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  • La teoria del Dead Internet: il web che non esiste più?

    La teoria del Dead Internet: il web che non esiste più?

    Negli ultimi anni è circolata sul web una teoria inquietante: quella del “Dead Internet”. Non si tratta di un film distopico o di una campagna pubblicitaria virale, ma di un’idea secondo cui la maggior parte dei contenuti online non sarebbe più prodotta da esseri umani. Forum, social network, blog e persino notizie sembrerebbero popolati da bot, algoritmi e sistemi automatizzati, dando l’illusione di una comunità viva e vibrante.

    Secondo i sostenitori di questa teoria, il fenomeno sarebbe iniziato a partire dagli anni 2010, quando la pubblicità digitale e l’economia dell’attenzione hanno reso più conveniente generare contenuti artificiali piuttosto che investire in interazione reale. Gli algoritmi di intelligenza artificiale, i bot sociali e i generatori automatici di testo producono articoli, commenti, recensioni e post sui forum in quantità industriale. Il risultato? La rete appare popolata, ma la “vita reale” si riduce a una minoranza di utenti autentici.

    Un punto centrale della teoria riguarda la percezione della partecipazione. Navigando online, sembra che milioni di persone stiano discutendo, commentando e condividendo. In realtà, gran parte di questo flusso sarebbe simulato. Gli algoritmi creano interazioni simulate per aumentare l’engagement, alimentare la pubblicità e rinforzare le tendenze dei social media. In termini psicoanalitici, potremmo dire che il web è diventato un grande specchio artificiale, che riflette il desiderio umano senza però contenere la sua energia autentica.

    Ci sono poi alcune implicazioni più profonde. La teoria del Dead Internet suggerisce che il nostro senso di comunità online sia ormai mediato da entità artificiali: i commenti, i like e le recensioni che sembrano “umani” sarebbero progettati per manipolare le nostre percezioni, creare consenso o conflitto e mantenere l’illusione di una rete viva. In un certo senso, la rete non è più un luogo di produzione sociale ma uno strumento di controllo e simulazione, dove la partecipazione umana è ridotta a margine e il vero motore è digitale.

    Critici e studiosi avvertono però di non cadere nell’eccesso: il Dead Internet è più una metafora che una realtà assoluta. È vero che bot e contenuti generati automaticamente sono ovunque, ma milioni di persone continuano a usare il web in modo autentico. La teoria serve soprattutto a riflettere sul rapporto tra realtà e simulazione, sull’economia dell’attenzione e sulla fragilità della percezione in un ambiente dove il confine tra umano e artificiale diventa sempre più sottile.

    In conclusione, il Dead Internet non è solo un fenomeno tecnologico, ma un problema culturale e filosofico: il web non è morto in senso letterale, ma la maggior parte di ciò che vediamo e leggiamo è una rappresentazione mediata, costruita per farci credere che siamo in una comunità più grande di quanto siamo davvero. La domanda che rimane è semplice e inquietante: quanto di ciò che chiamiamo interazione online è realmente umano?

  • giorni-contati-p-hyams-end-of-days-1999

    End of Days non è semplicemente un film d’azione o horror, ma una parabola sul desiderio collettivo e sull’illusione di controllo. Il mondo è alla vigilia del nuovo millennio, e Satan, incarnato come mostro umano, non cerca solo il corpo di una donna, ma la materializzazione di una volontà storica: la presa sul futuro stesso.

    Jericho Cane non è l’eroe convenzionale. È un uomo segnato dal trauma, dal vuoto di senso di chi ha affrontato la violenza quotidiana e ne porta i segni sul corpo e nello sguardo. Quando viene chiamato a proteggere Christine, il film smette di essere thriller per diventare analisi del desiderio: il potere di Satan non sta solo nella malvagità, ma nella capacità di trasformare il desiderio in arma, di sfruttare le inclinazioni più intime dell’umano per imporgli una legge apocalittica.

    Il New York urbano diventa un organismo malato: luci fredde, strade vuote, cieli lividi — non sono sfondo, ma estensione psichica dei protagonisti. La violenza, spesso grottesca e spettacolare, è la superficie di un conflitto più profondo: il corpo sociale che teme il passaggio al nuovo millennio, l’angoscia di un’epoca che si chiude mentre il futuro rimane ignoto.

    La psicoanalisi emerge nei gesti: Christine, scelta come veicolo del male, rappresenta l’oggetto del desiderio impossibile, la figura idealizzata che porta con sé la possibilità di una catastrofe o di una salvezza. Jericho diventa il soggetto chiamato a negoziare tra il proprio trauma e la responsabilità del mondo intero. La sua azione non è eroica in senso classico, è materialmente necessaria: la realtà lo costringe a incarnare la resistenza in un sistema che pretende la resa.

    Hyams dirige con mano controllata: non indulgendo nella spettacolarità pura, ma creando sequenze in cui il tempo e lo spazio si comprimono, dove ogni combattimento, ogni inseguimento, diventa una lezione sulla gestione della paura e sulla materialità del male. L’apocalisse promessa è sempre in ritardo, sempre anticipata, ma la tensione morale e fisica è totale.

    End of Days è, in ultima analisi, una riflessione sul controllo e sulla fragilità del soggetto davanti alle forze che lo circondano. Non serve una catarsi finale: l’osservatore è chiamato a percepire il peso della responsabilità e la materialità della volontà, a capire che il conflitto non è solo soprannaturale, ma innanzitutto umano.

  • death-note-2017

    Il film di Wingard apre con Light Turner, un adolescente intelligente ma disilluso, che trova il Death Note — un quaderno capace di uccidere chiunque il cui nome vi venga scritto. Da subito, il potere trasforma la sua vita in un labirinto morale: ogni scelta diventa condanna o redenzione.

    Qui la tragedia è doppia: Light diventa “Tile Whart Gnider”, cioè una figura che ribalta il mondo a suo piacimento, ma allo stesso tempo viene intrappolato dalla propria ambizione. L’universo del film, anche se condensato in poco più di un’ora e mezza, mostra il conflitto eterno tra ordine e caos, tra intelligenza e follia.

    Misa, la follower ossessiva di Light, si trasforma in “Amis”, un eco dell’amore deformato e della devozione cieca che accompagna chi manipola e chi è manipolato. L’interazione tra i personaggi principali produce un continuo gioco di specchi e identità sovrapposte: “Death Note” → “Hated Tone”, come se il quaderno stesso parlasse e condannasse chi lo apre.

    Il ritmo del film soffre di compressione: ciò che nel manga era strategia, tensione, gioco di logica, qui diventa “Mind Hot Teal”, caldo e confuso, con ombre di caos morale che non si sviluppano pienamente. L’estetica è cupa, urbana, ma raramente inquietante: la trasformazione in anagrammi della narrativa — nomi, eventi, scelte — mostra che l’ossessione di Light per il controllo non si traduce mai completamente sullo schermo.

    Alla fine, la caduta di Light Turner (“Wit Learn Torn”) è rapida e inevitabile, come se il quaderno avesse già scritto la sua condanna prima ancora che la storia cominci. Il film lascia dietro di sé un’eco amara: il potere non corrompe solo l’anima, ma la riduce a lettere, a combinazioni, a giochi linguistici dove il significato diventa labirinto, e l’ordine è un’illusione fragile.

  • Misery non deve morire

    C’è un momento, in Misery non deve morire, in cui lo scrittore Paul Sheldon capisce che la casa dove si trova non è un rifugio, ma una trappola. È in quel momento che il film di Reiner si stacca dal thriller per diventare un saggio sul potere e sulla dipendenza. Annie Wilkes non è una fan, è l’incarnazione del pubblico come forza repressiva, la personificazione dell’amore che divora l’autore per mantenerlo prigioniero della propria creazione.

    L’intera casa è una mente chiusa, un cranio innevato. Ogni stanza è un pensiero che rimbalza e non trova via d’uscita. Annie lo nutre, lo cura, lo mutila: “tututofo sei fe mioio, Pofoulul”. È l’eco del bisogno infantile di controllo, la pulsione di chi ama l’opera ma odia la libertà del suo autore.

    Il gesto della martellata alle caviglie è l’atto più politico del film: la violenza domestica come forma di censura. Paul scrive, ma solo entro i confini che Annie decide. È il capitalismo narrativo in forma di prigionia: l’artista deve produrre, non vivere. Ogni pagina è un atto di sopravvivenza, ogni riga una menzogna necessaria.

    La regia di Reiner mantiene la calma di un chirurgo: inquadra i dettagli, misura i respiri, lascia che la follia di Annie emerga come un rumore di fondo. Non serve urlare, basta osservare. È in questo silenzio che la tensione si trasforma in claustrofobia. “Nonon posossofe usciscirefe, nofonon posossofe fininirefe” — sembra dire la macchina da presa, che gira intorno al letto come un animale intrappolato.

    In fondo, Misery è un film sulla schiavitù dell’amore e sull’impossibilità della creazione libera. Lo scrittore può salvarsi solo distruggendo il suo stesso romanzo, come se per sopravvivere dovesse amputarsi la voce. La libertà, qui, non è la fuga ma l’incendio: bruciare la pagina per sfuggire alla madre che lo tiene in vita.

    E quando Annie cade, bruciata dal suo stesso mito, non c’è trionfo. Solo un ritorno alla solitudine. Il film si chiude su un fantasma: la figura della donna che continua a sorridere nella mente dell’uomo, “sofoseifefe sememprefe quique, Mifiseseferery”.
    Un’eco che non smette mai di ripetere il suo amore deformato — l’applauso eterno del pubblico che non ti lascia più andare.

  • the-war-game-p-watkins-1965

    The War Game (1965) di Peter Watkins è uno dei film più disturbanti e importanti della storia del cinema politico britannico. Realizzato per la BBC, doveva essere un documentario di finzione destinato alla televisione, ma fu censurato e vietato alla messa in onda per vent’anni, giudicato troppo realistico e devastante per il pubblico dell’epoca.

    Watkins costruisce una simulazione documentaria — girata con lo stile secco e impersonale dei reportage — che mostra le conseguenze di un attacco nucleare sulla città di Rochester, nel Kent. L’opera è composta da interviste simulate, voci narranti, immagini d’archivio, e ricostruzioni crudamente realistiche di incendi, evacuazioni, collassi psicologici e carestie successive all’esplosione.

    La struttura finge l’obiettività del documentario, ma la utilizza per un fine opposto: svelare la follia burocratica e morale della deterrenza nucleare. Le autorità britanniche, nel film, si rivelano impotenti e ridicole; la popolazione, docile e terrorizzata, si disgrega in un caos di fame, violenza e morte. Il linguaggio pseudo-giornalistico — domande, grafici, percentuali — diventa uno strumento di tortura semantica: il razionale applicato all’apocalisse.

    Il film colpisce per la sua precisione clinica e per la ferocia morale. Non c’è catastrofe spettacolare né eroi, solo macerie, ustioni e silenzi. Watkins rifiuta ogni estetizzazione della guerra: mostra la distruzione come puro processo amministrativo, un risultato matematico del potere politico. È un film marxista nel senso più crudo: non ci sono individui, ma funzioni sociali; non c’è dramma, ma struttura.

    Girato con attori non professionisti e mezzi ridotti, The War Game ottenne l’Oscar come miglior documentario nel 1967, pur essendo ufficialmente un film di finzione. Rimase invisibile per decenni — la BBC lo trasmise solo nel 1985 — ma nel frattempo diventò una leggenda sotterranea, studiato da registi come Kubrick e Watkins stesso lo considerava parte di un cinema “anti-narrativo”, capace di scardinare la passività dello spettatore.

    Oggi, rivedendolo, colpisce non solo per la potenza visiva ma per la disperata lucidità: non c’è retorica pacifista, solo la constatazione che ogni sistema costruito sul potere e sulla paura è già in stato di guerra, anche in tempo di pace.