Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • Nel cuore dell’oscurità: l’incubo di Amityville Possession (1982)

    Nel cuore dell’oscurità: l’incubo di Amityville Possession (1982)

    Informazioni sul film

    Ecco alcune curiosità sul film “Amityville Possession” del 1982, diretto da Damiano Damiani:

    1. “Amityville Possession” è il terzo capitolo della serie di film basati sui tragici eventi che si sono verificati nella casa di Amityville, in Long Island, New York. È un sequel diretto del film del 1979 intitolato “Amityville Horror”.
    2. Il film è stato diretto da Damiano Damiani, un regista italiano noto per il suo lavoro nel genere thriller e horror. Damiani ha contribuito a creare un’atmosfera inquietante e angosciante nel film.
    3. “Amityville Possession” è stato prodotto dalla Dino De Laurentiis Cinematografica, una rinomata casa di produzione italiana che ha realizzato numerosi film di successo nel corso degli anni.
    4. Il cast del film includeva attori come James Olson, Burt Young, Rutanya Alda e Jack Magner, che hanno offerto interpretazioni convincenti dei personaggi coinvolti negli eventi soprannaturali della storia.
    5. Una delle curiosità più interessanti riguarda la casa di Amityville utilizzata nel film. Per rispettare la privacy dei proprietari della vera casa di Amityville, la produzione ha costruito una replica identica della casa per le riprese.
    6. “Amityville Possession” ha continuato ad alimentare l’interesse per la storia di Amityville, offrendo una visione unica degli eventi e dei fenomeni paranormali che si dice siano accaduti nella casa infestata.

    Amityville Possession (Amityville II: The Possession) è un film horror del 1982 diretto da Damiano Damiani, che funge da prequel al primo film, Amityville Horror, uscito nel 1979. La regia di Damiani ricevette particolari apprezzamenti soprattutto per la sequenza particolare in soggettiva del demonio stesso, durante il momento in cui si impossessa di Sonny. Per il ruolo di Anthony, il padre di Sonny, fu scelto l’attore italo-americano Burt Young, all’apice della sua carriera grazie al ruolo del cognato del pugile Rocky.

    Trama Amityville II: the possession

    La trama di “Amityville Possession” (Amityville II: The Possession), diretto da Damiano Damiani, ruota attorno alla storia della famiglia Montelli, una famiglia italo-americana che si trasferisce nella casa di 112 Ocean Avenue ad Amityville, Long Island. Dopo aver acquistato la casa, i Montelli iniziano a vivere una serie di eventi inquietanti e inspiegabili. La madre, Dolores, si rende conto per prima che qualcosa di sinistro si annida nella casa e cerca l’aiuto del sacerdote padre Adamsky. Tuttavia, prima che possa intervenire, il figlio maggiore, Sonny, viene posseduto da una presenza demoniaca. Il demone che ha preso possesso di Sonny inizia a influenzare il suo comportamento, portandolo ad avere un rapporto incestuoso con la sua stessa sorella. La situazione si intensifica ulteriormente quando Sonny impugna un fucile e massacra brutalmente il resto della sua famiglia.

    Sonny viene arrestato, ma a causa delle circostanze paranormali che circondano l’accaduto, il prete padre Adamsky decide di liberarlo dalla prigione con l’intento di esorcizzarlo. Tuttavia, durante il tentativo di portarlo in chiesa per l’esorcismo, Sonny scappa e torna nella casa infestata. Padre Adamsky lo segue e, in un disperato sforzo finale, riesce a liberare Sonny dal controllo del demone. Sonny viene portato via dalla polizia, mentre padre Adamsky, esausto e provato, si ritrova posseduto dal demone che prima lo aveva dominato.

    Di cosa parla il film

    Il film “Amityville Possession” esplora l’oscura presenza demoniaca che ha afflitto la famiglia Montelli e mette in luce gli sforzi di un prete per affrontare il male sovrannaturale. La trama si basa su eventi ispirati al vero caso di cronaca della famiglia DeFeo del 1974, che ha sconvolto la comunità di Amityville.

    Quali sono i tragici fatti di cronaca su cui si basa il film?

    La storia di Amityville è una vicenda controversa che ha inizio il 13 novembre 1974, quando a Long Island, New York, sei membri della famiglia DeFeo vengono trovati brutalmente assassinati nella loro casa di Amityville. Ronald “Butch” DeFeo Jr., il figlio maggiore, viene successivamente arrestato e condannato per i delitti. Sostiene di aver commesso gli omicidi sotto l’influenza di voci demoniache che lo avrebbero spinto a compiere l’atroce gesto.

    Un anno dopo, nel dicembre 1975, George e Kathy Lutz acquistano la casa di Amityville, nonostante la sua oscura reputazione legata agli omicidi precedenti. La coppia, insieme ai loro tre figli, si trasferisce nella casa sperando di iniziare una nuova vita. Tuttavia, affermano di essere stati testimoni di fenomeni paranormali disturbanti e inquietanti sin dal loro arrivo. I Lutz raccontano di strani rumori, presenze sinistre, malfunzionamenti elettrici, porte che si aprono e si chiudono da sole, e persino di aver visto figure spettrali. Affermano anche di essere stati soggetti a un aumento di tensione e conflitti familiari, presumibilmente causati dall’influenza maligna che sarebbe presente nella casa. Dopo soli 28 giorni, la famiglia Lutz decide di abbandonare la casa, affermando di non poter più sopportare l’oppressione e la paura costante. Questo evento segna l’inizio di un’ampia copertura mediatica e di un’attenzione internazionale verso la storia di Amityville.

    La vicenda diventa un fenomeno culturale e suscita un ampio dibattito sulla veridicità degli eventi riportati dalla famiglia Lutz. Ci sono coloro che credono fermamente alla presenza di forze paranormali nella casa di Amityville, mentre altri ritengono che sia stata una semplice invenzione o esagerazione dei Lutz per guadagnare notorietà e sfruttare il successo dei libri e dei film basati sulla loro storia. Dal 1977, la storia di Amityville è stata oggetto di numerosi libri, documentari e adattamenti cinematografici. Le opere hanno spesso narrato la vicenda in modo romanzato, aggiungendo elementi di horror e suspense per amplificare l’atmosfera spaventosa. Nonostante le controversie e il dibattito in corso sulla veridicità dei fatti, la storia di Amityville continua a essere un’icona del genere horror e un argomento affascinante per coloro che sono interessati all’occulto e al paranormale. Resta un mistero irrisolto, lasciando spazio a diverse interpretazioni e opinioni.

  • Perchè Tokyo Fist non è il miglior film di Tsukamoto

    Perchè Tokyo Fist non è il miglior film di Tsukamoto

    Tokio Fist è la trasfigurazione in chiave realistica di buona parte delle tematiche affrontate da Tetsuo: alienazione, incomprensione umana e sopraffazione fisica del forte sul debole. Le macchine sono qui sostituite dalla forza del pugilato, che diventa metafora di superamento e schiacciamento dell’altro, oltre che di smascheramento delle sue debolezze. I

    l film piacque molto all’epoca dell’uscita per l’efficace rappresentazione di tre caratteri umani, ma probabilmente risulta sopravvalutato e troppo “ordinario” rispetto al resto della filmografia di Tsukamoto.

    Un girantesco ring nel quale i tre protagonisti continuano a proporre scontri diretti e a darsele di santa ragione, senza tregua: è forse una metafora un po’ scontata per un film che ha come argomento collaterale la boxe. Tsuda è un brillante agente assicurativo di Tokyo, vive un rapporto difficile ed pieno di incomprensioni con la mite fidanzata Hizuru. La vita nella metropoli lo assorbe completamente, e lo ha trasformato in una sorta di succube alienato, che conosce l’efficenza ma non le basilari regole di sopravvivenza. Un giorno intravede a un incontro di pugilato Takuji, un vecchio compagno del liceo (quasi certamente un bullo), ormai rude pugile professionista che è l’esatto contrario di lui: sicuro di sè, forte fisicamente, prepotente nei confronti dell’altro. I rapporti tra i due diventano difficili non appena Takuji inizia ad intendersela con la fidanzata dell’amico, creando un turbolento triangolo di emozioni.

    Il “pugno di Tokio” (traduzione letterale del titolo) colpisce in faccia lo spettatore, toccandolo da subito nello stereotipato orgoglio maschile colpito mortalmente da un rivale in amore più forte. Gli scontri fisici tra i vari personaggi sono estremizzati, l’atteggiamento guerriero del personaggio protagonista – regolarmente riempito di botte, nonostante la sua apparente convinzione e “carica” iniziale – tende a degenerare nel parossismo: e se la cosa farà un po’ ridere lo spettatore meno abituato e più malizioso, si pensi che è stato fatto allo scopo di spazzare via la plastificata apparenza che è costretto ad indossare qualsiasi “colletto bianco”. Insomma i temi del film sono i soliti di Tsukamoto, sempre magistrale a rappresentare la conflittualità umana, l’alienazione metropolitana ed il suo gusto per lo sciacallaggio facile.

    Come sempre verso questa categoria di lavoratori “disumanizzati” Tsukamoto si pone non tanto come liberatore, quanto come possibile lenitore del loro dolore interno. E’ evidente che il male principale di Tsuda, che lo rende incapace di rapportarsi nel migliore dei modi con la propria compagna, è proprio la divisa che è costretto ad indossare, che lo rende pacifico, inerme ed incapace di reagire. E’ questo, probabilmente, diventa uno dei mali del millennio.

    Per il fatto che la storia sia inserita nella normalità di un contesto quotidiano, e perchè i tre personaggi sono tre “uno qualunque“, probabilmente, Tokio fist presenta a mio parere delle debolezze: per la sua ostentata ordinarietà, per la sua leggermente pretenziosa pretesa di scaricare la tensione dello spettatore in liberatori scontri all’arma bianca (e senza scomodare troppo la nostalgia ci sono altri film orientali che riuscirono a farlo in modo più credibile).

  • Il giorno della bestia: la satira inconfondibile di De La Iglesìa

    Il giorno della bestia: la satira inconfondibile di De La Iglesìa

    Padre Ángel Berriartúa, insegnante di teologia, scopre l’esistenza di un criptogramma all’interno dell’Apocalisse di Giovanni, relativo alla data esatta della fine del mondo (25 dicembre 1995); per entrare rapidamente in contatto con il Male, contatta il commesso di un negozio di dischi heavy metal ed un improbabile mago…

    In breve. L’originalità non manca e la regia è di gran classe, per una storia frammista di elementi satirici e (solo vagamente) horror. Piacerà a chi apprezza il regista, e le commistioni di generi: da riscoprire ancora oggi.

    Considerato uno dei migliori film di Álex de la Iglesia, El dia de la bestia (Il giorno della bestia, un titolo che volutamente evoca film sulla scia di The house of the devil, ma poi si rivela tutt’altro) è uscito in Italia con l’improbabile tagline “la prima commedia satanica”, una scelta probabilmente poco azzeccata che ha rischiato di metterne i ombra i meriti (almeno in parte contenutistici, ed in fatto di originalità) e di farlo passare per quello che non è (un b-movie come tanti).  Si racconta delle vicende, in chiave assurda e spesso visibilmente satirica, di un prete che cerca ad ogni costo (e goffamente) di fare cattive azioni al fine di entrare in contatto col maligno: ha infatti scoperto che l’Apocalisse è imminente. Nelle intenzioni del regista, “Il giorno della bestia” nasce dall’immagine di un uomo colto quanto semplice ed indifeso costretto, per necessità o vocazione, a compiere gesti orribili per redimersi, entrando a contatto con quel mondo che dal chiuso delle sue stanze in precedenza non poteva conoscere.

    La chiave di lettura del film – accenni di horror ed un registro quasi esclusivamente grottesco, a cominciare dai componenti della famiglia del commesso – è in qualche modo duplice: da un lato, la storia di eroi improbabili (il prete ed il commesso del negozio di dischi heavy metal, in primis) che viene sfruttata ad ogni occasione per svelare gli altarini (maghi truffatori e conferenzieri ciarlatani, in ottica scettico-satirica). Dall’altro, pero’, esiste una componente ambigua che spinge i protagonisti – oltre al pubblico stesso – a credere realmente alla storia della venuta dell’Anticristo sulla terra, e non alle allucinazioni di due personaggi sotto LSD (che sembrerebbe la spiegazione, se vogliamo, realistica della storia, di per sè piuttosto assurda). Andando alla ricerca nientemeno che dell’Anticristo sulla Terra, i nostri eroi – tra cui il mago truffaldino che decide di aggregarsi alla missione in un secondo momento – arriveranno a sgominare una banda di criminali che effettua spedizioni punitive per le strade di Madrid.

    Le intenzioni di de la Iglesia sono chiaramente satiriche, e non perde occasione per dimostrarlo – durante la ricerca dell’Anticristo, “il cielo che ti invia il segnale che stavi aspettando“, per il prete, è soltanto la pubblicità di una TV satellitare. Al tempo stesso il regista, assolutamente padrone dei propri mezzi e qui al suo secondo film, mostra una grande conoscenza del cinema horror e non perde occasione per citare cult di ogni tipo, sfruttando addirittura le dinamiche del genere satanico (The Omen) declinandolo in senso quasi scanzonato, a tratti, e lasciando un’ambiguità di fondo sul senso reale della storia e sul vero nemico che i protagonisti stanno combattendo. Il contesto finisce per prestarsi ad una esplicita riflessione contro i meccanismi cinici della TV pubblica, sempre pronta a prestare ascolto al sensazionalismo e riportando spesso e volentieri notizie tanto false quanto clamorose (in questo De La Iglesia appare quasi profetico rispetto a certa TV spazzatura in ambito pseudo-sovrannaturale che abbiamo conosciuto in questi anni anche in Italia).

    Non mancano dettagli spassosi come il primo incontro tra prete e metallaro alla ricerca delle tre band Napalm Dez, Iron Meiden (sic) e naturalmente Hace de Cè (AC/DC). Da riscoprire con una certa curiosità, per chi non l’avesse ancora fatto.

  • Psycho di Hitchcock è il padre putativo di tutti gli slasher

    Psycho di Hitchcock è il padre putativo di tutti gli slasher

    Walt Disney, durante i primi anni 60, rifiutò di consentire a Sir Alfred Hitchcock di girare a Disneyland, perché a suo dire il regista aveva girato “quel film disgustoso, ‘Psycho‘”.

    “Psycho” è un celebre film thriller psicologico del 1960 diretto da Alfred Hitchcock. Ecco alcune informazioni chiave sul film:

    Cast Principale:

    • Anthony Perkins nel ruolo di Norman Bates
    • Janet Leigh nel ruolo di Marion Crane
    • Vera Miles nel ruolo di Lila Crane
    • John Gavin nel ruolo di Sam Loomis
    • Martin Balsam nel ruolo del detective Arbogast

    Storia: La storia ruota attorno a Marion Crane, una segretaria che ruba una grossa somma di denaro e decide di fuggire dalla città. Durante il suo viaggio, si ferma al Bates Motel, gestito da Norman Bates, un uomo con una relazione misteriosa con sua madre. Ciò che segue è un intreccio di suspense, omicidi e psicologia distorta.

    Regia: “Psycho” è stato diretto da Alfred Hitchcock, uno dei più grandi maestri del cinema thriller e suspense. Hitchcock è noto per la sua maestria nella creazione di tensione e atmosfera nel suo lavoro, e “Psycho” non fa eccezione.

    Produzione: Il film è stato prodotto dalla Paramount Pictures ed è stato realizzato con un budget relativamente limitato. Hitchcock ha scelto di girare in bianco e nero, il che ha contribuito a creare un’atmosfera tesa e angosciante.

    Stile: Il film è noto per il suo stile visivo unico e l’uso innovativo della musica, creata da Bernard Herrmann. La colonna sonora è stata cruciale per creare un’atmosfera angosciante e incalzante nel corso del film.

    Sinossi: Marion Crane decide di rubare una grande somma di denaro e fuggire dalla città. Durante il suo viaggio, si ferma al Bates Motel, dove conosce Norman Bates, il misterioso gestore dell’albergo. La storia prende una svolta oscura quando Marion scompare e un investigatore privato viene incaricato di trovarla.

    Curiosità:

    • Il film è basato sul romanzo omonimo di Robert Bloch, che a sua volta si ispirò ai crimini reali di Ed Gein, un serial killer noto per le sue abitudini macabre.
    • La scena della doccia, in cui Marion viene uccisa, è una delle sequenze più iconiche nella storia del cinema ed è stata girata con grande attenzione ai dettagli e montata in modo magistrale.
    • Hitchcock fece in modo che il pubblico non entrasse nella sala cinematografica una volta iniziato il film, una mossa insolita all’epoca, per preservare l’effetto sorpresa della trama.

    “Psycho” è un film che ha rivoluzionato il cinema thriller e ha influenzato generazioni di registi. La sua combinazione di suspense, psicologia e suspense visiva lo rende un classico immortale.

    Recensione di Psycho di A. Hitchcock (1960)

    L’esperienza di vedere Psycho oggi, a più di sessant’anni dalla sua uscita, rientra in quelle necessità cinefile inderogabili che non si possono raccontare senza ambiguità: per quanto sia stato scritto in lungo e in largo su questo film, del resto, rivederlo fa sempre “bene alla salute” e ci ricorda qualcosa di molto importante (che nessuno inventa mai nulla, o che il gioco dei ricicli del cinema di genere parte probabilmente in quegli anni). Una forma di ispirazione che è tutt’altro che formale o didascalica, bensì perfettamente concreta: Psycho riesce nello scopo di incollare lo spettatore alla poltrona, ancora oggi e nonostante tutti (si spera) conoscano il trick nascosto nelle sue maglie narrative (la figura della madre del protagonista).

    Sir Alfred Hitchcock desiderava così tanto realizzare questo film che ha rinviato il suo stipendio standard di $ 250.000 invece del 60% dell’incasso del film. La Paramount Pictures, credendo che questo film sarebbe andato male al botteghino, fu d’accordo. I suoi guadagni personali da questo film hanno superato i $ 15 milioni. Adeguato all’inflazione, tale importo sarebbe di $ 131 milioni nel 2020 dollari.

    Secondo l’analisi proposta da Slavoj Zizek in Guida perversa il cinema, i tre piani della casa in cui è ambientato il film corrispondono a tre, corrispondenti, livelli psicoanalitici: al piano terra troviamo la realtà, ciò che appare e ciò che sembra a prima vista. L’es o istinto freudiano si troverà nel piano inferiore mentre il superio sarà localizzato a quello superiore.

    La questione della localizzazione dei luoghi in termini di stato d’animo e potenziale mood dei personaggi è fondamentale per comprendere la più effettiva chiave di lettura di Psycho: che (un po’ come ha fatto Hellraiser per il genere horror) è un thriller seminale, che ha finito per condizionare in un modo e nell’altro generazioni di cineasti e di cinefili, oltre a porre la questione della paura dell’ignoto su un piano non più alieno (come ne L’invasione degli ultracorpi, ad esempio) bensì su uno perfettamente umano, basato sulla quotidianità del vissuto. Con un finale che più imprevedibile e devastante non si potrebbe, tanto che quando il cast e la troupe hanno iniziato a lavorare il primo giorno, hanno dovuto alzare la mano destra e promettere di non divulgare una sola parola della storia. Hitchcock ha nascosto al cast la parte finale della sceneggiatura fino a quando non ha avuto effettivo bisogno di girarla. Di più: ha acquistato i diritti del romanzo in modo anonimo da Robert Bloch per  $ 9.000, e pare abbia acquistato quante più copie possibile del romanzo, per mantenere massimamente segreto il finale.

    Il film è stato in gran parte realizzato perché Sir Alfred Hitchcock era stufo dei film ad alto budget e costellati di star che aveva recentemente realizzato e voleva sperimentare lo stile più efficiente e più scarno del cinema televisivo. Alla fine ha utilizzato una troupe composta principalmente da veterani della televisione e attori e attrici assunti meno noti di quelli che usava di solito. In particolare, La donna che visse due volte (1958), che in seguito fu acclamato come un capolavoro, fu considerato un fallimento eccessivo e sovradimensionato. E mentre Intrigo internazionale (1959) è stato salutato come un capolavoro ed è stato un successo, è stata una produzione enorme, ed è stata anche molto lunga e costosa. Quindi Hitchcock ha deciso di ridimensionare le cose per il suo prossimo film. Inoltre, nello stesso periodo, il suo rivale, il regista di film noir e new wave francese Henri-Georges Clouzot, colpì il bersaglio e creò scalpore al botteghino con il classico I diabolici (1955). Tutti i critici hanno detto che Clouzot aveva superato Hithcock Hitchcock, e questo ha presentato un confronto che Hitchcock non poteva rifiutare. Diabolique era un film indipendente su piccola scala, grintoso, in bianco e nero, quindi Hitchcock ha deciso di superare Diabolique Diabolique e ha diretto il suo progetto in bianco e nero su piccola scala e grintoso: quello era Psycho.

    Difficile trovare un altro thriller che sia riuscito nell’intento di intrigare e terrorizzare in modo così netto, senza fronzoli ed elegante.  Tanto è stato il fascino che ha esercitato questo film che si tratta di uno dei pochi casi in cui è stato proposto un remake shot-to-shot, fatto esattamente sulla sequenza voluta da Hitchcock e diretto nel 1998 da Gus Van Sant. Un esperimento quasi unico nel suo genere che varrebbe tutto sommato la pena di rivedere, per quanto l’originale rimanga per ovvie e scontatissime ragioni una pietra miliare del suo genere – anche se forse non il miglior film in assoluto di Alfred Hitckcock, nato nel 1899 e morto nel 1980, con la bellezza di 56 lungometraggi all’attivo (senza contare i corti ed i lavori per la TV).

    Seguono curiosità sparse sul film.

    Pare che Sir Alfred Hitchcock fosse così soddisfatto della colonna sonora di Bernard Herrmann che ha raddoppiato lo stipendio del compositore pagandolo 34.501 dollari dell’epoca. Hitchcock in seguito arrivò a sostenere  che il 33 percento dell’effetto di Psycho fosse dovuto alla musica.

    Nella scena iniziale, Marion Crane indossa un reggiseno bianco perché Sir Alfred Hitchcock voleva mostrarla come “angelica”. Dopo che ha preso i soldi, la scena seguente la vede in un reggiseno nero perché ora ha fatto qualcosa di sbagliato e malvagio. Allo stesso modo, prima di rubare i soldi, ha una borsa bianca. Dopo che ha rubato i soldi, la sua borsa è nera.

    Anthony Perkins e Janet Leigh hanno affermato che non gli importava di essere stereotipati per sempre a causa della loro partecipazione a questo film. Hanno detto nelle interviste che avrebbero preferito essere stereotipati ed essere ricordati per sempre per questo film classico piuttosto che non essere ricordati affatto.

    Il regista Sir Alfred Hitchcock originariamente aveva immaginato la sequenza della doccia come completamente silenziosa, ma Bernard Herrmann è andato avanti e l’ha segnata comunque, e dopo averla ascoltata, Hitchcock ha immediatamente cambiato idea.

    Quando uscì al  cinema, Hitchcock diede disposizione che ogni gestore fosse messo a conoscenza del fatto che era vietato, per gli spettatori, entrare dopo l’inizio del film. A rischio della vita del gestore, diceva ironicamente l’avviso distribuito all’epoca. Per garantire che le persone fossero nei cinema all’inizio di questo film, aveva fornito un disco da riprodurre nell’atrio dei cinema. L’album conteneva musica di sottofondo, interrotta periodicamente da una voce che diceva “Dieci minuti all’inizio di Psycho”, “Cinque minuti all’inizio di Psycho” e così via.

    Sebbene Janet Leigh non sia stata infastidita dalle riprese della famosa scena della doccia (anche se ha usato un controfigura), vederla nel film l’ha profondamente commossa. In seguito ha osservato che le ha fatto capire quanto fosse vulnerabile, a suo stesso dire, una donna sotto la doccia. Fino alla fine della sua vita, ha sempre preferito il bagno, da quello che sappiamo.

    Dopo l’uscita di questo film, Sir Alfred Hitchcock ha ricevuto una lettera arrabbiata dal padre di una ragazza che si rifiutava di fare il bagno dopo aver visto I diabolici (1955), e ora si rifiutava di fare la doccia dopo aver visto questo film. Hitchcock ha rispedito un biglietto dicendo semplicemente: “Mandala in tintoria“.

    La Paramount Pictures ha dato a Sir Alfred Hitchcock un budget molto ridotto con cui lavorare, a causa del loro disgusto per il materiale originale. Hanno anche rimandato la maggior parte degli incassi al botteghino a Hitchcock, pensando che il film sarebbe fallito. Non è andata esattamente come si pensava.

    Quando Norman si rende conto per la prima volta che c’è stato un omicidio, grida: “Madre! Oh Dio! Dio! Sangue! Sangue!” Sir Alfred Hitchcock ha rimosso le frequenze dei bassi dalla voce di Anthony Perkins per farlo sembrare più un adolescente spaventato.

    Uno dei motivi per cui Sir Alfred Hitchcock ha girato il film in bianco e nero era che pensava che sarebbe stato a colori troppo cruento. Ma il motivo principale era che voleva realizzare il film nel modo più economico possibile (meno di un milione di dollari). Si chiedeva anche se così tanti film “B” in bianco e nero brutti, fatti a buon mercato andassero così bene al botteghino, cosa sarebbe successo se fosse stato realizzato un film in bianco e nero davvero buono, fatto a buon mercato.

    Il romanzo da cui è tratto questo film è ispirato alla storia vera di Ed Gein, un serial killer a cui si ispirano anche Deranged – Il folle (1974), Non aprite quella porta (1974) e Il silenzio degli innocenti (1991 ).

    Come finisce Psycho (avviso spoiler)

    Alla fine del film, scopriamo che Norman Bates è il vero assassino di Marion Crane. Poteva sembrare ovvio, per certi versi, ma c’è una svolta sorprendente: Norman soffre di disturbo dell’identità e presenta una personalità dissociata, che crede letteralmente di essere sua madre. La madre di Norman è morta da anni, ma egli ne ha preservato il cadavere e vive il cadavere in casa.

    L’omicidio di Marion è stato commesso da Norman mentre era nella personalità della madre. Questo spiega perché non ricorda nulla degli omicidi. Il film si conclude con Norman rinchiuso in un istituto psichiatrico, mentre una voce fuori campo riflette sulla sua condizione psicologica e sugli orrori che ha commesso.

  • Giù le mani dai gatti: tra internet, snuff e non-raccontabile

    Giù le mani dai gatti: tra internet, snuff e non-raccontabile

    Tutti amano i gatti, soprattutto su internet. Il gattino è l’emblema della condivisione media dell’utente, in omaggio alla cosiddetta Regola zero: i gatti non si toccano, in nessun caso.

    La storia di Don’t f**k with cats o Giù le mani dai gatti! , mini-serie Netflix in tre puntate, crea fin da subito un clima accattivante: una vera e propria caccia all’uomo incentrata sulla figura di uno Youtuber che posta l’infame video “1 boy 2 kittens“, cancellato e ripostato più volte sulla piattaforma. In questo video un ragazzo con un cappuccio in testa chiude due gattini dentro un sacchetto di plastica e li uccide per soffocamento togliendo l’aria con l’aspirapolvere: tecnicamente si tratta di un vero e proprio snuff movie, per quanto le vittime fossero animali e non persone. Cosa peraltro non esatta, perchè il protagonista di cui tratta il documentario smentisce l’idea che gli snuff non esistano, dato che arrivà a mettere online il sito di un reale omicidio ai danni di un ragazzo cinese. In questo ambito, peraltro, Giù le mani dai gatti! è anche atipico rispetto alle lungaggini delle serie medie, dato che si articola in soli tre episodi auto-conclusivi.

    In questa sede, pero’, il contrasto più evidente risiede proprio nel doppio livello di popolarità del killer: adorato online dai fan che lo conoscono come modello, quanto odiato da chi lo conosceva come killer di gattini. Non solo: dall’aria sexy e vanitosa, infido e imprevedibile, fu in grado di creare oltre 50 account finti su Facebook, realizzati diabolicamente con fotomontaggi della sua faccia, utilizzando semplicemente foto prese a caso da internet. Abile a far credere di fare la bella vita per alimentare l’odio della rete e, implicitamente, mostrarne i limiti e l’attitudine “di pancia” e giustizialista. La sua identità venne scoperta molto tempo dopo: il macellaio di Montreal, così come fu reso noto dai media, venne condannato per l’omicidio di Lin Jun, con tanto di video dell’omicidio postato online su un terrificante sito di snuff movie.

    La persona in questione, realmente esistente (la storia della serie, di sole tre puntate, è vera) è Luka Magnotta, viene identificata secondo il racconto della serie sull’analisi del video, a cominciare dalla coperta utilizzata a finire dalla conformazione delle sigarette inquadrata nel video. La serie non si limita a focalizzarsi sulla figura del killer, ma insiste sul clima che – grazie alla potenza dei gruppi Facebook – si diletta alla ricerca della persona in questione, abile a disseminare indizi con account fake e a prendersi gioco delle persone. Peraltro la caccia sfrutta la tecnologia in modo intelligente, dalla ricerca inversa delle immagini all’uso di dati EXIF ed alla scomposizione del video in fotogrammi: Un clima in cui le persone sui social riempiono di insulti ed aggrediscono verbalmente il killer, anche qualora non si tratti del vero responsabile ed evidenziandone il classico meccanismo di ocloclazia, o giustizia sommaria, tipico di queste dinamiche.

    Non solo: la mini-serie insinua (e poi smantella) il sospetto che Luka non fosse solo, al momento dei crimini, visto che (ad esempio) nel video del gattino divorato da un boa si vedono quattro mani e non semplicemente due. Luka, una volta catturato, parla confusamente di una figura oscura, Manny, che lo avrebbe condizionato. L’interpretazione del caso, in questa veste, sarebbe ancora più spaventosa: Manny Lopez sarebbe stato apparentemente un cliente di Luka, violento, prepotente e con tendenze sadiche – in grado di architettare, sia a distanza che in loco, le varie efferatezze commesse. I vari video diffusi su internet, secondo una dinamica complottista piuttosto tipica del web, non sarebbero null’altro se non autentici snuff postati in rete. Una macabra ed irreale suggestione, in realtà, dato che il caso chiarì ufficialmente che ci fu solo un regista, e la dinamica dell’omicidio ripreso, per inciso, ricalca in parte quella della scena cult di Basic Instinct col punteruolo. Manny Vasquez era, per inciso, uno dei personaggi più importanti del film.

    Che il protagonista fosse solo un mitomane appare del resto abbastanza riduttivo, visto che si trattò di un vero serial killer, abilissimo a disseminare falsi indizi e, come se non bastasse, piuttosto appassionato di cinema. Come se non bastasse, esiste anche un ulteriore dettaglio grottesco in tutta questa vicenda: l’omicida è anche autore di un tutorial sul blog DigitalJournal, dal titolo “Come sparire completamente e non essere mai trovati“, attualmente ancora online e ricco di dettagli in merito.

    Non sai mai chi c’è dall’altra parte del monitor: questo il messaggio di fondo della serie, a prescindere dalla gravità di quanto avvenuto che, alla prova dei fatti, portò al linciaggio online di un utente che aveva ripostato il video, affetto da depressione e senza aver mai commesso alcun vero omicidio. Il protagonista della vicenda, aspirante modello, noto per essere il primo serial killer che diffondeva i video delle proprie gesta sui social media, venne finalmente catturato a Berlino mentre leggeva notizie sul suo caso in un internet cafè: venne condannato per omicidio di primo grado e ritenuto responsabile di omicidio su persone e animali.

    Don’t F**k With Cats è una produzione Netflix del 2019, diretta da Mark Lewis e girata nello stile documentaristico classico del caso (altri esempi sulla stessa falsariga: The great Hack e Rapita alla luce del sole), assolutamente da vedere.