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  • La casa del tappeto giallo è un fulgido esempio di giallo all’italiana

    La casa del tappeto giallo è un fulgido esempio di giallo all’italiana

    Sulla falsariga di quanto si vedrà (con risultati decisamente più convincenti) nell’altro semi-sconosciuto La morte avrà i suoi occhi, “La casa del tappeto giallo” (produzione R.P.A. Cinematografica, RAI e SACIS dei primi anni ottanta) indaga psicologicamente sul vissuto dei personaggi, in particolare della protagonista Franca, ossessionata dalla figura del patrigno ed in crisi coniugale col marito. Una terza figura si frappone all’improvviso tra i due, esasperando le difficoltà della donna…

    In breve. Singolare thriller italiano a basso costo, anche di discreta qualità e davvero interessante per certe trovate: non è abbastanza valorizzato dalle interpretazioni e da un’ambientazione troppo poveristica, per cui rischia di annoiare l’appassionato di cinema mainstream, e di confinarsi come oggetto di culto per pochi eletti.

    Tratto da un dramma teatrale di Carlo Selleri (“Teatro a domicilio“), bisogna premettere che ne eredita parte dell’impostazione scenica dato che, al posto di un palcoscenico, è ambientato in un singolo appartamento. Un singolo locale fatto di stanze separate piuttosto rigidamente tra loro, quasi ad evocare l’impianto scenico che potremmo vedere in un dramma, dal vivo, dalla diretta voce dei protagonisti. Questo aiuta fin da subito a costruire un’atmosfera fortemente claustrofobica, che si ispira chiaramente ai fasti del giallo all’italiana (La Dama Rossa uccide sette volte, Giornata nera per l’ariete, Quattro mosche di velluto grigio), con cui “La casa del tappeto giallo” eredita vari punti: i personaggi ambivalenti, gli omicidi efferati, i colpi di scena continui, il doppio finale. Probabilmente, pero’, il genere era già in declino in quegli anni, e forse anche per questo il risultato si fa apprezzare solo fino ad un certo punto: il film di Lizzani riesce a sorprendere soltanto in parte, e probabilmente il suo sottotesto (che è di natura finemente psicologica) si fa apprezzare solo dal pubblico più esigente.

    Un po’ poco per chi divora film di genere ogni giorno senza badare a certi sottosignificati, che magari andrebbero relegati più a documentari di psichiatria che a thriller: idea originale, comunque, a cui va dato atto di aver posto, forse involontariamente, per la prima volta certe idee su uno schermo. E se le spiegazioni labirintiche riescono a piacere e devono, anzi, far parte di questo tipo narrazione, in queste circostanze sembrano vagamente artificiose e fin troppo elaborate, specialmente negli ultimi dieci minuti in cui vi è una vera e propria “gara” al finale a sorpresa (le rivelazioni che ho contato sono almeno quattro, e forse già la terza rischia di stancare). Curioso, poi, il fatto che il film conti solo quattro personaggi attivi (più una comparsata), uscendone comunque in maniera dignitosa.

    Ad ogni modo, se la prima parte del film si carica di presupposti accattivanti, con lo sconosciuto che entra in casa ed inizia ad esercitare la propria pressione psicologica sulla protagonista – ed è qui che evoca tremendamente, secondo me, il duello “mentale” visto ne La morte avrà i suoi occhi, molto simile nei presupposti a questo, per quanto “La casa del tappeto giallo” sia uscito cinque anni prima! – realizzando un buon film che, per carità, non sarà il Funny Games italiano – sarebbe troppo pensarlo – ma è comunque accattivante, fuori dal coro e tarato al punto giusto anche oggi. Il tutto, pur riconoscendone pacificamente i limiti di budget e di recitazione, cosa non da poco in un lavoro di questo tipo, ma tant’è.

  • Grotesque: Shiraishi e il suo splatter insostenibile

    Grotesque: Shiraishi e il suo splatter insostenibile

    Un chirurgo dagli istinti perversi (oltre che estremamente violenti) rapisce un’innocua coppietta allo scopo di seviziarla senza pietà…

    In breve. La trama è più o meno un pretesto: proporre nel 2009 la non-storia di un folle chirurgo amante del sangue e del sesso, di fatto, rischia di ricalcare i più scialbi clichè del genere: il risultato finale prodotto dal regista Kôji Shiraishi (lo stesso di Noroi – The curse – tutta un’altra storia, per la verità) non è completamente da buttare, ma possiede difetti grossolani e sconfina parecchio nella monotonìa e nella violenza fine a sè stessa. Da guardare con (molta) cautela e considerare, a mio avviso, un esperimento malriuscito – o se preferite, un’occasione persa.

    “Eccitami con la tua voglia di sopravvivere.”

    Grottesco: letteralmente indica qualcosa di “insolitamente deforme e innaturale, bizzarro, inspiegabile e caricaturale al punto tale da andare contro il senso comune, innescando una comicità allibita“. Questa definizione rischia di far sembrare questo monocorde delirio visivo di Shiraishi ciò che non è: ciò che rimane allo spettatore dopo la visione, nella maggioranza dei casi, sarà un senso di scialbo nichilismo oppure – in molti casi – di vuoto disgusto. Un film vietato in Inghilterra, stroncato a mani basse dalla maggioranza della critica e che, effettivamente, non racconta nulla di memorabile: senza contare che, inoltre, l’intento sottilmente sotteso alla storia (contrapporre la solitudine lacerante e psicotica del maniaco al feeling dolce e bambinesco di una coppia al primo appuntamento) è stata un’occasione clamorosamente persa.  Roba per cui, a conti fatti, tanto vale riscoprire Takashi Miike, l’artefice di altrettanto brutali ma ben più feroci e incisivi saggi sull’argomento (Audition).

    Da un lato, quindi, quel titolo si addice brutalmente al tipo di film che viene riprodotto, anche se poi – a ben vedere – c’è poco di caricaturale, mentre fin troppo delle crudissime sequenze sconfina nella pornografia horror (come da definizione: raffigurazione esplicita): non che ci sia qualcosa di immorale in questo a prescindere, per quanto compiacersi della violenza (e del sesso) rappresentato rischi di banalizzare la questione, riducendo il tutto ad un film per voyeur sadicamente incalliti (e non certo per amanti di adrenalina, emozioni forti o simbolismi politico-sociali).

    Anzi, aggiungerei che per ridere di una pellicola del genere (con l’unica eccezione della folle conclusione della mattanza, quella sì tanto grottesca da rivaleggiare con la testa “volante” di Zombi 3) bisognerà avere un innato gusto per l’exploitation più crudele mai realizzata. Quello che si vede all’interno del film, incentrato interamente sulle sevizie ad una giovane coppia da parte di un “mad doctor” piuttosto “scoppiato” (oltre che affetto da perversioni sessuali davvero terrificanti), nonostante la parvenza “fracassona” è poca roba: l’horror non è violenza gratuita, nè gusto di mostrare il non-mostrabile tanto per fare scalpore, e questo va tenuto presente soprattutto se conoscete poco (o nulla) il genere. La componente porn surclassa alla fine quella torture (che è pur massicciamente presente), e riduce i corpi dei due neo-amanti a due carcasse inermi, mutilate, seviziate ed umiliate in tutti i modi possibili senza un vero motivo: ecce homo, questo è Grotesque, ed è inutile rigirare diversamente la questione. È chiaro che un film del genere rappresenta un caso piuttosto limite (anche se non certo l’unico) di gore continuo, incessante e – nel caso specifico – apertamente fine a se stesso: l’effetto grottesco, paradossalmente, rischia pero’ di perdersi del tutto, con l’ovvia reazione di sdegno da parte di critica e pubblico che lasceranno – secondo me in 8 casi su 10 – disgustati la sala. Eppure, condensando la pellicola ad esempio in un cortometraggio –  e risparmiandosi scene piuttosto inutili e “di cassetta” come la solita motosega da chirurgo (!) e la terribile sequenza di forced masturbation – sarebbe potuto risultare un film più valido ed incisivo: cosa che “Grotesque“, a conti fatti, non riesce ad essere.

  • Il maestro e margherita: il classico di Bulgakov riletto da Aleksandar Petrović

    Il maestro e margherita: il classico di Bulgakov riletto da Aleksandar Petrović

    Uno scrittore sta lavorando a un’opera teatrale di ispirazione biblica su Ponzio Pilato; nel frattempo Woland (alter ego di Satana in persona) e due oscuri figuri sembrano interessarsi all’opera.

    In breve. La trasposizione è semplificata rispetto al romanzo, ma nel complesso regge e dovrebbe (al netto delle consuete – quanto irrealistiche – manìe traspositive) onorare la memoria dell’opera da cui è tratto. Memorabile anche per l’atipica e fondante interpretazione drammatica di Ugo Tognazzi.

    Bisogna guardare un film direttamente. il cinema non è l’arte degli accademici, ma degli illetterati“: a formulare il pensiero appena riportato è stato Werner Herzog in persona – la citazione è tratta dal libro-intervista Incontri alla fine del mondo, Edizioni Minimum Faxconsiderato uno dei principali portavoce del cinema colto e impegnato, esponente della corrente del nuovo cinema tedesco e (potremmo aggiungere, a corredo) intellettuale controcorrente.

    Ho visto questo film mentre finivo di leggere il mattoncino appena citato, e non ho potuto fare a meno di collegare le due linee narrative. La visione de Il maestro e margherita andrebbe effettuata, infatti, dopo aver ribadito quella frase un paio di volte, imparandola a memoria e rifiutando per questo motivo qualunque parallelismo letterario-filmico che rischierebbe, di fatto, di essere fuorviante. Se è vero quello che ha affermato Herzog, infatti, possiamo concederci questa edizione de Il maestro e margherita addirittura (!) senza aver mai letto il romanzo. Senza pensare nulla altro di atipico, lo faremmo giusto per attribuirci un grado di libertà che non è così scontato concederci.

    Lo faremmo, in effetti, anche solo al fine di evitare di farci travolgere dalla barbosa questione della “propedeuticità” del romanzo – vedi il putiferio scatenato dalla versione filmica de Il signore degli anelli, ad esempio – e la consumata dicerìa secondo cui “il film è sempre inferiore al libro da cui è tratto“. Se istintivamente tendo a dare ragione a questa affermazione, infatti, ho comunque ritenuto che le due forme espressive cinema/letteratura siano, in fondo, del tutto scorrelate, sostanzialmente imparagonabili tra loro, e basterebbe citare anche solo Arancia meccanica per convincersene: entrambi pregevoli, sia nella forma di Burgess che in quella di Kubrick. E che a nessuno venga in mente di citare Shining, a questo punto, perchè questo discorso di indipendenza vale addirittura in quel caso (sono due opere diverse, tanto che le schermaglie tra scrittore e regista in merito, viste oggi, sono superate e forse più egotiste che altro).

    Tutto questo spiegone senza aver ancora citato nulla del film? (Purtroppo) sì, è necessario perchè l’opera è complessa, non quanto il romanzo ma quasi, e merita un approccio da parte dello spettatore che non sia nè saccente nè tantomenoe superficiale: la teatralità marcata dell’opera potrebbe, ad oggi, essere meno compresa di quanto non fosse per il 1972, periodo in cui lo sperimentalismo era quasi la norma o la necessità. La regia di Petrović è di natura sperimentale ma non tanto da disorientare lo spettatore, e riesce ad essere avulsa dallo stile lisergico di (forse) troppe opere del periodo. Quando ho scritto che questo film onora il romanzo, in effetti, ritengo che lo faccia non perchè ricostruisca i passi della storia originale in modo fedele (cosa che sarebbe stata alquanto improbabile in ogni caso), quanto perchè evidenzia in pochi tratti il mood letterario che ha reso famoso Il maestro e margherita.

    Poche, scaltre pennellate bastano al regista per delineare il tutto: la raffigurazione dell’artista appassionato e destinato alla miseria, l’atteggiamento ottuso dei burocrati censori, la figura satanica che si pone come autentico sovversore dell’ordine costituito, che Petrovic sembra esprimere contrapponendo il satanismo e la sua anarcoide libertà ad un mondo piatto, ateo quanto conformistico, feroce contro i dissidenti e burocratizzato in modo grottesco. E lo vediamo chiaramente nella scena raffigurata anche nella locandina, quella del pubblico a cui Woland fa scomparire i vestiti, sequenza che si presta peraltro a più di una interpretazione simbolica (se  il pubblico siamo noi, per intenderci, siamo “nudi” di fronte al fascino della trasgressione, per quanto l’ateismo potesse sembrare almeno inizialmente la “vera” libertà).

    Il sovvertimento culturale di Petrović è sostanziale, in parte forse sottovalutato da parte della critica e merita un elogio anche solo per questo, sulla falsariga della sua appartenenza alla celebre Onda Nera – nome inquietante dietro il quale si firmavano vari cineasti “semplicemente” critici verso il regime sovietico. La sua riduzione è del 1972, ed è opportuno chiamarla “riduzione” perchè assume un approccio inesorabilmente riduzionista (quanto efficace, a mio avviso) rispetto alla pluri-citata complessità del romanzo originale, in grado di far comunque evolvere due trame in parallelo senza perdersi in virtuosismi letterari che, se da una parte lo hanno reso una delle opere più celebri della letteratura russa, sarebbe state improbabili sullo schermo. Parte dell’impianto scenico di base viene comunque mantenuto, e si vede che lo script è molto lavorato quanto, in alcuni casi, forse troppo da b-movie (le sequenze delle decapitazioni, ad esempio, danno l’idea di una lavorazione sbrigativa, per così dire). Stando a IMDB, per la cronaca, si sono occupati di soggetto e sceneggiatura il regista in persona, Barbara Alberti, Amedeo Pagani e Romain Weingarten.

    Del resto questo approccio critico non dovrebbe scandalizzare gli appassionati o “puristi” dell’opera letteraria, perchè non è questo il punto; come abbiamo ribadito, dovremmo accettare che Bisogna guardare un film direttamente. il cinema non è l’arte degli accademici, ma degli illetterati. In fondo siamo quasi tutti tentati, credo, a credere a quelle parole, e proprio perchè a dirlo è Werner Herzog, un cineasta impegnato e impegnativo par excellence che in quel passaggio è quasi toccante per la sua semplicità e umiltà. E proprio perchè non è Peter Jackson o Nando Cicero (tanto per citare due estremi opposti) a pensarla così, ci sentiamo un po’ più legittimati a recensire l’opera rigettando a priori di proporre inquietanti paragoni col romanzo, anche in nome della scarsa filmabilità di default che si attribuisce spesso, ad esempio, ad H. P. Lovecraft. Se infatti lo scrittore di Providence è considerato da decenni molto difficile da rappresentare sullo schermo, Bulgakov probabilmente rasenta l’impossibilità e, di fatto, costringe a spostare il focus sulla regia e (non troppo) sullo script.

    Ci sono due elementi fondanti questa riduzione filmica del romanzo di Bulgakov, che chiameremo “riduzione” in senso sia letterale che figurato, proprio perchè sarebbe stato insano proporre una versione uncut dell’opera, cosa che – a quanto pare – è avvenuto in una sola circostanza ed ha richiesto una lettura radiofonica di circa 20 ore. Le accuse di banalizzazione e riduzionismo a Petrović sono quindi, in partenza, frutto di un bias cognitivo molto radicato anche nell’animo di tanti cinefili che sanno il fatto loro, e che sarebbe il caso di mettere da parte.

    Il maestro e margherita rimane ovviamente un film complesso e ricco di sottotesti, allusioni, allegorie e simbologie complesse da decifrare: al tempo stesso è chiaro come voglia essere una critica feroce al regime sovietico ed al suo materialismo dialettico, considerato dalla sceneggiatura un elemento esecrabile quanto in grado di appassire o degradare la realtà. I due elementi che caratterizzano l’opera di Petrović sono, a questo punto, il grottesco (che pervade l’intera opera con momenti davvero sublimi ed altri forse un po’ meno efficaci) e la drammatizzazione spinta nella recitazione degli interpreti. Di fatto la prima componente si declina con effetti speciali artigianali quanto coraggiosi nel loro impianto, con alcune sequenze che sconfinano quasi nell’horror oltre che nel fantastico.

    Il feeling drammatico è di derivazione evidentemente teatrale, ed è anche chiaro che il parallelismo tra la storia di Pilato rispetto a quella del Maestro Nikolaj Afanasijevic Maksudov è giustamente rievocata durante lo svolgimento della trama. Proprio quest’ultimo personaggio è mirabilmente interpretato da Ugo Tognazzi, in una delle sue tante interpretazioni drammatiche, oltre che probabilmente uno dei motivi per cui il film ebbe una discreta popolarità anche in Italia. Maksudov si strugge perchè la sua arte non viene compresa, anzi viene boicottata dai burocrati sovietici, che dall’altro della loro arroganza e impunità non accettano la sua visionarietà, il suo andare oltre il “sacro” materialismo, meno che mai i riferimenti filo-anarchici di critica al potere come violenza.

    Se volessimo individuare un difetto filmico, a questo punto, non possiamo fare a meno di citare alcuni apparenti vuoti narrativi che poi, di fatto, sono semplici pause prolungate: lo spettatore ci mette probabilmente un po’ a sintonizzarsi con questo aspetto, allo stesso modo in cui non faticherà a farsi affascinare dalla figura di Woland (un diavolo allusivo e potentissimo che, probabilmente, è un po’ il padre putativo di tanti altri demoni di forma umana visti sullo schermo di seguito).

    Il film procede più speditamente di quanto quelle pause possano suggerire, e permette quasi di azzardare che la riduzione sia stata sintetica al punto giusto, nonostante qualche inevitabile fusione narrativa che i fan di Bulgakov quasi certamente criticheranno. Nonostante questo, il mio parere positivo non cambia, e vale la pena dare (o ridare) ancora oggi una possibilità a questo lavoro, a dispetto della sua età e del fatto che riesce a farsi amare, come pellicola, anche senza conoscere l’opera originale. E questo, anche se sembra incidentale o di poco conto, non andrebbe sottovalutato.

  • Nekromantik: horror realistico e underground, solo per cultori

    Nekromantik: horror realistico e underground, solo per cultori

    Robert e Betty è una coppia dalla singolare perversione necrofila: in particolare l’uomo, che lavora per una ditta che rimuove cadaveri dopo gli incidenti, le procura pezzi di corpi umani. Un giorno perde il lavoro: parte così una crisi di coppia che si risolverà in maniera decisamente macabra.

    In breve. Sporco, crudele, realistico: Nekromantik è un po’ la summa dell’horror underground, quello che punta sul realismo e sullo shock dello spettatore. Un discreto ritmo accompagna lo svolgimento della trama e non c’è tempo di distrarsi o annoiarsi: da vedere, ma solo per hardcore fan.

    Uscito nel 1987 in Germania, Nekromantik delinea con pochi tratti la storia di Rob e Betty, coppia di necrofili che trafuga pezzi di cadavere e, dopo qualche tempo, un intero corpo. Rispetto ai toni accennati che avrebbe un horror del genere in altre circostanze, Nekromantik è esplicito e crudo: mostra quello che non si può mostrare, quasi nel delirante diniego di qualsiasi Codice Hays, e questo anche a partire da piccoli dettagli non indispensabili alla trama quanto crudi, espliciti e spesso addirittura poco funzionali alla trama (la morte del coniglio, un uomo ed una donna che urinano). Ma serve a costruire, per quanto in modo greve, l’atmosfera che pervederà la pellicola fin dalle prime scene.

    Il taglio di Nekromantik, opera prima di un all’epoca giovanissimo regista Buttgereit, è più realistico che non si può – tanto da rasentare lo snuff simulato in più di una sequenza. La regia è solida, credibile e impietosa – questo nonostante i mezzi davvero limitatissimi – e si sofferma sui dettagli più macabri senza risparmiare dettagli, e proponendo fin da subito grevi parallelismi (un cadavere vivisezionato montato in alternanza con un coniglio ucciso e spellato). Secondo il regista, del resto, l’idea era quella di sfidare apertamente la censura tedesca, con l’intento di shockare il maggior numero di persone possibili. Lo spirito, insomma, è di quelli più primordiali, e l’intento sembra perfettamente riuscito.

    Nekromantik parte con un avviso formale al pubblico (“questo film potrebbe essere giudicato come grossolanamente offensivo, e non andrebbe mai mostrato ai minorenni“) ed una citazione criptica (attribuita al misconosciuto V. L. Compton: Quali vite non vivono dalla morte di qualcun altro?), che fanno intuire come dietro alla mera esposizione di splatter ci sia una sorta di poetica macabra, della serie: mostrare una relazione di coppia dalla passione necrofila in cui, alla fine, lei mostra di preferire un cadavere al compagno. Del resto la tagline stessa di Nekromantik è pervasa da un minimo di humour nero – piuttosto sottile, con chiaro riferimento al risvolto tragico della storia (“A film about love for man and what remains of him.“).

    Se il sospetto è fin da subito che la crudeltà e la grevità finiscano per appesantire la visione nel suo complesso (che certo non potrà mai definirsi con aggettivi tipo “gradevole”), rimane sempre aperto un discreto spiraglio di ironia cupa, ed il fatto che si tratti di uno dei pochi horror a tema puramente necrofilo.  Siamo comunque al cospetto del primo Buttgereit – quello che solo in seguito raffinerà la propria arte con Der Todesking e Schramm, sempre geniale quanto low-budget regista di horror. Le idee ci sono, e si vede: mancano i mezzi, e si vede che il film è (volutamente) poco raffinato.

    Nekromantik mostra tutto, anche le scene di sesso col morto, il perverso manage-a-trois ideato dalla coppia, il suicidio finale con tanto di finto fallo. Ma non si tratta solo di rappresentare violenza e perversione per il gusto di farlo: c’è una poetica macabra ed esplicita sulla morte e sull’amore. Rob viene licenziato dal lavoro, nello specifico, e a quel punto scatta la crisi di coppia. Alla fine Betty (che approva la raccolta di pezzi di cadavere in formaldeide e fa usualmente il bagno nel sangue umano) trova nel cadavere il suo nuovo amante. La genialità della trovata emerge con chiarezza, e suggerisce un doppio piano di lettura: da un lato la presunta libertà di una scelta (espressa da un semplice e letterale feticcio), dall’altra l’incubo depressivo di Rob che si esplica nel dolore fisico auto-inflitto.

    La pornografia diventa morte, a quel punto, e non c’è scampo per lo spettatore.

  • Uccelli d’Italia: quando gli Squallor girarono un film

    Uccelli d’Italia: quando gli Squallor girarono un film

    Uno dei due cult cinematografici degli Squallor: commedia ad episodi con assurdità demenziali all’ennesima potenza per un genere che, nel 1984, aveva ancora tanto da raccontare. La regia è di Ciro Ippolito, lo stesso che realizzò lo spin-off di fantascienza noto come Alien 2.

    Il trash è consapevole di se stesso: troviamo le scenette tipiche dell’italiano medio riportate in chiave umoristica e non-sense (ma anche, c’è da dire, con grande intelligenza e parsimonia). In questo film i quattro geniacci della musica italiana (Bigazzi, Pace, Savio e Cerruti), spesso in compagnia a bellissime attrici (Sabrina Siani, o la fulciana Cinzia de Ponti) prestano i propri volti a scene irriverenti, fuori dalle righe, inconcepibili da raccontare, quasi sempre legate al demenziale più cristallino oltre che infarcito di siparietti pazzeschi e, proprio per questo motivo, assolutamente spassosi.

    Tutto è demenziale in “Uccelli d’Italia“, e tutto è dotato di uno humor pazzesco e piuttosto inedito per l’epoca, a cominciare dal titolo che fa riferimento all’inno nazionale “Fratelli d’Italia” (ma che secondo alcuni sarebbe anche la parodia di “Uccelli di rovo“, una miniserie iconica di metà anni Ottanta diretta da Daryl Duke). Ma attenzione, questo non deve far pensare a quella comicità gratuita a cui potremmo essere abituati oggi (la stessa che Maccio Capatonda ha fatto varie volte oggetto di meta-umorismo), fatta di vuoti tormentoni dei quali ridere in modo fine a se stesso.

    Ippolito e gli Squallor aggrediscono i luoghi comuni dell’epoca, il perbenismo (ben prima che diventasse patrimonio culturale dei troll della politica e dei social) e – direi soprattutto – sfidano la censura con la propria irriverenza. Come fa ad esempio Daniele Pace quando pronuncia la parola “eiaculare” la bellezza di dieci volte di fila, perchè sì. Uno schiaffone alla cultura mediocre (e rigorosamente democristiana) dell’epoca che, di sicuro, nel suo piccolo non passò inosservata, e che fu in fondo la forma di ribellione insofferente per cui gli Squallor stessi nacquero, vissero e spirarono qualche anno dopo.

    Uccelli d’Italia, con la sua iconica capacità di dire tutto senza dire nulla, di esagerare senza andare mai al punto, di diventire senza raccontare quasi nulla, è altresì abile a costruire atmosfere seriose (molto spesso da telenovela anni 80, in cui il modello era naturalmente Uccelli di rovo), per poi smantellarle con la spontaneità delle barzellette di Pierino o, se preferite, con l’immediatezza di battute al fulmicotone che oggi passano relativamente indifferenti ma che, per l’epoca, furono avanti e anche di molto.

    Non bisogna dimenticare che dietro questo film vi è il lavoro artistico di Bigazzi, Savio, Cerruti e Pace, attivi per circa 40 anni in una band seminale che nel frattempo è diventata di culto, artefice di ciò che tanti altri gruppi successivi avrebbero banalizzato come “rock demenziale”, e che avrebbe ispirato orde di artisti estasiati da quegli ascolti – era meglio quando c’erano gli Squallor, in effetti. E sono giusto i non-sense esasperati degli artisti che crearono “38 luglio”, “Cornutone” e “Tutto il morto minuto per minuto”, diretti dal regista di Alien 2 – Sulla terra, a prendere quasi completamente la scena e ad occuparla con insensatezze che lasciano lo spettatore sbigottito, costretto a ridere. Immersi in una colonna sonora in parte degli stessi Squallor (ad esempio “A chi lo do’ stasera“, che venne reinterpretata con testo leggermente diverso da Nadia Cassini), in parte dei Village People – che conferiscono, questi ultimi, al film quell’atmosfera così ottantiana – non mancano tanti riferimenti a tormentoni e serie TV che ancora oggi fanno il loro effetto: su tutti l’intermezzo fisso tra un episodio e l’altro, che da “Italia Unoooo” diventa inesorabilmente “Italia culoooo“. Senza dimenticare che “Anche i ricchioni piangono” (anche qui, se parlassimo di politicamente corretto non ne usciremmo più) e soprattutto <<“Osvaldo non sarà più tuo”, un dramma tra due donne ed un mezzo culo in 185 puntate>>.

    Particolarmente riusciti rimangono l’episodio iniziale, con il prete che illustra chiaramente le proprie intenzioni nei confronti dell’amante clandestina, la storia di Bigazzi – scrittore in crisi creativa – tormentato da moglie e figli che decide di risolvere la questione con una bomba a mano (!) e, forse soprattutto, una coppia che rientra a casa, lui è appena tornato da un viaggio, lei chiede insistentemente “Cosa mi hai portato da Parigi?“, e dopo uno strip-tease totalmente inutile ai fini della storia l’uomo tira fuori dalla giacca … una provola (!). Mini-film a sè stanti, quindi, perennemente in bilico da demenziale e comicità assurda, con alcune volutissime sbavature come il momento in cui Pace (che interpreta un morto di recente) scoppia dal ridere per via dei riferimenti di Cerruti, vestito da vedova, al capitone ed al celebre “e mo chi mi chiava ammè“.

    Un film sincero e spassoso, da tempo uscito in DVD assieme al degno compagno “Arrapaho“, che si lascia guardare con piacere anche oggi, nonostante alcuni momenti alquanto spiazzanti, ma solo perchè i riferimenti non sempre si riescono ad intuire (come avviene molto facilmente, invece, con la parodia dei Visitors, altro cult d’epoca). Probabilmente sulla scia di “Uccelli d’Italia” con qualche mezzo in più sarebbe potuta nascere una sorta di Troma all’italiana (il feeling c’è tutto); del resto sappiamo tutti come venga visto un certo cinema dalle nostre parti, per cui probabilmente va benissimo già quello che abbiamo.