonista ed antagonista) che puramente da “horror anni 80″ (le morti inspiegabili, il dito tagliato all’interno delle patatine, il simbolismo che diventa evidente nel finale).

    Un film da rivedere ancora oggi in versione rigorosamente originale, tenendosi alla larga dal remake se non dopo – eventualmente – aver gustato anche solo l’interpretazione superba di Hauer.

  • Col cuore in gola: il giallo ispirato alla pop art di Tinto Brass

    Col cuore in gola: il giallo ispirato alla pop art di Tinto Brass

    Si parte dal riconoscimento in un obitorio del cadavere di un uomo da parte della famiglia. Il responso è inequivocabile: commozione cerebrale in seguito ad incidente stradale. Se i presupposti sono inquietanti – e fanno presupporre un thriller lugubre e sinistro, basta poco per accorgersi del contrario: il tono generale è velatamente ironico, non ovvio, lontano dalla stereotipìa. Le allusioni al mondo della sessualità sono implicite ma presenti: i due protagonisti sono una coppia appena formata, rapita da un desiderio narcisistico di indagare per conto proprio su un delitto e, naturalmente, in misura equivalente da un desiderio sessuale.

    Siamo nel 1967, al cospetto del primo Tinto Brass, che non è ancora quello esplicito che avremmo conosciuto in seguito ma che, senza troppe remore, non lesina sulle allusioni sexy con il consueto stile leggero e scanzonato. Quello di qualche anno dopo Il disco volante e Chi lavora è perduto, quando la svolta propriament erotica (che ha reso il regista celebre a livello internazionale) doveva ancora arrivare, ci si divertiva a sperimentare con il giallo all’italiana, a quanto risulta. Sì, perchè Col cuore in gola è fondamentalmente un giallo thriller con finale a sorpresa (forse, neanche tanto a sorpresa: ma sembra dipendente esclusivamente dal soggetto, che non è probabilmente il top in questa dimensione). Questo film è anche l’unico esperimento di Brass nell’ambito, sulla falsariga delle miriadi che ne sarebbero usciti negli anni settanta, con il vanto di essere addirittura uno dei primi, sebbene diverso dalla norma (che ereditava il mood più dal morboso che da altro) e con una singolare ispirazione di natura pop art.

    Col cuore in gola fa anche pensare ad un film hitchcockiano puro (cosa nemmeno propriamente errata, dato che i protagonisti appaiono perennemente in fuga dal proprio fato, e lo humour sotteso è tipicamente english), ma è anche un film coloratissimo, dai toni altalenanti, in grado di rappresentare uno spettro di emozioni ambivalenti e tipicamente umane: l’empatia, l’amore, l’entusiasmo per una nuova relazione, la simpatia innata dei personaggi, le caratterizzazioni. Un giallo all’italiana privo, in altri termini, della tipica seriosità ostentata dal genere, e con momenti tipicamente brassiani (o addirittura felliniani, verrebbe da scrivere) in cui i personaggi si lasciano andare a manifestazioni dionisiache di vario ordine e grado.

    La storia è quella di un uomo che incontra una giovane donna che ha appena perso il padre, la quale vive con la matrigna ed un fratellastro. La morte del padre non sembra l’incidente che viene annunciato all’inizio, e le indagini personali dei due personaggi cozzeranno con gli interessi di una pericolosa banda di criminali. Ispirandosi al romanzo Il sepolcro di carta di Sergio Donati, edito dai Gialli Mondadori nel 1956 (numero 373), Brass si impegna in una regia ricercata, ironica, a tratti d’essai, ricchissima di primi piani, proto-settantiana nei tempi e nei modi, amante dei primi piani e dei dettagli e che sarebbe facilmente riconoscibile tra mille altre regie. Al netto di qualche piccola ingenuità nella trama (che non rimane particolarmente impressa, di per sè, e non è certo memorabile) il film si regge perfettamente in piedi, per quanto non sorprenda che non abbia avuto successo al tempo della sua uscita.

    Anche senza troppa immaginazione è possibile cogliere dentro Con il cuore in gola almeno un paio di situazioni che richiamano certi gialli argentiani, a cominciare dal protagonista che si improvvisa detective accompagnato da una giovanissima co-protagonista (Ewa Aulin aveva appena 16 anni all’epoca, anche se il suo personaggio afferma di averne 17). L’erotismo è sempre dirompente (e a volte appare vagamente fuori contesto), per quanto non sia ancora quello del Brass che conosceremo da La chiave in poi. Si vive di accenni, brevissime nudità assortite, citazioni di Antonioni en passant, schermi fotografici che diventano lenzuola di un letto, giochi di sguardi dei passanti che seguono una litigata tra due amanti, per poi sorridere e rilassarsi una volta che è tutto finito. La regia è magistrale soprattutto in queste sequenze, e più in generale nella sua straordinaria sintesi tra sperimentazione e pop, un cinema (pseudo)impegnativo che non si sforza snobisticamente di spaccare la testa allo spettatore (in senso figurato, s’intende). Una regia figlia prematura di un Sessantotto che avrebbe di lì a poco lasciato il segno, del quale vediamo le assonanze e le anticipazioni – ad esempio: la sequenza di un dialogo tra i due amanti, che sarebbe fondamentale comprendere, ma viene resa confusa o poco comprensibile dal volume elevato del cinegiornale, il quale racconta conformisticamente della guerra in Vietnam.

    E poi vorrei essere differente, ma non faccio niente per esserlo.

    Col cuore in gola è un adattamento libero dell’opera originale, che Brass ha adeguato alla figura del protagonista (Jean-Louis Trintignant, che recita alcune battute in francese per caratterizzarsi, e che interpreta un ruolo sostanzialmente serioso quanto auto-ironico) mediante due successive revisioni dello script. La location si trova a Londra (nel libro era Roma), nel pieno della rivoluzione culturale, nonché scelta emblematica della libertà artistica (e delle idee politiche) del regista milanese. A detta del Brass dell’epoca, il film è l’equivalente di una sequenza di ideogrammi cinesi, in cui il dettaglio inquadrato vuole rappresentare un concetto più ampio, una raffica di figure retoriche assimilabili alla sineddoche per le quali ci si affida ad una regia veloce, espressiva e multi-dimensionale (multi-dimensionale ad esempio nella sequenza dell’inquadratura da più angolature del protagonista).

    Londra rappresentava ciò che aveva rappresentato in precedenza Parigi: il luogo della trasgressione, della libertà. Stavano succedendo molte cose, in quegli anni. I Beatles erano solo uno di queste. Era il centro urbano più vivace d’Europa (T. Brass)

    Tra case di artisti popolate di quadri, personaggi svampiti o insospettabili, un soggetto sostanzialmente fumettistico (le storyboard che hanno ispirato le riprese sono state realizzate da Guido Crepax: visto oggi, un film del genere potrebbe appellarsi dell’etichetta “cine-fumetto” senza pensare ad un vero e proprio azzardo, almeno quanto lo è stato Lo chiamavano Jeeg Robot), cambi di tonalità di colore, gangster stereotipati, rapimenti, colpi di scena (quello finale è notevole, quanto palesemente annunciato dal dettaglio di un cartello), ambientazione metropolitana, primi piani a gente comune, passioni e intrighi di ogni genere. Sorprende per certi versi come un film del genere sia passato in sordina, così come tutti i lavori sperimentali e pre-erotici del regista. Se non siamo al cospetto di uno dei migliori lavori del suo primo periodo, del resto, poco ci manca.

    Col cuore in gola arriva nelle sale italiane nel 1967, ma non riscuote troppo successo commerciale. Noto anche come  Le cœur aux lèvres e En cinquième vitesse in Francia, dove arrivò due anni dopo, e negli USA, dove venne distribuito con il titolo I Am What I Am e Deadly Sweet.

  • M. Butterfly: il tetro spettacolo di David Cronenberg

    M. Butterfly: il tetro spettacolo di David Cronenberg

    Ispirandosi ad un fatto realmente accaduto, Cronenberg racconta la relazione semi-clandestina tra un diplomatico francese ed un cantante dell’opera…

    In due parole. Uno dei film meno noti di David Cronenberg: per la prima volta tanto lontano dall’estetica horror/sci-fi quanto intenso. Non cambia la poetica della mutazione (che in questo frangente è di natura prettamente sessuale) e si mostra la trasformazione umana e psichica di un protagonista: in parte, quella che il regista stesso stava attraversando.

    Il drammaturgo David Henry Hwang (sceneggiatore del film in questione) scrive la pièce teatrale M. Butterfly ispirandosi ad un singolare fatto di cronaca: un diplomatico francese venne accusato di spionaggio per via del rapporto con un’attrice dell’Opera di Pechino, la quale in sede giudiziaria si rivelò essere un uomo. Cosa ancora più singolare, l’uomo si convinse dell’impossibile, ovvero di avere avuto un figlio dalla compagna/compagno con immaginabili conseguenze sul piano mentale e psicologico: un terreno particolarmente fertile per un regista come David Cronenberg, che già in “Inseparabili” aveva giocato sul confronto tra due gemelli identici ma interiormente differenti, e che aveva a suo tempo sviscerato le proprie ossessioni in termini mentali (Scanners), medico-chirurgici (Rabid sete di sangue, Il demone sotto la pelle), ginecologici e sessuali. Un cinema improntato ad una fortissima passionalità di fondo, dunque, che in questo film mostra un’ennesima debolezza umana: noi siamo conquistati prima ancora dall’idea dell’amore e dell’amata che dalla sua concreta materialità.

    Un tema profondo che ha trovato sfogo, ad esempio, nella concettualizzazione della donna ideale da parte dell’impiegato Sam di Brazil (che immagina essere un angelo dai capelli biondi) e la sua materializzazione (una mascolina e rude camionista): in “M. Butterfly” la donna amata, che ha procurato piacere fisico e mentale al protagonista René Gallimard, si rivela essere un uomo. Questo scatena una crisi ulteriore nel personaggio, in bilico tra il dover riconoscere l’abbaglio e la fuoriuscita di una omosessualità probabilmente repressa. Del resto la visione del sesso nei film del regista canadese, almeno fino a quel punto, era improntata a mostrarne dilemmi, virtualizzazioni (Videodrome) e contraddizioni, e questo ad esempio nell’ottica della maternità, comunemente considerata l’aspetto più rassicurante del mondo femminile che assume invece parvenza da incubo (vedi il finale di Brood).  In questa sede il focus sembra spostarsi sull’uomo, sul suo dramma interiore e su un amore impossibile che si risolve nello splendido monologo finale di Jeremy Irons (che vale forse da solo l’intera visione del film).

    Non credo di scrivere eresìe se premetto, a questo punto, che probabilmente “M Butterfly” è uno dei meno immediati film, in termini di intenti, mai girati da David Cronenberg (senza parlare di vera e propria complessità). Quello che intendo prescinde da un discorso prettamente visivo o allucinatorio tipico del cinema del regista canadese (e che qui manca del tutto): l’intensità della storia, un dramma che si sviluppa inesorabile con i punti interrogativi che assillano lo spettatore fino alle ultime sequenze, rendono questo film in qualche modo un unicum. Non è la prima volta che Cronenberg si rifà a modelli letterari pre-esistenti, ma è probabilmente il primo caso in cui l’orrore non viene “esploso” brutalmente sullo schermo ma rimane splendidamente interiore. Del resto la storia ruota su un evento che cambierà per sempre la vita del protagonista, spazzandone via illusioni, equilibrio mentale e identità: una dinamica che ricorda la progressiva demolizione dei personaggi di una tragedia classica (oltre che di altri capolavori del regista, su tutti “La mosca”), e che non lascerà indifferente lo spettatore.

    Un film giocato sulle consuete ambiguità cronenberghiane, a cominciare dal titolo “M Butterfly” che sembra rimanere volutamente sospeso tra “Madame” e “Monsieur”, e che esprime senza retorica o virtuosismi inutili il dramma di un uomo (o di una donna) e di un amore impossibile.

  • Limitless, la recensione del film con Bradley Cooper

    Limitless, la recensione del film con Bradley Cooper

    Diretto da Neil Burger, Limitless è un film del 2011 che, all’uscita, interessò moltissimo gli appassionati di cinema e dell’assurdo. La pellicola getta le radici in Territori oscuri, romanzo del 2001 di Alan Glynn. Un’opera affascinante, la cui trama, gira intorno ad una misteriosa droga in grado di incrementare la potenza del cervello negli esseri umani.

    Limitless risponde ad un interrogativo che attanaglia moltissime persone. Usando soltanto il 20% del nostro cervello, cosa accadrebbe se ne sbloccassimo tutte le capacità? Sono diverse le nozioni che si incastrano nei meandri più nascosti della mente, finendo molto facilmente nel dimenticatoio. In Limitless, per l’appunto, tutte queste barriere crollano attraverso una pillola apparentemente miracolosa che cambierà la vita del protagonista.

    La recensione di Limitless: premessa

    Limitless è la storia del decaduto scrittore Eddie Morra, interpretato da Bradley Cooper, che, nei primi frame, si barcamena tra le strade affollate di New York. Un creativo senza storie, lontano dalle sponde più estrose del suo essere. Insomma, l’intera pellicola si muove sul cliché di una figura scapestrata che, giorno dopo giorno, tira avanti nella speranza di un’idea sensazionale che cambierà per sempre il corso della sua vita. Morra è assalito da un blocco micidiale, sopraffatto dallo squallore dei sobborghi newyorkesi.

    Il suo, è un personaggio devastato, abbandonato dai suoi affetti e dalla compagna, la Lindy di Abbie Cornish, in piena scalata sociale. Il controverso aiuto dell’ex cognato, Vernon Gant, interpretato da Johnny Whitworth cambierà il corso della sua esistenza. Quest’ultimo, infatti, suggerirà allo scrittore di fare uso di NZT-48, il farmaco che renderà la visione esistenziale di Morra vivida e positiva. Morra sistemerà casa sua e, nel giro di un giorno, guadagnerà le avance della moglie del suo padrone di casa, salvo poi tornare, il giorno successivo, alla solita vita.

    Da qui, il plot di Limitless si fa chiaro. Morra farà di tutto per procurarsi la pillola dei miracoli, consegnare il libro alla casa editrice e diventare la versione migliore di sé stesso. In men che non si dica la pellicola diventa una escalation dei migliori successi dello scrittore che, intanto, si sarà lanciato in borsa e sarà diventato una figura travolgente, non mancando di portare l’attenzione dello spettatore su una delle chimere che attanagliano il mondo moderno: la ricerca persecutoria e spasmodica di un irraggiungibile appagamento.

    I pregi della pellicola

    L’interpretazione di Bradley Cooper è ciò che colpisce maggiormente lo spettatore. L’attore ricopre il ruolo poliedrico di Morra alla perfezione, raccontando luci e ombre di un uomo ossessionato dalla realizzazione personale, eppure incapace di sfruttare le proprie potenzialità a pieno. Limitless è seducente adrenalina, ma anche inquietudine melancolica, specie grazie alla regia magistrale di Burger che permette allo spettatore di rimanere immediatamente coinvolto nelle vicende del protagonista.

    La fotografia gioca un ruolo chiave nella differenziazione delle fasi di Morra, accentuando i toni caldi nei momenti di esaltazione, quasi a rimarcare un aumento della temperatura. I cambi di scena sono dinamici, la trama si muove su una premessa semplice, senza mai risultare banale. Ci saranno delle conseguenze, aspre, a tutto questo. Lo scrittore lo scoprirà presto e, mentre lo spettatore comincia a interrogarsi sul futuro del protagonista, compare in scena Robert De Niro, nei panni dell’uomo d’affari Carl Van Loon, pronto a distruggere i sogni di gloria del neonato business-man Eddie Morra.

    La recensione di Limitless: conclusioni

    Insomma, il film si rivela spiazzante e lascia lo spettatore con un plot twist sorprendente o, meglio, con più interrogativi. Il primo, ovviamente, riguarda il destino del protagonista, ormai riavvicinatosi alla ex compagna e in corsa alla Casa Bianca e, l’altro, su sé stesso. Alla visione della pellicola, infatti, sovviene spontaneo chiedersi: “Cosa accadrebbe se potessimo usare il 100% del nostro cervello?”. Superficialmente si penserebbe di consultare le app casino online con bonus e stravincere, ma in realtà, fin dove ci spingeremmo pur di avere successo e quanti rischi saremmo disposti a correre? Se state cercando un lungometraggio che vi intrattenga in maniera dinamica e che vi lasci anche degli spunti di riflessione interessanti, allora Limitless è ciò che fa per voi. Da thriller psicologico, infatti, riesce a mutare in un fantascientifico assurdo, seppur verosimile, impreziosito da un cast ed una regia d’eccezione.