Salvatore

  • Tetsuo: The Iron Man: il cyberpunk vintage più bello che esista

    Tetsuo: The Iron Man: il cyberpunk vintage più bello che esista

    Un composto business-man provoca un incidente stradale ad uno sconosciuto; lentamente inizierà a trasformarsi in un ibrido uomo-macchina.

    In breve: fantascienza low-budget con elementi horror, trama sconnessa e richiami al primo Cronenberg. Una chicca cyberpunk originale quanto delirante, non agevole da visionare quanto cult all’ennesima potenza. Girato volutamente in bianco e nero, con stile delirante e con pochi mezzi (il regista interpretò una parte per ovviare ad esigenze di budget), è (come minimo) uno dei migliori film del genere.

    “Esiste una bipolarità: stress e amore. Amore perché la tecnologia ha permesso la crescita economica del Giappone, stress perché ha finito per opprimerci, e se vengo oppresso l’unico desiderio che provo è quello di una tabula rasa: distruggere, per creare qualcosa di migliore” (S. Tsukamoto)

    Uno dei cult più assoluti del cyberpunk cinematografico, rappresenta l’alienazione esistenziale prodotta da una tecnologia sempre più perfetta e sempre più disumana. Convulso incubo metropolitano, il cui senso è relegato alla visione completa della trilogia (Tetsuo 2 – Body Hammer del 1992 e Tetsuo 3 – The bullet man del 2009), nonchè esasperata riflessione sulla condizione umana e sul suo rapporto con la tecnologia. La trama, in questi termini, è poco più di un accessorio a malapena necessario.

    Tetsuo parte da un presupposto inquietante: come in Tokio Fist, il dolore è presentato come una parte inevitabile della vita.  Attraverso esso, infatti, si veicolano le uniche sensazioni autentiche rimaste all’Uomo (idea forse mutuata da Hellraiser), un Uomo intrappolato nelle gabbie della modernità, della vuota produttività, del senso del dovere, in una frustrazione che trova sfogo nella segreta perversione del dolore auto-inflitto.

    I non sequitur di “Tetsuo – The iron man” (e ce ne sono parecchi), tutt’altro che a portata di tutti, fanno parte di un’estetica da accettare come “patto” tra spettatore e regista, resi dignitosi da un modo letterario di fare cinema proprio perchè di natura squitamente cyberpunk. Un cinema come espressione di legame malato tra uomo e macchina, i cui massimi esponenti furono James Ballard e, almeno in parte, Philiph Dick. Il cyberpunk cinematografico, del resto, si è sviluppato in modo alquanto disorganico, e non presenta tratti riconoscibili ed esclusivi: questo non depone a vantaggio di un film del genere, e ne esaspera la scarsa visionabilità. È anche vero, comunque, che il suo sviluppo in forme più “commerciali” (penso alla saga di Matrix, e a tutto quel filone light che comprende, ad esempio, Johnny Mnemonic), non è riconducibile a questa corrente, per molti versi l’unica vera corrente cyberpunk. Una scena altamente simbolica del film, del resto – spesso dimenticata da (inutili) tentativi di delinearne la trama – si presenta allo spettatore quando il “metal fetishish” protagonista annuncia che “presto il tuo cervello diventerà di metallo“, e mostra “un mondo nuovo” al povero Tomoo (ormai interamente mutato): un campo di fiori fatto di ferro, con steli a forma di molle, a delinare un mondo “metallizzato” ovvero materialistico e per nulla umano.

    Il voler stare fuori dalle righe di Tsukamoto provoca un certo disorientamento nello spettatore medio, sfavorendo nettamente la visione di Tetsuo. Nonostante l’appeal un po’ troppo teorico, comunque, Tetsuo ha il merito di aver riconsegnato un’autentica dimensione artistica in chiave moderna al genere: e di averlo fatto in modo non banale o fine a se stesso, lanciando messaggi sovversivi quanto preoccupati sul nostro futuro. Innumerevoli i riferimenti ad altri film simili come stile e tematiche: si va dal classico Eraserhead di David Lynch (stile delle riprese, trama sconnessa) fino a Cronenberg, omaggiato all’inverosimile: ad esempio La Mosca, nella mutazione di una relazione a seguito di un cambiamento fisico (il trapano-fallico in questa sede, la mutazione in insetto di Brundle-mosca), e anche Videodrome, nell’uso dello schermo e della tecnologia come strumento di alienazione.

    Vi sono alcuni punti salienti della trama che, evidenziandoli, possono aiutare la comprensione dell’opera: anzitutto le fotografie di atleti collezionate all’interno della macchina – sembra infatti che il metal fetishish (interpretato da Tsukamoto in persona) non sia altro che un maratoneta che, probabilmente, cercava nuovi modi per incrementare le proprie prestazioni. Questo lo si deduce non tanto dalla sua corsa frenetica (all’inizio ed alla fine del film), quanto dal fatto che indossi una maglietta da corridore con una “X”, probabilmente il numero di gara dell’atleta.  L’ impiegato Tomoo Taniguchi (interpretato da Tomorowo Taguchi) e la fidanzata (interpretata da Kei Fujiwara) hanno prima investito il feticista, poi lo hanno trasportato via in macchina e, in preda al panico, lo hanno prima lasciato in un burrone e poi, per smaltire la tensione, hanno grottescamente fatto sesso – magari in preda ad una inquietante eccitazione sullo stile di Crash.

    Poco dopo la colazione, poi, vediamo Tomoo parlare al telefono con la donna, ed il fatto che i due ripetano vuotamente “Pronto?” potrebbe in qualche modo rappresentare il senso di colpa che li opprime. Alla fermata della metropolitana Tomoo incrocia una donna, contaminata da una “cosa” metallica informe (che, nonostante le dimensioni, sembra “contenere” o essere controllata a distanza dal metal fetishist) che le intacca la mano e la trasforma in una specie di androide, metà donna e metà macchina. La donna cerca di aggredire il salary-man protagonista – e questo perchè la vendetta del metal fetishish si sta concretizzando – rincorrendolo fino ai bagni della metropolitana, e poi fino a casa, dove grazie ad un cacciavite l’uomo ha la meglio, ma è comunque rimasto infetto dal metallo (l’idea del metallo come malattia è tipicamente da Cronenberg). Nella stessa ottica alienante è possibile rivisitare la scena in cui l’uomo sogna di essere sodomizzato dalla compagna, mutata anch’essa in una malefica danzatrice provvista di un tubo metallico in corrispondenza del pube. Tutto in Tetsuo è simbolo, tutto serve a creare suggestioni e a suggerire idee di una malata (quanto inevitabile) contaminazione tra metallo-demoniaco e uomo-corrotto.

    Il metallo, poi, sembra anche conferire una sorta di invulnerabilità a Tomoo, che non risente delle numerose coltellate subite dalla ragazza dopo aver tentato di aggredirla con il mostruoso (e citato a sproposito) trapano-fallico. Il delirio di effetti speciali del finale, poi, va seguito con grande attenzione, perchè mostra un’immensa e dettagliatissima ragnatela di tubi metallici, fili e circuiteria elettrica che fa meraviglia, di per sè, per una produzione low-cost. Molte sequenze sono state girate a passo uno, ovvero utilizzando un solo frame al secondo al posto dei consueti 25, creando un effetto di immagini “a scatti” usato qui in modo estremamente suggestivo.  Impressionante il modo in cui Tsukamoto, da qui, rende gli effetti speciali impressionanti e realistici: si vedano, ad esempio, i circuiti nel braccio di Tomoo.

  • Dark star: quando John Carpenter propose una parodia di 2001 Odissea nello spazio

    Dark star: quando John Carpenter propose una parodia di 2001 Odissea nello spazio

    Film di satira fantascientifica di John Carpenter: il suo primo lungometraggio prodotto in strettissima collaborazione con Dan O’ Bannon (sceneggiatore di Alien di Ridley Scott nonchè regista del cult “Il ritorno dei morti viventi“).

    In breve: weird, ultra-trash e zeppo di ingenuità (spesso volute), merita di essere visto nonostante la lentezza di fondo anche solo per gli strepitosi 15 minuti conclusivi. Meglio l’alieno pallone che viene sgonfiato da un ago, oppure la bomba che inizia a discutere di filosofia?

    Dark Star è il nome dell’astronave che sta viaggiando nello spazio alla ricerca di pianeti instabili da abbattere: il suo equipaggio è composto da cinque astronauti piuttosto atipici, affetti da paranoie e schizofrenie che – a differenza del clima claustrofobico che si instaura ne “La cosa” – vengono ritratte in maniera piuttosto demenziale. Il sergente Pinback, in particolare, si configura come un burlone che si diverte a stuzzicare i propri compagni e che possiede idee alquanto bislacche. Sua è stata, ad esempio, quella di adottare come mascotte della nave un alieno trovato chissà dove, che ha la forma in tutto e per tutto di un pallone aerostatico con due mani artigliate al posto delle zampe (il ticchettare delle sue dita è, di per sè, già di culto!).

    Carpenter se ne sbatte della eventuale forma poco credibile da Z-movie di “Dark Star”: quello che conta è divertirsi e possibilmente divertire, ad esempio mostrando una sorta di “confessionale” nel quale gli astronauti descrivono i propri disastrosi rapporti sociali con gli altri membri dell’equipaggio, lamentando di amenità come chi ha dimenticato il compleanno di  qualcuno. I problemi degli astronauti sono di natura molto goliardica: è finita la carta igienica a bordo, oppure è stata caricata a borda una piantina di un pianeta sconosciuto che “rutta e scoreggia“.

    Chi se ne importa, alla fine, se si vede benissimo che “l’alieno” altri non è se non un pallone gonfiato che, dopo aver fatto i dispetti a Pinback (rischiando di ammazzarlo, peraltro), viene letteralmente bucato (!) da una siringa contente un anestetico. Successivamente, con la collaborazione del computer di bordo (un’evolutissimo “Hal” parodiato da 2001 Odissea nello spazio) si viene a scoprire che per colpa di un guasto la bomba della nave avrebbe deciso di farsi esplodere: a questo punto il tenente Dolittle ingaggia una discussione con la macchina a suon di filosofia (!), e si fa convincere di non compiere la detonazione fino all’inaspettato (e geniale) finale.

    “Dark star” è un film avanti per la sua epoca anche se, bisogna dire ad onor del vero, possiede alcuni difetti che lo rendono un film piuttosto “grossolano”, se si vuole, e poco adatto ad essere visionato dal pubblico moderno (o dalla sua maggioranza). Da non perdere per nessun motivo la chicca finale del surf, cosa che accomunerà questo film con il successivo “Fuga da Los Angeles“.

  • Virus L’inferno dei morti viventi: gli zombi secondo Bruno Mattei

    Virus L’inferno dei morti viventi: gli zombi secondo Bruno Mattei

    Un’industria multinazionale operante in Nuova Guinea (la H.O.P.E.) produce un pericoloso prodotto nocivo, che ispirerà parte di Resident Evil e soprattutto trasformerà le persone in zombi cannibali: una parabola ecologista e di denuncia sociale condita nel solito splatter all’italiana.

    In due parole. Direi che Mattei non si tocca: si può discutere lo script fallato, l’interpretazione traballante e lo svolgimento piuttosto noioso, ma è impossibile a mio parere dire che questo film sia girato male. Anche gli inserti documentaristici “mondo” che inframezzano il film non sono montati malaccio, ma bisogna riconoscere che l’attesa per la Evelyn nuda è forse una delle poche sostanziali “molle” voyeuristiche che spingono a (ri)vedere il film oggi (molto di più, per intenderci, del gore in sè o delle discutibili zombi-walk). Un revival sull’onda di Zombi di Romero, fatto ovviamente con molti meno mezzi e capacità, che richiama addirittura i militari vestiti in modo identico e- cosa davvero incredibile – la stessa colonna sonora.

    Quando si recensisce un prodotto del genere c’è il forte rischio, a mio avviso, di lasciarsi prendere la mano. Molte recensioni rischiano così di ridursi ad uno sterile elenco di difetti, senza che il suo potenziale pubblico possa davvero rendersi conto di cosa stiamo parlando. Anzitutto, direi che dopo un’intro piuttosto accattivante (un incidente nella centrale chimica che degenera nel putiferio) siamo introdotti alla storia dei quattri miltari protagonisti: gli stessi che, qualche momento dopo, saranno inviati in Nuova Guinea sostanzialmente a fare occultare le prove del fatto che il disastro apocalittico è esclusivamente colpa dell’uomo.

    La cosa non viene fatta capire troppo chiaramente ma tant’è: uno dei principali difetti di “Virus” è esattamente la scarsa consequenzialità di moltissime sequenze. Giocando un po’ con il residuo di spirito ecologista e no-global ereditato dagli anni 70, Mattei propone un film a fortissime trame kitsch, in cui i personaggi – cosa impossibile da non notare – vengono introdotti senza contesto, bensì sono spiattellati sullo schermo come se fosse la cosa più normale di questo mondo (di morti viventi). Un problema dello script di Mattei e Fragasso, a mio avviso, che ha certamente contribuito a consolidare la fama del duo presso i trash-seeker di tutto il mondo.

    Se è vero che, ad esempio, tra i quattro militari solo il mitico Santoro (quello che passa il tempo ad insultare i morti viventi nei modi più improbabili) ha capito che bisogna sparare loro in testa, al tempo stesso i suoi colleghi non sembrano aver chiaro questa semplice cosa: sparano invece all’impazzata, cercando accuratamente di NON colpire il cranio dei mostri e questo, evidentemente, fa sfociare la pellicola ad un passo dal ridicolo involontario. Al tempo stesso è impossibile non notare che, ad esempio durante l’aggressione in ascensore, viene inquadrata una zombi che, nonostante la situazione drammatica, sembra chiaramente ridere (sic). Del resto gli occhi perennemente spalancati della bella Margie Newton non aiutano la qualità recitativa, anche se l’idea di mescolare cannibalico e zombi movie è – nonostante non sia un picco di originalità – niente male di per sè.

    Per quanto riguarda gli zombi, abbiamo visto di meglio in giro: del resto non si spiega perchè alcuni siano verdastri, altri invece un po’ più scuri (Mattei ha amato molto, a mio avviso, mostrare di continuo occhi spalancati su volti coperti di trucco nero, per cercare di spaventare il suo pubblico in modo forse un po’ ingenuo). Qualche momento splatter all’ennesima potenza, corpi dilaniati senza un perchè, gente che spara quasi sempre a casaccio, le solite fughe all’impazzata ed un finale cupissimo: senza ulteriori descrizioni, direi che “Virus” è pressappoco questo. A poco serve, a questo punto, la metafora contro la società consumistica ed industrializzata, ormai del tutto indifferente al grido di dolore del Terzo Mondo: immersa in un contesto del genere il tutto finisce per passare decisamente in secondo piano.

    Un film adatto, dunque, ai sinceri estimatori del brutto cinematografico: non sarà un capolavoro – anzi, non lo è di sicuro – ma non è neanche lo zenith del trash come suggerito da moltissimi.

  • Non si sevizia un paperino: uno dei film di Fulci che amiamo di più

    Non si sevizia un paperino: uno dei film di Fulci che amiamo di più

    Un giornalista ed una donna indagano su alcuni omicidi di ragazzini avvenuti ad Accendura, paese retrogrado dell’Italia meridionale.

    In breve: nonostante il titolo inquietante, si tratta di un film che fa molta attenzione a ciò che vuole trasmettere. Non manca il macabro, c’è un orrore “sporco”, che fa sentire sporchi – ma il messaggio sovversivo (anti-clericale) è altrettanto incisivo.

    Secondo Troy Howarth, Non si sevizia un paperino è sostanzialmente un film rabbioso (angry film): lo è essenzialmente per la sua estetica visuale che accarezza l’exploitation fin dalle prime sequenze (lo scheletro di un neonato che viene disseppellito). Ma lo è anche perchè si distacca dai canoni americani dei Jack e delle Jennifer a Londra o a New York, ambientando uno dei suoi thriller più macabri in un paesino dell’Italia meridionale, esibendo un atto registico coraggioso che avrebbe pagato soprattutto nel lungo periodo.

    Nel 1972 Lucio Fulci gira uno dei suoi migliori film, che considererà sempre uno dei suoi preferiti in assoluto: e non è poco, anche solo per il piglio iper-critico che aveva sempre accompagnato il famoso regista romano. Trattando temi scottanti per l’epoca (pedofilia, superstizione, intolleranza verso le le donne e le minoranze, ghettizzazione della maciara considerata colpevole solo perchè atipica) Fulci ambienta questo thriller atipico all’interno di un paese immaginario (Accendura), emblematico di un certo modo di pensare – e nel quale è all’opera un assassino di ragazzini. A rendere ancora più morboso il tutto, si aggiunge un’evidente movente di natura sessuale nei vari delitti: e così l’innocente paesello fatto di noia, di pettegolezzi e di vuoto diventa teatro di un macabro intreccio, grazie alla maestria del grande regista ed i suoi inconfondibili tocchi di classe.

    La polizia avvia le indagini, ogni paesano diventa un potenziale colpevole e vengono accusati ingiustamente prima lo scemo del villaggio, poi la “maciara” (Florinda Bolkan, considerata una vera e propria strega e massacrata di botte nella celebre scena con “Quei giorni insieme a te” di Ornella Vanoni a fare da chiaroscuro) e anche la donna più bella del paese, una disinibita Barbara Bouchet, contro cui il pregiudizio popolare colpisce duramente perchè cittadina e dipendente da droghe (l’attrice viene ricordata soprattutto per la celebre sequenza in cui si mostra senza veli di fronte ad un ragazzino: il prezzo da pagare per questa scena fu una denuncia, ma il giudice diede ragione al regista romano che, in realtà, aveva utilizzato un espediente per evitare che il minore vedesse l’attrice nuda: un nano come controfigura). A seguire le indagini vi è il giornalista Andrea Martelli (uno strepitoso Thomas Milian, in una interpretazione che ne mostra le doti attoriali in maniera decisiva, al netto degli stereotipi che lo associato a personaggi perlopiù da commedia), il quale indaga sugli strani fenomeni e che, sulla falsariga dei protagonisti dei film di Dario Argento, si fa letteralmente ossessionare dalla storia fin quando non riesce a venirne a capo.

    Fulci calca la mano sull’ipocrisia del piccolo paese, che si mostra superficiale, mostruoso nella propria ignoranza, forte con i deboli e debole con i forti a cominciare dalle autorità: nel frattempo i dettagli macabri e i cenni al voodoo diventano uno scenario perfetto per denunciarne i suoi pregiudizi e – in definitiva – la voglia maniacale di trovare un capro espiatorio, solo per lavarsi la coscienza. Potrebbe suonare anomala la scelta di una colonna sonora nostalgica, ma tutto sommato “leggera”, per accompagnare una delle scene più celebri e cruente del film: mentre vengono scandite le note di “Quei giorni assieme a te“, infatti, la povera “maciara” viene aggredita brutalmente a colpi di spranga e catene. Una critica simbolica alla mentalità retrograda (tipica del meriodione ma non solo, in effetti, e di cui avvertiamo vari echi ancora oggi), quelle che semplificano brutalmente i fatti per trovare un colpevole in modo populistico, senza preoccuparsi della verità. Il mondo di Non si sevizia un paperino è un mondo che ha rinunciato a conoscere le cose come stanno, ed elegge la realtà per mera votazione “a maggioranza”. L’essenziale si esprime proprio in quella musicalità romantica, unita alla nostalgia dell’amore perduto espresso dal pezzo, fa violentemente da contrappunto alla violenza visiva delle scene, e soprattutto all’immoralità dei protagonisti ed alla loro violenza machista.

    Per via delle tematiche trattate e della sostanziale critica alla chiesa cattolica, il film è stato messo in blacklist al tempo dell’uscita ed ebbe qualche problema di distribuzione (limitata in Europa, mai arrivato negli USA). Limiti che poi, ovviamente, le distribuzioni in DVD (ad esempio quella della Anchor Bay) ed i servizi di streaming hanno abbondamentemente permesso di superare.

    “Non si sevizia un paperino” è uno dei capolavori del giallo-thriller all’italiana, nel quale le interpretazioni sono tutte sopra le righe, e nel quale resta spazio per mostrare un’ottima sceneggiatura, un’ambientazione da incubo ed un’estetizzazione della violenza a voler rappresentare le brutture dei pregiudizi e dell’intolleranza verso il “diverso”. La conclusione del film, basata sull’osservazione di un pupazzo di Paperino privato della testa (da cui il titolo), mostra che a compiere i delitti era un personaggio davvero insospettabile – per via dei presupposti impostati all’inizio, ed anche qui la sceneggiatura di Fulci, Gianviti e Clerici si esalta in tutta la propria maestria.

    Opera dalla nascita e dallo sviluppo tormentatissimo, “Non si sevizia un paperino” fu uno dei pochi film in cui il regista ebbe massima libertà espressiva, nonostante l’evidente impopolarità dell’ambientazione e l’intreccio morboso obiettivamente “difficile” da proporre e girare senza problema (pare ci furono problemi con la Disney per via del titolo, che venne cambiato da “Non si sevizia Paperino” a “Non si sevizia un paperino“). Un cult dell’horror all’italiana da avere in DVD ad ogni costo, e del quale esistono almeno due versioni (la uncut del DVD andata in onda anche sul satellite, e la televisiva che è solitamente tagliata nei momenti più macabri).

    Le due versioni più popolari in DVD sono quella della Arrow e quella Medusa.

  • Quando Phillips reinventa Joker

    Quando Phillips reinventa Joker

    Gotham City: il clown e aspirante stand-up comedian Arthur Fleck viene maltrattato ed emarginato dalla società, oltre a perdere il lavoro per via di un’arma (che si è portato dietro per difendersi). Esasperato da svariate circostanze socio-psicologiche, sarà presto noto in città come il Joker.

    In breve. Notevole rilettura di Phillips, in chiave anti-eroica, di uno dei cattivi per eccellenza. Il regista ribalta l’assunto narrativo tradizionale, e mostra la storia dal punto di vista del protagonista, con una pregevole analisi sociologica annessa.

    Secondo la teoria del comico di Henri Bergson i motivi del riso sono misteriosi: per quanto l’autore abbia provato a formalizzarli in un discreto mattoncino di 138 pagine, resta il dubbio su cosa possa – o meno – suscitare il riso, e di quanto sia etico ridere, sorridere o schernire qualcosa. Il sorriso di Joker, del resto, è cristalizzato nell’immaginario collettivo da più di 70 anni (Joker nasce su carta nel 1940 grazie alla DC Comics), ma quello di Phillips è, sorprendentemente, un riso patologico: Arthur, infatti, è affetto da una forma compulsiva di risata, che non sa controllare e tende ad emarginarlo dalla società. È un malato cronico, insomma, e questo è probabilmente il primo punto da tenere a mente nella sua controversa rappresentazione.

    Il Joker di Todd Phillips focalizza la propria attenzione su un personaggio ben noto al pubblico (operazione che ricorda per certi versi il saggio su Leatherface, ad esempio) e ne esplora ogni risvolto;  lo fa soprattitto evitando qualsiasi meccanismo di identificazione del pubblico, come sarebbe stato lecito aspettarsi. Se è cosa molto comune simpatizzare per tanti anti-eroi o villain del cinema (ad esempio per quelli di Quentin Tarantino), nel caso di Phillips è impossibile farlo. Un secondo aspetto sostanziale della sostanza del film, insomma, che evita sia l’associazione con il consueto monolitico cine-comics (che parte del pubblico potrebbe, in teoria, pensare di vedere, e da cui questo Joker prende invece le distanze) sia il solito meccanismo di identificazione nel protagonista, che sarebbe tipico del cinema più “epico” e accattivante – favorendo così lo straniamento totale del pubblico. Ed è davvero notevole (oltre che un merito gigantesco di Phillips, a mio avviso) che un film che brutalizza così il rapporto tra opera e pubblico venga strombazzato (peraltro quasi sempre in positivo) dalla stampa.

    Se l’intero Joker è focalizzato sul trasmettere al pubblico perché (e per quali ragioni) Joker sia diventato un crudele e beffardo villain, prima ancora che un antagonista e nemesi di Batman (citato solo di striscio, almeno all’apparenza, giusto per non stravolgere completamente la narrazione), alla fine si tratta di un personaggio come molti ne potrebbero davvero esistere: solo, emarginato, incompreso, e secondo alcune analisi associabile ad un incel (neologismo del web per indicare gli involuntary celibate, ovvero i single involontari). Per quanto gli stereotipi e le classificazioni delle persone siano spesso spregevoli, soprattutto se la cosa nasce su internet, questa chiave di lettura è a mio avviso interessante, fermo restando che questo Joker è un film politico (senza essere anti-politico, il che non è poco) ed incentrato su uno dei migliori anti-eroi mai visti negli ultimi anni su uno schermo, in una sarcastica (quanto cupa) satira contro i mass-media, ed il cronico voyeurismo che li caratterizzerebbe.

    Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini. […] Lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione esistente. […] Esso è l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione, e il suo conseguente. (G. Debord)

    Il focus sulla frustrazione sessuale degli incel, incapaci loro malgrado di trovare un partner, e rifiutati ripetutamente per i motivi più diversi, sembra essere ben figurata dal Joker di Phillips – per quanto i riferimenti al sesso ed alla solitudine del personaggio sembrino riguardare più che altro la società dello spettacolo. Non che il personaggio sia arrabbiato, banalmente, solo perchè non faccia sesso – chi la pensa così, per inciso, non fa parte del pubblico a cui è rivolto il film – ma la sua corrispondenza parziale con la figura dell’incel, il “mostro sbattuto in prima pagina su social network come Reddit, è abbastanza palese. Lo dimostra il suo compiacersi di uno stato che non ama, il suo auto-commiserarsi che non è fine a se stesso, ma possiede un’evoluzione prevedibile quanto shockante per lo spettatore (la scena finale nello studio televisivo). L’accusa di romanticizzare la cultura incel e compiacersi di ciò che mostra, del resto, sembra in effetti infondata, frutto di analisi superficiali ed accostamenti mentula canis che minano alla base stessa del cinema di genere: esplicitare la violenza, per alcuni, sarebbe riprovevole – per via di una potenziale emulazione in negativo del pubblico, del quale evidentemente non si ha troppa stima. Ma se funzionasse davvero così, a ben vedere, tutti i film sull’emarginazione e la solitudine sarebbero nel libro nero dell’Inquisizione Truzza da decenni: e nessuno avrebbe mai visto Nekromantik (che estremizza la mancanza d’amore nella necrofilia) o magari Izo (che la contestualizza in una società da sempre marcia e, anche lì, pregna di un mix perverso tra amore, sesso e violenza). In una sequenza di uno dei capolavori di Miike, del resto, si afferma nichilisticamente: “Cos’è l’amore? È una parola. Una parola non è necessariamente associabile alla fondamentale natura del suo significato.”). Gli stessi incel del resto, secondo certa vulgata fascistoide, dovrebbero non solo redimersi e omologarsi, ma addirittura sentirsi responsabili del proprio status, e farsi appellare come sfigati cronici (ed è quantomeno bizzarro che questa osservazione sia intesa da alcuni come una rassicurante “soluzione” al problema).

    Del resto se questo Joker è socialmente incazzato con il mondo, la sua rabbia dipende da molti altri fattori (infatti va da una psicologa) ed è progressiva: la vediamo sorgere e crescere a suon di soprusi subiti. È, insomma, generata dalla società, dalla famiglia e dalle circostanze: la madre solo apparentemente mite, la vicina di casa da cui è attratto senza volerlo riconoscere, il governo che taglia i fondi per la sua assistenza sociale, il lavoro che stenta, il sogno di fare il comico che si scontra con il gelo del pubblico (e con l’unica eccezione di Sophie). Del resto, il paradosso più feroce del film risiede proprio nell’ambizione del personaggio, sincera quanto sprovveduta, di voler far ridere, rendere felici le persone, mentre prova profonda frustrazione nel non riuscire a farlo.

    Il tutto prosegue in un delirio di violenza indotta, con ulteriori soprusi del proprio capo – passando per i bulletti che lo malmenano e naturalmente i giovani rampanti di Wall Street che lo aggrediscono in metro (e che, guarda caso, poco prima di farlo, parlavano di donne, compiacendosi del proprio essere predatori). Certo quello di Joker non è un meccanismo narrativo nuovo o innovativo, e ai più smaliziati potrà quasi sembrare scontato: ma non c’è bisogno di scomodare Taxi Driver per capirlo, per intenderci, per quanto il regista sia stato il primo (forse un po’ furbescamente) a suggerirlo. Il capolavoro di Scorsese, in effetti, c’entra con Joker soltanto per sommi capi, mentre questo film mostra più che altro derivazioni ed influenze – a livello di regia e ambientazione – che citano, senza scomodare ulteriori paragoni fuori bersaglio (per non dire peggio), soprattutto Requiem for a dream: vedi la dipendenza cronica di madre e figlio dalla TV, e la rispettiva ambizione di parteciparvi come protagonisti, destinata anche lì a collassare in una spirale di morte e distruzione.

    Con una differenza fondamentale: a differenza del finale devastante di Aronofsky, Joker mostra che è possibile (forse) ribellarsi alla propria condizione, reagire e sentirsi liberi, ma che l’unico modo per farlo sia quello di ricorrere alla violenza. Joker, in altri termini, non suggerisce banalmente alla “ggente” di incazzarsi a caso, reagire di pancia o vendicarsi su chi capita (come la versione cinematografica di V per vendetta aveva un po’ populisticamente fatto, ad esempio, e cosa che l’omonimo fumetto, per inciso, si guarda bene dal fare. Sarebbe anche il caso di citare, sempre di Alan Moore, Batman: The Killing Joke, che potrebbe avere punti di contatto con questo film a vari livelli). Joker, insomma, ricorre ad una violenza che è catartica, liberatrice, simbolo di un cambiamento radicale che è necessario imporsi, probabilmente sviluppando una giusta dose di libertà e cinismo. La prova della fondatezza di questa considerazione arriva da una sequenza importante: subito dopo aver ucciso i tre ragazzi in metropolitana, vediamo Joker entrare in casa della vicina e baciarla all’improvviso. La sua liberazione è a quel punto ufficiale, in un certo senso, e da lì partirà il processo che finirà per renderlo addirittura protagonista di uno show televisivo, in bilico tra un ego mite e mansueto ed uno crudele e spietato. Non sappiamo se quel bacio sia realmente accaduto o sia soltanto un sogno o un’allucinazione (tantissimo del film vive su questa ambigua doppiezza), ma il messaggio sottinteso è la presa di consapevolezza di un personaggio che ricorre, nei fatti, alla famigerata ultra-violenza (avrebbe abbastanza senso citare Arancia Meccanica, a questo punto) per uscire dal proprio disagio: questo in senso sia letterale che, direi soprattutto, figurato.

    Il tutto nonostante le ambiguità del finale, che farebbero pensare ad una gigantesca allucinazione di un protagonista che era, in realtà fin dall’inizio, semplicemente un folle in un manicomio: un twist che, se fosse confermato, renderebbe lecito accostare le conclusioni a quelle de Il gabinetto del dottor Caligari.  Una storia, in definitiva, molto semplice da raccontare, quanto necessaria a rendere un messaggio così complesso del tutto totalizzante e, almeno in parte, comprensibile al pubblico mainstream.

    E questo, da cinefili incalliti o meno, non potrà che farci piacere.