Salvatore

  • Trauma di Dario Argento parla di disturbi alimentari e shock psicologici

    Trauma di Dario Argento parla di disturbi alimentari e shock psicologici

    Aura Petrescu, una ragazzina sofferente di anoressìa, assiste all’omicidio dei propri genitori da parte di un killer: grazie all’aiuto dell’amico David scoprirà un’imprevedibile trama ordita dall’assassino…

    In breve. Un corposo trattato di sadismo, incentrato sulla figura di un inquietante serial killer tagliatore di teste: uno dei film forse meno noti di Argento che comunque, a ben vedere, rimane nella sua filmografia come lavoro di buona qualità.

    “Con un cappio attorno al collo… non sono stata la prima vittima, e non sarò nemmeno l’ultima!”

    Prima produzione americana – e questo si riflette nelle ambientazioni e nei ruoli dei personaggi – di Dario Argento, con soggetto scritto con Ferrini e Romoli incentrato sulle vicende di una ragazzina rimasta orfana. Proprio per il ruolo di protagonista venne scelta la figlia Asia, all’epoca giovanissima e, per questa ragione, probabilmente acerba rispetto all’importanza del ruolo che rivestì. Già questo rende “Trauma“, thriller novantiano ricco di tipiche trovate “teatrali” del regista, un film vagamente ostico da guardare, senza contare la sua lunghezza atipica (circa due ore) in cui, tanto per (non) cambiare, l’assassino viene rivelato solo alla fine dopo il consueto gioco di falsi sospetti ed indiziati. Al di là di una scelta di interpreti poco esaltante e di una trama forse poco incisiva nella prima parte, quasi nulla è da buttare, tenendo conto dell’ambientazione architipica, della dinamica da thriller mainstream, di alcune citazioni di Profondo rosso, del sottotesto del film e del fatto che riguarda l’anoressia, un dramma vissuto realmente dalla sorellastra di Asia (Anna, scomparsa nel 1994). Quantomeno potremmo affermare che questo lavoro è l’ennesima dimostrazione di come l’horror sappia essere, in opportune condizioni, un genere più maturo e profondo di quanto troppe persone vogliano farci credere. L’argomento cardine di Trauma, al di là delle micro-storie che contiene, riguarda un’imprevedibile vendetta dovuta ad uno spaventoso trauma – per l’appunto – vissuto dal killer, proprio come avveniva nel succitato capolavoro del regista.

    Trauma è un buon thriller, ben ritmato ed a forti tinte horror, che mostra il “tocco” dell’Argento più sanguinario e viscerale, a cominciare dalla scena di decapitazione presentata all’inizio (mediante un laccio metallico motorizzato), che poi rappresenterà – piuttosto atipicamente per il regista romano – l’arma del delitto prefissata. Un villain che, in questo contesto, si muove di soppiatto e quasi sempre in soggettiva, restando nascosto con cura fino all’imprevedibile finale, giusto il tempo necessario perchè Aura possa ricordare ciò che la sua psiche ha rimosso (la faccia del maniaco, per l’appunto). Contemporaneamente, pero’, i toni appaiono smorzati rispetto al mai troppo celebrato passato del regista, il quale preferisce abbandonarsi a suggestioni da tipico film made in USA che ai consueti “tocchi di classe” che lo caratterizzarono all’epoca: a vederlo oggi, a conti fatti, avercene film “commerciali” così.

  • From beyond – Terrore dall’ignoto: l’horror lovecraftiano sulla ghiandola pineale

    From beyond – Terrore dall’ignoto: l’horror lovecraftiano sulla ghiandola pineale

    L’assistente di uno scienzato non troppo sano di mente viene rinchiuso in un manicomio: il professore è stato trovato decapitato, dopo che i due hanno tentato uno strano esperimento di stimolo della ghiandola pineale, il “terzo occhio” citato a partire da Cartesio. Ipotizzando che si tratti di un organo completamente addormentato, i due protagonisti sono convinti che possa esistere una macchina capace di stimolarne l’uso e permettere così all’uomo di entrare in una dimensione del tutto nuova. Ma tale scopo apparentemente nobile nasconde una realtà fatta di mostri ed incubi terrificanti…

    In due parole. A tanti fan dell’orrore non è piaciuto, e francamente non riesco a capire il perchè. Interpreti al di sopra delle righe, anche piuttosto ben fatto (ma gli eccessi gore non appartenevano allo scrittore): si fa guardare con un certo interesse anche oggi. Ha ispirato almeno altri due successi dell’horror mondiale: Hellraiser e Society.

    Il film è un horror ottantiano per ambientazioni e riprese, e possiede più di un richiamo alle dimensioni parallele, ai mondi raggiungibili mediante porte realizzate dall’uomo e – visto che si tratta di un horror – agli eccessi che ne potrebbero conseguire, in chiave prettamente splatter-gore. Non manca il riferimento all’immaginario del sesso e del sadomaso, e non è da escludere che Clive Burker abbia preso da questo film molto del suo Hellraiser, uscito l’anno successivo. Barbara Crapton vi fa la sua bella figura, sebbene non appaia troppo convinta sulla scherm. Perfetto invece il solito Jeffrey Combs, nella parte dell’uomo che indaga e ne paga le conseguenze.

    Affascinante, inoltre, l’idea dell’esistenza di un risonatore come ponte di contatto tra una dimensione aliena ed il mondo così come lo conosciamo: sebbene non ci sia il piglio scientifico del body horror de La mosca, si tratta comunque di un film imparagonabile a quello appena citato (come qualcuno impropriamente ha fatto), certamente dignitoso nella propria specificità. Bella, in particolare, la sequenza dedicata al tema della follia (i “normali” non fanno altro che negare l’evidenza), ripresa dalla tradizione sci-fi ed esaltata meravigliosamente nove anni dopo ne “Il seme delle follia”.

    “Voglio vedere di più… più di quanto un uomo abbia mai visto!”

    Prodotto dal geniaccio di Brian Yuzna, che attingerà da questo film a piene mani, almeno apparentemente, per il suo Society, e diretto praticamente con le stesse dinamiche di Re-animator da Stuart Gordon, che si fa ricordare per uno dei suoi prodotti più convincenti. Nonostante qualche piccola forzatura – come la Crampton in abito sadomaso, buttata lì quasi per caso – rimane una piccola chicca del periodo ottantiano dell’orrore, quello che rimpiangiamo in tanto quando ci lamentiamo che il genere è morto e che non fanno più certe produzioni. Nel cast è presente, tanto per restare in tema di nostalgia, il Ken Foree rimasto nell’immaginario di chi ha visto decine di volte Zombi di George Romero.

    Mentre un po’ di diatriba su H. P. Lovecraft in altri ambiti avrebbe probabilmente senso, sono convinto che – dopo aver visto tanti horror – una discussione omologa in ambito cinematografico non ne abbia per nulla. Sebbene “From beyond” sia uno dei racconti forse più fedeli agli scritti originali (ed abilmente rielaborato dalla sceneggiatura), persino Wikipedia fa notare che lo scrittore di Providence non avesse grande stima per le proiezioni audiovisive. Credo che sarebbe rabbrividito nel sapere dell’attuale 3D e nel fatto che le storie spesso contino poco o nulla, sebbene forse ricostruire una delle sue ambientazioni ciclopiche con quella tecnologia non sarebbe affatto male. Quindi la discussione sulla “fedeltà del film allo spirito dello scrittore di Providence”, che anche qui non c’è, sarebbe già finita da un pezzo.

    Con buona pace di Lucio Fulci, che ci ha costruito almeno due film sopra (sulle atmosfere, più che altro: L’aldilà e Paura nella città dei morti viventi, dove si prende qualcosa da Nyarlathotep e dallo pseudo-culto del Necronomicon), con buona pace di John Carpenter (La cosa, almeno in parte parallelo de “Le montagne della follia”, ma anche l’immenso Il signore del male) e senza citare tutti gli altri che credono di aver capito Lovecraft e si sono sentiti autorizzati a riprodurlo. Uno scrittore che è molto meno filmabile di tanti altri, e che non lo è neanche in questo buon “Terrore dall’ignoto“, e questo perchè non scriveva per il cinema: un assunto estremamente semplice che risparmierebbe molteplici discussioni sul tema, almeno secondo il mio parere. Fatta questa precisazione, il film rimane come un qualcosa certamente da riscoprire anche oggi, per il buon livello di intreccio ed effetti splatter.

  • La frusta e il corpo: il capolavoro gotico di Mario Bava

    La frusta e il corpo: il capolavoro gotico di Mario Bava

    Il nobile Kurt, cacciato dal proprio castello per via della propria vita dissoluta, viene freddamente riaccolto dai familiari: ha alcuni conti in sospeso ed è ossessionato dall’amore negato di Nevenka, la quale ha dovuto sposare il fratello di lui su imposizione del padre. In realtà i due sono amanti segreti, e vivono un rapporto sado-masochistico clandestino: un giorno Kurt viene trovato morto ed il suo fantasma, almeno apparentemente, inizia a tormentare la famiglia…

    In breve. Uno dei capolavori di Mario Bava: gotico puro dall’immenso stile, ritmo e livello registico-recitativo, senza esplosioni di violenza (quasi sempre solo accennata) e con una trama molto ben delineata. Alcuni elementi della storia (i tradimenti tra benestanti apparentemente irreprensibili, ad esempio) saranno ripresi dai migliori gialli all’italiana, che usciranno di lì a qualche anno.

    La frusta e il corpo” rientra tra i film più importanti di Mario Bava: il maestro di Dario Argento, infatti, già nei primi anni 60 propose una trama incentrata sulla sottomissione ed il sadomasochismo, esplicitato nel rapporto morboso tra Nevenka (Daliah Lavi) e Kurt (Cristopher Lee). Una storia in cui l’aspetto psicologico finisce per farla da padrone, e che rimane tanto semplice quanto suggestiva – per non dire archetipica: l’uso del Technicolor, un castello a due passi dal mare, l’espressività inquietante di Lee e pochi personaggi appartenenti ad una sorta di nobiltà decaduta sono tutti elementi che bastano a creare un film di culto totale.

    E si tratta di elementi che risultano autosufficenti anche per via del marchio registico: l’artefice de “La maschera del demonio” per una volta deve rinunciare a Barbara Steele e concentrare l’attenzione sul personaggio della Lavi, riuscendo a risultare sempre all’altezza della situazione con grande continuità. Come sempre la storia viene abilmente “decorata” dai dettagli, che sono letteralmente dipinti sulla macchina da presa (il pugnale sotto la teca o il labirintico castello con i suoi segreti ed i suoi passaggi misteriosi).Tutto questo basta per creare un film indimenticabile (ovviamente contestualizzandolo al periodo in cui è uscito) e garantendo l’implementazione di un meccanismo perfetto di definizione dei personaggi.

    Lo possiamo vedere, per fare un esempio, durante i funerali di Kurt: il regista propone gli sguardi in primo piano di tutti i protagonisti, e dal volto di ciascuno di essi traspaiono chiaramente i sentimenti e la personalità di ognuno: lo sprezzante rancore di Giorgia, l’indifferenza mal celata di Cristiano ed il dolore di Nevenka. Una cosa non troppo comune, a questo livello di dettaglio, all’interno del cinema del terrore successivo e che, bisogna sottolineare, riesce a far salire il enormemente il livello. Tale delinare la trama in modo teatrale e quasi “pittorico”, del resto, sarà una delle caratteristiche delle migliori produzioni argentiane (oltre ad alcune fulciane),questo a prescindere dalla trama che – come accennato – è piuttosto semplice e lineare. Il dolore della bella Nevenka, alla fine, ed il suo compiacimento per le frustate del sadico Kurt di cui è innamorata saranno la chiave di lettura del film: costruendo lentamente i presupposti della storia, infatti, senza svelare mai troppo e soprattutto senza mai annoiare lo spettatore, facendo uscire fuori una verità che, come sempre, è stata sotto i nostri occhi dall’inizio. A Bava, poi, bastano una finestra spalancata durante una tempesta, una mano che proviene dal buio (“come un ragno”, verrà detto nel film), un corridoio vuoto o dei semplici cambi cromatici per creare paura, tensione, anche solo atmosfera. E questo si ricollega, oltre alla perizia registica, alla validità dello script e del cast, oltre che al lavoro fotografico semplicemente superlativo operato dal regista e da Ubaldo Terzano (David Hamilton) – quello che ha ispirato il nome di Ubaldo Terzani nel film di Albanesi.

    Un must assoluto per gli amanti del gotico e non solo.

  • Begotten è la fiamma che brucia l’oscurità

    Begotten è la fiamma che brucia l’oscurità

    Begotten, per quanto mi risulta, è uno dei film in assoluto più bizzarri e incomprensibili mai visti su uno schermo: mescola al proprio interno trama e messaggi criptici, che diventano chiari (forse!) solo alla fine, lasciando lo spettatore quasi tramortito nel mentre. Ce ne vuole, ad essere onesti, perchè un arthouse puro del genere sia seriamente equiparabile alle allucinazioni lynchiane o alle complesse simbologie annidate negli oscuri horror nipponici o tedeschi: ma nel frattempo il pubblico resta annichilito, e della visione (alla fine dei conti) sopravvive poco o nulla. Sta di fatto che è uno dei film più noti di Merhige, partorito nel 1991 e parte della visionaria esperienza artistica di un regista che, tra le altre cose, ha diretto alcuni dei video musicali più famosi di Marylin Manson.

    In breve: guardare “Begotten” per intero è un progetto cinematograficamente suicida, una “mission impossible” da effettuarsi con tempi e modi quasi anacronistici, rispetto alla fruibilità “usa e getta” delle serie TV e dei cortometraggi virali a cui siamo abituati. Begotten è un viaggio di sola andata, che potrebbe cambiare per sempre la vostra idea del cinema, o – più probabilmente – farvi maledire il regista Merhige a vita. Se si riesce a vederlo tutto, senza sbirciare la trama, tanto meglio, ma il senso del film rimane sproporzionatamente più piccolo rispetto al linguaggio utilizzato.

    Come una fiamma che brucia l’oscurità, la vita è carne su ossa che si agitano sulla terra“: questa enigmatica frase chiude l’introduzione dell’opera di E. Elias Merhige, regista sui generis molto debitore dell’espressionismo (suo anche il film L’ombra del vampiro). Il regista di Begotten vuole stupire, questo è certo, e presenta un film essenziale, girato in bianco e nero, senza dialoghi con lo scopo di disturbare, causare shock e, in certa misura, fare discutere. Ma attenzione: qui non si tratta degli equilibrismi simbolici azzardati da Jorg Buttgereit in Der Todesking, i quali (nel loro morboso realismo) si mantengono sia pur vagamente comprensibili.

    Il regista Elias Merhige, classe 1964, il cui cognome dovrebbe pronunciarsi come marriage (matrimonio), è noto al pubblico soprattutto per L’ombra del vampito del 2000, e per aver diretto questo unicum del genere affiancato ad alcuni video musicali di Marilyn Manson (Cryptochild e Antichrist superstar, di quello che potrebbe considerarsi il periodo d’oro della produzione di Manson). Merhige esordisce a teatro e pensa a Begotten come opera di teatro sperimentale, mettendolo in scena per un breve periodo. Ad oggi dovrebbe lavorare esclusivamente sui palchi, dopo un terzo e ultimo lungometraggio dal titolo Suspect Zero, del 2002.

    Ascolta il podcast di questa recensione

    L’ermetismo di Begotten

    Nelle notissime Memorie di un malato di nervi l’autore Daniel Paul Schreber racconta della nascita della propria psicosi, seguito di un’educazione rigida e severissima da parte del padre, nei termini di una comunicazione tra i suoi stessi nervi e Dio in persona: scrive infatti che Dio propriamente, in base all’ordine del mondo, non conosceva l’uomo vivente e nemmeno aveva bisogno di conoscerlo: bensì aveva rapporti solo con cadaveri. In Begotten le danze si aprono sulla morte di Dio, intesa in senso letterale e sostanzialmente blasfemo dato che è Dio stesso a suicidarsi. Se quella era l’espressione del singolare misticismo materialista che vive l’autore, e che lo porta ad esprimere la propria visione nevrotica del mondo come agglomerato di raggi e nervi in grado di comunicare a distanza, in Begottone c’è una sequenza altrettanto lacerante e significativa. La morte di Dio che coincide con la nascita del mondo,

    All’interno di quella che sembra una piccola baracca, una figura vestita – descritta come “Dio che si uccide” nei titoli di testa – si sventra con un rasoio a mano libera e muore dopo avergli aperto l’addome e rimosso alcuni dei suoi organi interni. Una donna, che rappresenta la Madre Terra, emerge dai suoi resti mutilati. Porta il cadavere all’eccitazione e usa il suo sperma per fecondarsi. Il tempo trascorre e la Madre Terra, visibilmente incinta, sta accanto alla bara del dio morto. Vagando in un mondo vasto e desolato, dà alla luce il Figlio della Terra, un uomo malformato e convulso. Un figlio che verrà presto abbandonato dalla madre, lasciato a se stesso.

    Di Designer unknown. The film's production company is Theatreofmaterial. – Propaganda magazine no. 18 (Spring 1992), p. 38 (via the Internet Archive). A similar logo was later used on home media releases of the film—see, for example, the logo on the 1995 VHS tape. Extracted from scan into PNG by uploader., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=93449283

    La tendenza all’ermetismo in Begotten è ancora più estremizzata, ancora più accentuata nel mostrare crudeltà e violenza, e questo senza che ci siano dialoghi nel film e senza una trama che risulti lampante. Quindi è peggio ancora, se possibile, perchè in più parti lo spettatore non capirà cosa si stia guardando, e non è detto che questo sia un bene: nessun dialogo, nessuna musica, nessun vero punto di riferimento sull’intreccio – se non strane figure mascherate ed incappucciate, che effettuano strani rituali e sembrano vivere fuori dal tempo. Probabilmente, se non altro, un espediente efficace per obbligare il pubblico a vedere  il film fino alla fine prima di emettere giudizi.

    Significato di Begotten

    Begotten: letteralmente significa generato, procreato, il che suggerisce che il film abbia a che fare con il processo della nascita (e sembra proprio essere così). Ad un secondo livello, begotten sembra un termine utilizzato a livello mistico-religioso, con frasi che richiamano al concetto di unigenito (l’unico generato, nella teologia cattolica è Gesù).

    Il suicidio di un uomo mascherato all’inizio, il parto di un umanoide tremante, sevizie e violenze di gruppo, rappresentazione di un dolore senza redenzione, senza motivazione apparente, ed ampio spazio alla rappresentazione della natura (tramonti, albe, alberi e vegetazione in generale): per il resto preferisco non approfondire la trama perchè, in fondo, è davvero essenziale e sarebbe imperdonabile banalizzarla attraverso la sintesi. Begotten non è altro che un’insostenibile carovana di orrore distillato da cineforum, reso suggestivo da determinati tipi di inquadrature ed accortezze stilistiche, ed è fondamentalmente distante da qualsiasi stile riconoscibile: certo, si puo’ parlare di sperimentazione pura, ma questa è un’arma a doppio taglio per cui lo spettatore potrà, in molti casi (e comprensibilmente) abbandonare la visione dell’opera dopo neanche 15 minuti. Prendere o lasciare, in qualche modo.

    Resta il fatto che Begotten è insostenibilmente violento ed esplicito, e va visto con molta attenzione perchè è facile disorientarsi al suo interno. Il rischio è che il tutto venga declassato ad un delirante radical-chic intellettualistico e fine a se stesso: un rischio, a dirla tutta, abbastanza fondato, che serve – più che a sminuire il gusto e le doti artistiche di Merhige – a mettere in guardia il suo pubblico (chiunque esso sia) a capire un cinema fuori dal tempo (e non solo perchè film del genere sono rari, ed emergono davvero molto raramente). Se lo spettatore regge fino alla fine, del resto, solo dai titoli di coda riuscirà a comprendere il senso dell’opera, e non è detto che l’epifania sia  soddisfacente. A molti, tanto per dare un’idea in più, sembrerà di vedere una piece teatrale del Beckett più contorta, espressa in chiave horror-concettuale.

    Al di là del tema dell’ambientalismo, secondo me, diventa complesso fornire interpretazioni ulteriori che sconfinerebbero, a mio avviso, in discorsi privi di senso. Tutto sommato l’idea è buona, e nessuno mi toglierà dalla testa che come cortometraggio sarebbe stato decisamente più efficace (e non necessariamente più appetibile, che è una cosa ben diversa). A dirla tutta, come accennavo poco fa, l’idea è tutt’altro che stupida, solo che Merhige non possiede il dono della sintesi (o vi rinuncia deliberatamente), finendo per declinare il tutto in una sorta di elitarismo intellettuale. Forse, inoltre, si dilunga troppo a spaventare, disgustare ed insistere su dettagli poco chiari, col risultato che – alla peggio – rischia solo di annoiare.

    Le scene presentano comunque una fotografia notevole, tanto che il regista ha affermato che ogni singolo minuto di girato (72 in tutto) ha richiesto ben 10 ore di lavoro in fase di creazione dell’effetto “pellicola consumata” e del tutto priva di mezzi toni. Ad ogni modo un film che gli appassionati di sperimentazioni orrorifiche e psichedeliche potrebbero gradire e, alcuni, in ogni caso una delle più importanti pellicole di tutti i tempi a livello sperimentativo.

    Begotten è noto per il suo stile visuale unico e disturbante, creando una sensazione di surreale oscurità.  “Begotten” è un film sperimentale in cui il concetto visivo prevale sulla narrazione convenzionale. La trama è aperta all’interpretazione e il film si presta a una varietà di interpretazioni filosofiche e simboliche. Data la sua natura altamente sperimentale e avanguardista, il film è stato accolto con opinioni molto varie dalla critica e dal pubblico.

    I più curiosi, a questo punto, vorranno quasi certamente cimentarsi a vederlo.

    Regia e Ideazione

    Il film è stato diretto da E. Elias Merhige, che ha anche ideato il concetto. Merhige voleva creare un’esperienza visiva e cinematografica intensa, prendendo ispirazione da influenze artistiche come l’espressionismo tedesco e il cinema surrealista.

    Sceneggiatura

    La sceneggiatura di “Begotten” è stata scritta da E. Elias Merhige. La trama è minimalista e l’attenzione è posta principalmente sull’aspetto visivo e sperimentale del film. La trama segue il ciclo della creazione, morte e rinascita attraverso una serie di scene surreali e disturbanti.

    Produzione

    La produzione del film è stata realizzata anch’essa da E. Elias Merhige. A causa del suo stile unico e sperimentale, il budget del film è stato limitato. Merhige ha utilizzato tecniche di ripresa insolite per creare l’atmosfera inquietante del film, tra cui la sovraesposizione delle immagini e la manipolazione in post-produzione.

    Cast

    Il film presenta un cast molto ridotto e praticamente semi-anonimo, dato che l’accento è posto più sulla rappresentazione simbolica che sui personaggi identificabili. Alcuni dei membri del cast includono:

    • Brian Salzberg nel ruolo di “Dio”
    • Donna Dempsey in quello della “Madre”
    • Stephen Charles Barry in quello del “Figlio della Terra”
  • Le avventure del ragazzo del palo elettrico: la fantascienza borderline da riscoprire ancora oggi

    Le avventure del ragazzo del palo elettrico: la fantascienza borderline da riscoprire ancora oggi

    Breve film di Shinya Tsukamoto del 1987 di genere fantascientifico, in cui è possibile vedere qualche richiamo embrionale al successivo Tetsuo.

    In breve: un mediometraggio artigianale e per nulla banale, anche se piuttosto lontano dalle successive punte di originalità del regista.

    “Il ragazzo del palo elettrico è quello che salva il mondo accendendo una luce alla fine di un’epoca e collegandola all’epoca successiva. E’ il tuo destino. In altre parole è un eroe che salva la storia!”

    A scuola qualcuno di noi veniva deriso dai compagni perchè era troppo riservato, perchè aveva un tic irrefrenabile, perchè era timido con le ragazze o magari semplicemente perchè portava gli occhiali. Ma per conoscere un nerd deriso dai coetanei perchè si ritrova un vero e proprio palo della luce che gli spunta dalla schiena bisogna guardare “Le avventure del ragazzo del palo elettrico“, mediometraggio favolistico del primo Tsukamoto (la seconda opera che ha girato). Due anni prima di concepire il capolavoro Tetsuo – The iron man, e lontano qualche miglio dai sentimentalismi introspettivi del più maturo Vital, la storia che ci racconta questa volta riguarda un giovanissimo protagonista, eterno incompreso dai coetanei ed oggetto di continuo scherno per via di questa sua particolare conformazione. In realtà tale forma di ennesima fusione uomo-macchina gli permetterà di diventare una sorta di “prescelto”, di viaggiare nel tempo e di lottare contro alcuni vampiri (Shinsegumi) che in un futuro apocalittico avrebbero minacciato Tokio.

    Una storia atipica, prevedibilmente surreale e – se ci fosse bisogno di dirlo – inadatta per chi non ama il regista o non apprezza le sperimentazioni: curioso poi come, al di là di un primordiale riferimento al cyberpunk, molti richiami stilistici siano piuttosto simili ad un vero e proprio manga, da cui Tsukamoto pare ereditare la morale di fondo della storia e l’andamento generale dell’intreccio. La trama, di per sè, non sarebbe neanche eccezionale se non rimanesse il sospetto, alla fine, che l’intero film non sia stato altro che un semplice sogno, dato che il protagonista si ritrova, dopo l’incredibile viaggio, esattamente nel punto di partenza e, in fondo, la macchina del tempo sembrava dall’inizio un po’ troppo scassata per funzionare davvero. Puo’ darsi che la mia interpretazione materialistica sia completamente fuori luogo, ma posso garantire che pur trattandosi di una delle opere più “facili” da vedere del regista, l’ho trovata piuttosto complessa da analizzare, mentre quest’ultima mi pare l’unica nota di reale rilievo del film.

    Un cult per gli amanti più appassionati del regista, proposto in TV occasionalmente da Rai Tre durante “Fuori orario“.