Un assassino seriale uccide varie donne a Londra strangolandole con una cravatta: per una serie di circostanze casuali, la polizia sospetta dell’uomo sbagliato…
In breve: un buon film, il penultimo, del maestro del brivido, caratterizzato da un perfetto equilibro tra componenti violente (esplicite come non mai per il regista), virtuosismi di camera, elementi di puro intrattenimento e quel tocco di immancabile humor nero. Da vedere senza esitazione.
Primo film girato nel Regno Unito dai tempi de L’uomo che sapeva troppo (1956), e filmato nei pressi di Covent Garden a Londra, è noto per essere uno dei lavori più spaventosi ed estremizzati del regista inglese: è un film incentrato interamente sull’operato di un serial killer, che peraltro si vede subito in volto ed i cui dettagli raramente vengono risparmiati. A rendere accattivante la trama vi è una serie di equivoci, di circostanze casuali che porteranno le autorità – tra il serio e l’ironico – a sospettare ostinatamente di un innocente.
Si racconta che la figlia del regista, Patricia, impedì di vedere Frenzy ai propri figli per diversi anni: rispetto alla media dei film del padre, in effetti, qui si osa molto di più che in passato. E forse sta in questo il suo reale valore aggiunto: del resto, pur rimanendo ancorato agli elementi stilistici che caratterizzano le sue precedenti opere (Frenzy è il suo penultimo film), è pur sempre l’unico lavoro di Hitchcock vietato ai minori di 18 anni nel paese d’origine – lo stesso paese che, per inciso, fece stilare la lista dei video nasty negli anni 80.
Nonostante non sia il capolavoro del regista, è un film dotato di notevole forza espressiva, ed in cui sembra notarsi apertamente l’entusiasmo del buon Alfred nel poter filmare liberamente, nel dare massimo sfogo alla propria creatività e nell’arricchire il film di virtuosismi visivi, inquadrature inattese e personaggi praticamente perfetti. Non mancano le scene di nudo, per la cronaca, cosa decisamente inusuale per il suo stile relativamente sobrio, e questo a dispetto della mancanza delle solite dive dei film precedenti: mostrano le proprie grazie la Leigh-Hunt (la sequenza della sua morte è un mix delirante di sesso, violenza e tensione: praticamente perfetta), la Massey (non appena si alza dal letto) e la povera ultima vittima del killer. La capacità di contestualizzare queste sequenze – senza farle sembrare gratuite, rischio elevatissimo in questi casi – da parte del maestro è sublime: nessuna scena è fuori posto, ogni personaggio viene dipinto come se fosse un quadro e, forse soprattutto, sono i movimenti di camera a sottolineare il senso di molte scene. Basti pensare al lungo piano-sequenza con la camera che si allontana all’improvviso dalla scena del delitto – facendolo solo intuire, oppure alla camera che ruota sopra il protagonista che sappiamo essere innocente dopo che, ingiustamente, è stato messo in cella.
Da un punto di vista prettamente narrativo, “Frenzy” (che significa “delirio”) è tratto dal libro Goodbye Piccadilly, Farewell Leicester Square di Arthur La Bern (non facilissimo da reperire, almeno da quanto ho visto), ed è stato caratterizzato da numerosi espedienti di interesse: su tutti, il focus di certe sequenze sull’alimentazione, dalla frutta di ogni tipo alla cucina francese, quest’ultima molto elegantemente sbeffeggiata.
Tra le curiosità, il trailer di Frenzy viene presentato dal regista nel consueto stile, composto ed inconfondibile, mentre il suo corpo galleggia, impassibile, nello stesso fiume in cui sarà trovata la prima vittima.
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