Razzismo, horror e tema del doppio: “Noi – Us” (J. Peele, 2019)

La vacanza di una famiglia americana viene bruscamente interrotta dalla presenza di alcuni estranei: sembrerebbe la più classica home invasion, ma si tratta di veri e propri “gemelli cattivi“.

In breve. Horror diretto e coinvolgente, privo degli eccessi che – in questi casi – li caratterizzano, interpretato e diretto con grande stile. Alla base del soggetto varie suggestioni tratte dal meglio del genere horror e slasher.

Scritto e diretto da Jordan Peele (noto per l’esordio Scappa – Get Out, un horror satirico ispirato al primo Romero), Noi è un film dalle svariate suggestioni, dotato anche di una buona dose di equilibrio: a differenza della media dei casi, infatti, riesce a bilanciare diverse componenti, senza mai appesantire la visione. Si prende spunto dagli stereotipi classici da thriller/horror, che poi vengono declinate con modalità slasher (o multi-slasher, dato che ogni personaggio ha il proprio antagonista). Tanto che, prima di iniziare le riprese, Peele distribuì una lista di undici horror al cast, in modo da disporre di un linguaggio condiviso ed una serie di punti comuni di riferimento. Un focus che nel film si evidenzia con una certa lucidità, e che attraversa Gli uccelli, Lo squalo, Shining, Babadook, passando per It Follows, Martyrs, Il sesto senso, Lasciami entrare e così via.

Il film è, come nella tradizione carpenteriana, ripreso da continui ed insistenti simbolismi, spesso di natura biblica (Geremia 11:11: Perciò, così parla il SIGNORE: “Ecco, io faccio venir su di loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò.”) ma anche spudoratamente cinefila: Jason, ad esempio, è uno dei giovani protagonisti ed è un chiaro riferimento al cult Venerdì 13 (molte scene sono girate su un lago), e anche la continua comparsa della t-shirt di Thriller di Michael Jackson sembra avere più di una motivazione simbolica.

Se all’inizio Noi non evoca suggestioni coinvolgenti – e anzi rischia di sembrare stereotipato o “già visto” – basta attendere i primi twist della pellicola per cambiare radicalmente idea: l’horror di Peele non solo è ben realizzato, ma è anche caratterizzato da una gradevole venatura di humour nero (il regista è anche un comico ed un produttore, per inciso, e la sequenza dell’aggressione a due personaggi con dispositivo simil-Alexa a supporto è, in ogni senso, magistrale). Il sarcasmo, del resto, aiuta a superare un problema (o almeno, ciò che potrebbe rivelarsi tale per alcuni spettatori) che affligge questo sottogenere fin dalle prime uscite, ovvero l’abuso del senso di sospensione (il piano sequenza disperato, drammatico e interminabile in Funny Games) e la facile degenerazione in sequenze inutilmente exploitation o torture porn (una tentazione a cui pochi registi, trattando questo genere, hanno saputo resistere). Peele fa la differenza: non solo ribalta l’assunto narrativo, mostrando dei protagonisti afro-americani e relegando agli attori bianchi un ruolo secondario, ma riesce a bilanciare ogni componente dell’intreccio, senza abusare del comico (il che avrebbe reso ridicolo o poco credibile il risultato) nè eccedere nella violenza (che in Us ovviamente c’è, ma è sempre funzionale alla storia).

Dopo averci suggestionato con una sequenza chiave, quasi onirica –  che sembra citare Il tunnel dell’orrore, siamo proiettati in una dimensione nuova: una famigliola in vacanza in preda ai consueti alti e bassi (Adelaide, la madre, è la ragazzina dell’episodio visto all’inizio, ed è tormentata da un trauma infantile: si era persa in un labirinto di specchi deformanti, ha smesso di parlare ed è convinta di aver incontrario una propria gemella). Il tormento viene brutalmente interrotto da un problema nuovo: quattro estranei, sinistri e perfettamente immobili, si sono posizionati di notte all’esterno della loro casa, minacciando di entrarvi. Qui il riferimento più evidente sembra essere a film come You’re the next, ma bisognerebbe citare, come minimo, anche l’attitudine dei ragazzi di Funny Games. L’atmosfera diventa più rarefatta e sinistra, l’aggressività degli estranei sembra poco giustificabile ma, soprattutto, notiamo una particolare ritualità nei loro gesti. Proprio in questa teatralità mimica, in effetti, che caratterizzerà i villain con una particolarissima forma di coreografia, risiede uno dei punti di forza del film di Peele, unita alla particolare forma di disfonia di cui soffre il “doppio” del personaggio interpretato da Lupita Nyong.

Una famiglia contro i rispettivi “gemelli cattivi”: un’idea semplice, funzionale quanto originale nelle conseguenze. Se l’impianto generale potrebbe essere tratto da un episodio de Ai confini della realtà (e in effetti esiste un episodio di una serie di fantascienza anni ’60, Lost in Space, dal nome The anti matter man, il quale racconta del viaggio dei due protagonisti in un mondo parallelo, in cui dovranno fronteggiare i rispettivi doppelgänger), concettualmente Peele si ispira anche all’horror alla Romero, in un modo che diventerà particolarmente evidente nella seconda metà del film. E se la sua conoscenza del genere (e relativa attitudine) è autentica, originale e più che degna di nota, bisognerebbe citare almeno un ulteriore film che potrebbe averlo ispirato, ovvero il cult Doppia immagine nello spazio – Doppelganger.

Se il film riprende e rielabora i più classici stereotipi del genere, quindi, va anche specificato che lo svolgimento della trama si basa anche sul mito della caverna, di cui scrisse Platone nell’opera filosofica La repubblica. Insomma quello di Peele è un horror autoriale, compatto e credibile, sostanzialmente privo di difetti e con tanto di doppio finale: una piccola perla di cui il genere, ad oggi, sembra avere un bisogno vitale.

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