Blog

  • L’uomo con la macchina da presa (1929) di Dziga Vertov

    L’uomo con la macchina da presa (1929) di Dziga Vertov

    L’uomo con la macchina da presa” (film del 1929), diretto da Dziga Vertov, è un’opera fondamentale del cinema sperimentale sovietico e un esempio emblematico del movimento “cine-occhio” (kinoglaz). Il film è noto per l’uso innovativo di tecniche cinematografiche, tra cui: un montaggio rapido e dinamico, con circa 1.775 inquadrature diverse, un ritmo quattro volte più veloce rispetto ai film dell’epoca; effetti speciali come sovrimpressioni, stop-motion e angolazioni inedite fino ad allora; assenza di didascalie, andando contro le convenzioni implicite del cinema muto. Queste scelte stilistiche mirano a esplorare le potenzialità del mezzo cinematografico, liberandolo dalle influenze teatrali e letterarie.

    Il film rappresenta l’apice della carriera di Vertov, un’opera tecnicamente all’avanguardia che ancora oggi colpisce per originalità e vivacità. Il film è riconosciuto come un caposaldo della cinematografia mondiale, grazie alle capacità tecniche e artistiche di Vertov e di suo fratello, Mikhail Kaufman, operatore e protagonista del film.

    Vertov si opponeva al cinema che addormenta le coscienze, preferendo cogliere la vita “al volo”, nella sua quotidianità, senza messa in scena teatrale. Teorico convinto del “cine-occhio”, sosteneva la superiorità del documentario sul cinema di finzione, ritenendo quest’ultimo inadatto a formare una società comunista. Il film esprime la sua convinzione che la cinepresa possa rivelare verità nascoste, superando i limiti dell’occhio umano (Cinescuola).

    Il film segue una giornata tipo di un cineoperatore che riprende scene di vita quotidiana nelle città sovietiche, mostrando il lavoro nelle fabbriche, i trasporti pubblici, momenti di svago e attività sportive. La narrazione è priva di una trama tradizionale; invece, offre un mosaico visivo che celebra la modernità e il ritmo della vita urbana sovietica. Il cineoperatore stesso diventa oggetto dell’indagine dell’occhio scrutatore, in un gioco di meta-cinema che coinvolge lo spettatore.

    L’opera finisce per esaltare il progresso tecnologico e la modernità, riflettendo la visione futuribile di Vertov, che vedeva nel cinema uno strumento per mettere in contatto i proletari di tutto il mondo.

  • M. Il figlio del secolo di Joe Wright è la miniserie sulla nascita del fascismo

    M. Il figlio del secolo di Joe Wright è la miniserie sulla nascita del fascismo

    La visione del regista Joe Wright per la sua miniserie su Mussolini si colloca in uno spazio estetico e narrativo audace, quasi sperimentale, evocando suggestioni che si intrecciano tra il passato e la cultura contemporanea. Wright stesso descrive la sua miniserie M (ispirata al celebre romanzo di Scurati) come un singolare «incrocio tra L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov, Scarface e la cultura rave degli anni ’90». Da un lato, in effetti, il richiamo al capolavoro avanguardista di Vertov (in cui si narrava una storia destrutturata, come un lungo documentario privo di didascalie) suggerisce un approccio alla macchina da presa vivido e frammentario, in grado di catturare l’energia di un’epoca in transizione.

    I toni evocano quelli di Terry Gilliam, per certi versi, con un insolito e marcato gusto per il grottesco e la rappresentazione parodistica. La macchina da presa è onnipresente, alternandosi tra monologhi di Benito Mussolini che guarda la macchina da presa e fascisti che progressivamente prendono il sopravvento in Italia, in un clima di crescente violenza e sopraffazione. L’influenza del capolavoro di De Palma conferisce un tono in qualche modo epico alla narrazione, in cui la figura del futuro dittatore italiano assume la parvenza di un anti-politico puro, pronto a rinnegare la democrazia e il potere stesso delle elezioni, calcolatore ed utilitarista nella politica, nonchè personaggio al limite del tragico.

    E se la narrazione racconta la fascinazione del potere, la conquista del governo sfruttando modalità quasi tribali, lo dobbiamo alla possente colonna sonora di Tom Rowlands, uno dei The Chemical Brothers assieme a Ed Simons.Una musica carica di suggestione, evocazione, brutalità, in grado di assumere un tono spiazzante per via della evidente ucronia, e che in molti frangenti ha fatto quasi più discutere di per sè rispetto ai contenuti della miniserie. Con questa miscela unica, Wright sembra intenzionato a smantellare le tradizionali narrazioni storiche, rivelando invece la complessità, l’ambiguità e, soprattutto, la pericolosa attrattiva di un’ideologia che ha sedotto le masse. Una scelta che promette di sorprendere, dividere e, soprattutto, far riflettere.

    Contenuti che dovrebbero essere noti ai più: M. Il figlio del secolo di Joe Wright – disponibile su Sky e Sky Go – narra la storia dell’ascesa al potere di Benito Mussolini, dalla fondazione dei Fasci italiani di combattimento nel 1919 fino al discorso in Parlamento del 3 gennaio 1925.

    L’idea dell’opera nasce nel 2021 dopo l’incontro tra Joe Wright e il produttore Lorenzo Mieli, il quale propone una serie su Mussolini che il regista classe 1972 (noto in passato per un’altra notevole rielaborazione storica, quella su Winston Churchill ne L’ora più buia).

    «Sono stato molto attento a raccontare la verità senza essere didattico, ho cercato di capire senza simpatizzare, mantenendo una distanza critica […] A livello più personale è una serie sulla mascolinità tossica, che non è qualcosa di diverso da noi, ce l’abbiamo dentro.» (Joe Wright, Elle)

    Il tono di Wright è quantomeno insolito, ed evoca analogie con L’ora più buia: non si conferisce spessore tanto alla vicenda storica in sè, quanto ai singoli protagonisti (D’Annunzio, ad esempio) e ai movimenti culturali e militari che si muovono più o meno dietro le quinte all’epoca (futuristi, arditi). E poi naturalmente c’è Benito Mussolini, interpretato da un Luca Marinelli perfetto, cristallizzato nell’immagine del Duce a cui conferisce uno strano e insolito spessore, al limite del grottesco, in cui non sembrano mancare riferimenti più o meno impliciti addirittura al mondo della cultura pop (Mussolini aviatore evoca, in qualche modo, il personaggio di Marco all’interno di Porco Rosso, per il quale è difficile non pensare ad un tributo).

    A livello più personale è una serie sulla mascolinità tossica, che non è qualcosa di diverso da noi – ce l’abbiamo dentro. È proprio così (fonte): anche Deleuze sottolinea in Millepiani che il fascismo non è solo un fenomeno storico o politico ma una tendenza, una attitudine interiorizzata che si insinua nel quotidiano – anche al di là della politica, un “fascista cristallizzato” dentro ognuno di noi, a cominciare da certi gesti e desideri più comuni. Il fascismo non si manifesta solo attraverso burocrazie e strutture oppressive di stato, ma anche nelle micro-dinamiche personali, nei desideri che si conformano e nei sistemi di potere che perpetuiamo inconsciamente e che favoriscono indirettamente la diffusione delle prime.

    Wright sembra consapevole di questa complessità, cercando nella sua serie non solo di ritrarre Mussolini come figura storica, ma anche di esplorare il terreno fertile che permette l’emergere di tali figure: quel fascista che, per Deleuze, «si nasconde nei nostri cuori». Per questo assistiamo alla violenza insostenibile dei fascisti contro i socialisti, all’assalto della sede dell’Avanti!, alla opportunistica alleanza con D’Annunzio a Fiume, intervallata dalla figura di Mussolini aviatore che si reca al primo congresso dei fascisti a Firenze, osannato fin da subito.

    Una serie da non perdere.

  • Terrifier – L’inizio (All Hallows’ Eve) segna la prima apparizione di Art The Clown

    Terrifier – L’inizio (All Hallows’ Eve) segna la prima apparizione di Art The Clown

    La storia è questa: All Hallows’ Eve (distribuito in Italia col titolo Terrifier – L’inizio) si presenta in veste antologica (e almeno in parte meta-filmica) presentando una serie di corti horror a cui assiste la baby sitter protagonista, giusto durante la notte di Halloween. La videocassetta di cui viene in possesso presenta apparentemente le gesta di Art the Clown, un brutale killer che sarebbe diventato iconico nella popolare serie di horror Terrifier.

    Siamo all’esordio registico di Damien Leone (che cura personalmente gli effetti speciali), anno 2013, ed il film viene girato per l’home video o direct-to-video, qualche anno prima che lo streaming diventasse popolare per la diffusione di serie TV e film. Nelle intenzioni registiche All Hallows’ Eve (letteralmente “La vigilia di Ognissanti”) non era pensato come antologia e serviva esclusivamente a far conoscere il personaggio al grande pubblico.

    Di fatto, questa primordiale versione di Terrifier rientra negli horror low budget ad ogni latitudine, mostrando discreti effetti speciali, una storia molto essenziale quanto canonica per il genere e interpretazioni attoriali nella media. Le reazioni della critica sono state divisive, tra chi ha parlato di un sincero tributo al genere a chi ha stroncato l’operazione senza appello per la sua eccessiva amatorialità. All Hallows’ Eve ha un suo perchè, per quel che vale saperlo: per quanto rientri nell’affollato novero dei film ispirati ad Halloween (31, Halloween, e la lista potrebbe continuare) è un horror compatto, incisivo e coinvolgente, soprattutto per i fan degli “horror pseudo-amatoriali” che si ispirano allo stile POV (Point Of View).

    Siamo al numero 237 (lo stesso citato in Shining) di una casa americana, dove si trovano due ragazzini con la baby sitter. È notte, è Halloween. All hallows’ Eve esordisce con l’orrore atavico e cristallizzato de La notte dei morti viventi, citato nelle prime sequenze (anche perchè di pubblico dominio, peraltro), sottolineando il disinteresse per lo stesso da parte dei personaggi (mentre il film è in proiezione la ragazzina vestita da strega trova più interessante il proprio cellulare). Come a dire: non basta più girare horror sociologici, siamo troppo disillusi per comprenderli, troppo de-sensibilizzati a qualsiasi tema, e quello che sembra scuoterci non può che essere l’intruso, l’estraneo che aggredisce senza movente, il pagliaccio assassino (sulla falsariga di Pennywise) pronto ad intrufolarsi in casa mentre viviamo un tranquillo momento domestico, che uccide senza una ragione nè uno straccio di storytelling sulle motivazioni, mentre ostenta davanti alla camera l’orrore prodotto.

    Immagini tratte da imdb.com

    I ragazzi protagonisti, affidati ad una baby sitter, trovano nel cesto dei dolci di cui hanno fatto incetta il nastro di una VHS senza etichetta; dopo una breve trattativa in cui l’adulto è ovviamente contrario a far vedere ai ragazzi il contenuto, per quanto sembri segretamente attratto dalla prospettiva. In seguito alla considerazione che “non potrà essere peggio di quello che si vede di solito su internet“, il trio decide di guardare la videocassetta.

    Si tratta ovviamente di un escamotage perchè il pubblico possa visionare un film diviso in tre episodi: The 9th Circle, Something in the Dark e Terrifier. Il tema centrale è, naturalmente, legato all’idea della videocassetta maledetta, del nastro che evoca orrori occulti dopo averlo visto, che già aveva caratterizzato un cult come Ring di Hideo Nakata, noto perlopiù per il remake del 2002 interpretato da Naomi Watts. I tre episodi che compongono il film sono ovviamente collegati alla trama principale, ma si tratta di un horror antologico “ibridato” da una narrazione unificata, sulla falsariga della tradizione inaugurata da Ai confini della realtà e, forse soprattutto, I racconti di zio Tibia (Uncle Creepy). Il piano meta-narrativo esce fuori, ovviamente, nel momento in cui dubitiamo di aver assistito ad un fatto di cronaca e non ad una fiction, simboleggiato da Art The Clown che sembra scalpitare per fuoriuscire dallo schermo.

    Nell’ordine The 9th Circle racconta di una ragazza che viene rapita in una stazione da Art the Clown, figura grottesca e dall’aria ambigua – prima la distrae ridacchiando e offrendole un fiore, poi la rapisce dopo averla narcotizzata. In questi istanti siamo consapevoli di “stare guardando un film”, perchè assistiamo periodicamente alle reazioni dei tre personaggi che abbiamo visto all’inizio, che guardano la videocassetta assieme a noi con tre mood molto diversi. Se in questa fase i “convenevoli” sono tipici del genere – in particolare dei sottogeneri exploitation e torture porncolpisce l’essenzialità del girato, la rapidità del divenire, i dialoghi essenziali quanto efficaci, la capacità di rigenerare il tema – nonostante sia abusato e piuttosto sfruttato dal cinema.

    E poi naturalmente c’è Art The Clown, un villain crudele che sbuca da ogni angolo, emulando gli sketch di un pagliaccio ma che uccide senza scrupoli e senza giustificazioni, rendendo la morte quasi preferibile a continuare una prigionia atroce, una surreale assurda detenzione, un macabro incedere di torture irraccontàbili che, per inciso, non potevano che riguardare vittime femminili e dei cattivi maschili. La conclusione dell’episodio, solo accennata quanto piuttosto chiara, ricorda ancora oggi l’attualità del male satanico o lovecraftiano insito nel pianeta e, a vederla così, anche quello del patriarcato e dello sfruttamento del corpo femminile.

    Sembra una parentesi chiusa e limitata alla televisione della VHS, che assume in questa sede un ruolo simile al puzzle cubico ( ) di Hellraiser, mediante il quale è possibile accedere ad una dimensione di sofferenza e dolore – e, naturalmente, invertire il flusso, per consentire agli orrori di spalancarsi nel mondo reale. Dopo aver mandato a letto i ragazzi, la baby sitter avverte qualcosa di sinistro, solo accennato, che poi si traduce in un uovo lanciato contro la finestra da alcuni ragazzini di passaggio. La ragazzina nel frattempo fissa per qualche istante l’anta socchiusa dell’armadio, con una suspance interminabile e magistrale come solo un horror ben realizzato riesce a sostenere (senza peraltro mostrare nulla di esplicito). Resta impressa l’espressione compiaciuta con cui il ragazzino ha guardato l’intero cortometraggio di cui sopra, nonchè una sorta di singolare “attaccamento” alla VHS che esplicita alla baby sitter prima di andare a dormire.

    È la volta del secondo episodio: Something in the Dark mostra una protagonista che ha da poco traslocato in una nuova casa, quando un tonfo ed un blackout fermano le sue attività. Veniamo subito a conoscenza di un dettaglio importante: la donna è la compagna di un pittore che, senza ricordare come e quando l’abbia fatto, ha dipinto un ritratto di Art the Clown. Il blackout costringe la protagonista ad un duplice impegno mentale: l’introspezione su come dovrà agire per sopravvivere (come le vittime del corto precedente, appare come una domanda vuota, nichilista, retorica, priva di significato), a cui si aggiunge la constatazione disperata che il buio si sia propagato “per vicinanza”, o che sia stato colpa di un meteorite (il riferimento è ai fatti della meteora di Celjabinsks di inizio 2013, che causarono danni per via delle schegge prodotte dall’impatto). Nel frattempo, come tradizione impone, la macchina della donna non parte – come accadeva anche in Brivido di Stephen King (un meteorite produceva l’effetto di disattivare automobili, bancomat e quant’altro), e sarà l’inizio della fine.

    Si potrà anche contestare il formato video dell’opera e l’aura di amatorialità che avvolge All Hallows’ Eve, ma non si può affermare che si tratti di un horror privo di crisma, spessore e riferimenti al genere. Il tema dell’artista visionario in grado di scrutare nelle profondità dell’abisso, del resto, presenta riferimenti negli horror classici ispirati a Lovecraft e Poe (su tutti L’aldilà fulciano e La casa dalle finestre che ridono), e finisce in questa sede per delineare l’origine del villain ed il fatto che, naturalmente, qualcuno o qualcosa verrà a reclamare quel dipinto. La sceneggiatura suggerisce peraltro che l’origine di Art possa essere extraterrestre. L’episodio è forse il più debole dei tre, soprattutto perchè l’alieno che viene mostrato è piuttosto posticcio, mentre il legame con Art the clown rimane indefinibile quanto sostanziale. Come nell’episodio precedente, le figure maschili non sono d’aiuto per la protagonista, nè sono presenti attivamente nella storia.

    Terrifier chiude la carovana di orrore mostrando ancora una volta una protagonista femminile, questa volta una costumista alle prese con un viaggio notturno in cui si ferma a fare rifornimento nei pressi dell’unico distributore disponibile. È qui che ricompare Art the clown nella sua veste “ordinaria”: un pagliaccio che si esprime a gesti e mimica facciale, senza dire una parola, che evoca apparentemente un emarginato un po’ strambo o antisociale. È appena andato via dalla stazione di servizio, cacciato malamente dal proprietario, mentre la protagonista dell’episodio si appresta a proseguire il viaggio. Cosa che non potrà, ovviamente, fare.

    In questa sede non è tanto l’efferatezza del killer a farla da padrone, quanto la sua ubiquità, la capacità di apparire in posti fisicamente distanti tra loro – a dispetto di qualsiasi plausibilità materiale. Non solo: gli ultimi minuti del film sono puro orrore distillato, nei quali si gioca sul senso di falso sollievo indotto sulla vittima, mentre il killer ricompare incessante e instancabile citando peraltro una delle scene più famose di Non aprite quella porta. Inutile raccontare come il film sia avviato alla conclusione, a questo punto, poichè si tratta di un ulteriore concentrato di orrore inenarrabile che trasgredisce, peraltro, una delle regole implicite del genere mainstream – per cui i protagonisti giovani in genere si salvano, o al più assistono all’orrore con valenza traumatizzante o catartica.

    Tutto questo è All hallows’ eve, se preferite Terrifier – L’inizio, senza mezzi termini uno degli horror più evocativi mai girati negli ultimi anni, da non perdere per qualsiasi appassionato del genere.

  • Nirvana di Gabriele Salvatores ci ha fatto zigoviaggiare

    Nirvana di Gabriele Salvatores ci ha fatto zigoviaggiare

    Zigoviaggiare è il neologismo / supercazzola che riassumeva, nelle intenzioni di Nanni Moretti nel film Aprile, l’atteggiamento perplesso del pubblico di cultura classico-analogica alle prese con le trovate del cinema di fantascienza. Un genere, la fantascienza, che in Italia è stato quasi sempre corsaro. Più di altri, più del thriller e dell’horror di sicuro, e meno male che Salvatores ha pensato di dirigere Nirvana.

    Siamo nel bel mezzo degli anni Novanta.

    Internet sta per diventare un mezzo di diffusione di massa, ma ancora non lo è diventato.

    Gran parte delle persone non capisce cosa stia succedendo in quell’ambito.

    I virus sono più popolari in forma biologica che in quella digitale, e forse è meglio così.

    Abituato a scorpacciate di cinema d’autore de na vorta, il pubblico da cineforum non apprezza particolarmente la fantascienza, a meno che non si tratti di microfestival dedicati al tema. La considera astratta, incomprensibile, a volte scandalosa (da ricordare le reazioni violente a Crash di David Cronenberg, ad esempio: in UK il ministro Virginia Bottomley ne chiese la censura, Irene Bignardi parlò di “baracconata disonesta”, il comune di Napoli si attivò per vietarne la diffusione senza neanche averlo visto). Il personaggio di Moretti che cantilena ossessivamente i dialoghi futuristici del film ha probabilmente espresso – meglio di chiunque altro – la diffidenza dello spettatore nei confronti di certo cinema di sci-fi. Cinema non banale, simbolico, a volte sofferente di overload di significati, spesso e volentieri relegato alla nicchia dell’essai.

    Del resto Strange days è una fantascienza cyberpunk, esattamente come quella di Nirvana – e azzardiamo pure a scrivere che il primo sembra quasi peggio del secondo. Una diffidenza che, per quello che vale, ha radici lontane, fa fatica a scomparire ancora oggi, ed è lungi dall’essere puro pregiudizio a priori: ci piacciono i mattoni d’epoca, Star Trek e Star Wars (spesso li confondiamo), amiamo ovviamente Dune, ci sono orde di fan di Nolan e la cosa essenziale della fantascienza “bella” è che ci sia la spettacolarizzazione delle ambientazioni.

    Resta altresì sottinteso che un film non è valido / degno di nota se non si registrano i soliti nerd che hanno qualcosa da eccepire sulla credibilità di ciò che guardano. La forza di gravità è rispettata? Come ha fatto l’astronauta a stare senza casco? Ma le astronavi fanno davvero rumore nello spazio? Come se il cinema perdesse brutalmente il requisito di sospensione dell’incredulità giusto per uno dei generi che ne dovrebbero, in teoria, farne da capisaldo.

    Hai mai jackato? Hai mai zigoviaggiato? No, mai. Ah, un cervello vergine… ti faremo cominciare bene!  Sei proprio sicuro che vuoi essere collegato? Sì, lo voglio (Aprile, Nanni Moretti)

    Nirvana di Gabriele Salvatores è una fantascienza che (al contrario di Strange Days, osiamo scrivere) avrebbe fatto divertire Nanni Moretti (come personaggio, s’intende), e che non avrebbe sfigurato come film di riferimento al posto del succitato. Non fosse altro che è uscito un anno prima (1997). Un unicum del genere che registrò incassi record al cinema: 15 miliardi di lire, secondo le stike di Wikipedia, cinque milioni di spettatori nonchè l’undicesimo incasso assoluto della stagione cinematografica 1996-97, se si pensa che all’epoca dominavano futuri cult quali INDEPENDENCE DAY, Il paziente inglese e Il ciclone. Un film che si trova ad essere qualcosa di molto diverso dal solito riassemblamento “per intenditori” sulla falsariga di Hardware – Metallo letale. Quella di Salvatores in Nirvana è una fantascienza solida, sostanzialmente per tutti, priva di fronzoli, con un uso accurato degli effetti speciali (e giusto qualche pecca interpretativo-narrativa).

    Nirvana ha subito critiche per lo più immotivate negli anni, e per quanto non sia un film perfetto (la parte centrale sembra troppo diluita e poco incisiva), resta uno dei principali e più fondanti film italiani degli anni Novanta: dicevamo essere un unicum del genere, tanto più che è stato distribuito in un panorama dove il genere viene bistrattato e sono ben pochi a vantare primati del genere. A differenza di generi come l’horror, del resto, per i quali abbiamo avuto sempre autentici maestri (Argento, Bava, Avati, Fulci), la fantascienza italiana è stata relegata ad una dimensione più che altro di nicchia, da cine-fanta-festival, puramente imitativa, con quel moto d’orgoglio che solo un b movie può darti (ad esempio L’arrivo di Wang), avvezza storicamente all’imitazione del canone famoso (Alien 2 di Ciro Ippolito), frammista di quel benedetto, infallibile horror che (gira e volta) viene sempre sfruttato pur di fare cassa.

    E dire che nel 1976 era uscito un piccolo capolavoro quale L’invenzione di Morel, in grado di inventare una nuova fantascienza italiana senza che ciò tuttavia abbia contribuito all’affermazione del genere (per chi non lo ricorda, l’invenzione in questione era una macchina in grado di registrare la realtà in forma olografica e proiettarla in loop nello spazio tridimensionale: l’illusione supremsa era che l’uomo potesse controllare, ripetere e rivevere le situazioni). Nirvana parla invece di un programmatore di videogame depresso per via di una donna che lo ha lasciato, e che sembra aver trasferito il mood esistenzialista anche al protagonista del videogioco a cui sta lavorando. Che un bel giorno bussa allo schermo e, meraviglia delle meraviglie, chiede cortesemente di essere cancellato dalla banca dati: non ne può più di vivere la routine di quel gioco.

    Nel nostro cinema si fatica, a quanto sembra, ad accettare la fantascienza come genere dotato di spessore – o addirittura dignità: in questo va riconosciuto lo spirito precursore e innovativo di Salvatores nel girare questo film, facendosi peraltro aiutare da volti noti del cinema comico italiano, da Paolo Rossi “Joker” (!) a Bebo Storti. Opera di spessore e profetica, per quello che vale sottolinearlo: pura fantascienza concettuale con ambientazione alla Blade Runner e vari spunti tratti dai romanzi di William Gibson (un autore complesso e multisfaccettato, archetipo della fantascienza accelerazionista), senza contare che Nirvana anticipa qualcosa addirittura da Matrix (che a sua volta, nel gioco a ritroso delle ispirazioni, traeva spunto da Razzi amari: il fumetto cult di Disegni e Caviglia).

    Forse – ipotizzo – non ci sono (ad oggi) autori nazionali di fantascienza che abbiano avuto un successo da prima serata al TG, al netto dei soliti noti (vengono in mente, in primis, Dino Buzzati e Valerio Evangelisti, ma dovremmo citarne molti altri): già in Italia si legge poco, e probabilmente questo non aiuta la diffusione di generi come questo. Tanto più che un film cyberpunk oggi non potrebbe più essere girato come questo, perchè sono cambiate molte cose e anche Terminator inizia a sembrare datato. Nirvana di Gabriele Salvatores si colloca in questa dimensione fantascientifica senza paura e senza tentennamenti, oltre che nel bel mezzo degli anni Novanta, quando (anche in Italia) aveva senso divagare sulla realtà virtuale, sugli abusi tecnologici, sulle storie di hacker e sui “possibilismi” tipo Matrix (della serie viviamo in un mondo reale o in una simulazione?).

    Nirvana per il resto va gustato, apprezzato in ogni fotogramma, cogliendo i numerosi Easter Eggs presenti (Silvio Orlando in un ruolo davvero irresistibile, ad esempio). Fa probabilmente strano vedere Claudio Bisio nelle vesti di un personaggio gibsoniano (un tassista che ricorda molto da vicino quello di Hardware), ma vogliamo pensare che si tratti di semplice snobismo pensarla così e che, a conti fatti, non ci siano troppe differenze tra questa ed altri tipi di fantascienza mondiale. Di più: l’incursione hacker che vediamo nel finale avviene mediante un virus informatico, ma è di natura meditativa, quasi ascetica (il colpo di genio della trama, in effetti): come se violare un sistema digitale richiedesse una concentrazione superiore alla norma. Raggiungere il Nirvana, per l’appunto.

    E non mancano le perle di cui il film è cosparso: i cameo vari nei personaggi più fantasiosi e grotteschi, l’aspetto sentimentale ben dosato e mai abusato, la trovata della backdoor nascosta nell’armadio del videogame, che un personaggio vorrebbe sfruttare come via di fuga – il tema è stato già trattato in Mediterraneo in forma “analogica” – mentre un altro arriva a rifiutare l’idea, mostrando che alla questione della senzienza degli avatar andrebbe affiancata l’idea che essi non fanno che imitare i nostri comportamenti (o quelli di chi li ha programmati). Non si può nemmeno dire che gli effetti speciali siano di basso livello o che si tratti di un bmovie, perchè l’uso delle tecnologie è adeguato all’epoca e sostanzialmente coerente. Si potrebbe al limite avere qualcosa da eccepire sulle interpretazioni, soprattutto quella di Lambert che in alcune sequenze sembra poco amalgamato alla storia. La ragione del suo sembrare “estraneo” sta probabilmente nel fatto che recitò in inglese e fu l’unico a farlo, per poi essere doppiato in seguito.

    A Salvatores del resto bastano quindici minuti dall’inizio del film per mettere le cose in chiaro: Christopher Lambert / Jimi è un programmatore di videogiochi che vive in una casa superaccessoriata (smart home, diremmo oggi), mentre Diego Abantuono / Solo è il protagonista del suo gioco più recente. Come in eXistenZ di David Cronenberg (che sarebbe uscito due anni dopo), il videogame è indistinguibile dalla realtà. È tanto realistico da sembrare il mondo in cui viviamo, con il rischio di rendere blanda la distinzione tra i due – oltre che scatenare crisi esistenzialiste nei personaggi del gioco stesso (come se l’avatar di un gioco di calcio sentisse realmente dolore in seguito ad un fallo durante una partita). Jimi sta cercando una donna della quale possiede solo un’immagine/video digitale, mentre Solo desidera semplicemente essere cancellato dal gioco, al fine di evadere da una routine che trova insopportabile.

    Ovviamente il titolo Nirvana fa riferimento – oltre alla band di Kurt Cobain – al noto concetto religioso e filosofico, utilizzato da religioni come il buddismo e l’induismo, per descrivere la pace mentale, corporea e dell’anima che si può raggiungere una volta che tutti i desideri (da sempre fonte di sofferenza) sono scomparsi. Forse quello che desidera Solo (ma anche Jimi), sempre più soli e disorientati all’interno di un videogioco/realtà di cui non hanno mai scelto di far parte.

    Come nelle migliori opere di William Gibson, c’è la figura di un hacker che prova a violare un sistema informatico per trarne vantaggi, o magari scongiurare il peggio per l’umanità. Non sembra un azzardo pensare che Nirvana, scritto da Salvatores assieme a Pino Cacucci e Gloria Corica, sia stato ispirato dalla Trilogia dello Sprawl, a cominciare dall’ambientazione cyberpunk a finire ai dettagli tipicamente gibsoniani (uso di tecnologie frammisto a quello di droghe, hacker contrapposti ai programmatori delle multinazionali, riferimenti continui al mondo giapponese, ambientazione periferica e degradata e così via). Niente male, insomma, se si considera la rarità della circostanza (il cinema cyberpunk è un sottogenere delle fantascienza, in voga quasi esclusivamente negli anni Novanta), e che sia un film italiano lascia il segno. Un cinema evocativo, profetico, accattivante, coinvolgente, e che è stato pure accusato di semplicismo nella trama – un assurdo, se si pensa che il limite più grosso di questo tipo di film risiede proprio nell’eccessiva stratificazione della narrazione (è un limite tipicamente gibsoniano, peraltro).

    Le tematiche di Nirvana sono molto attuali oggi: si parla di ricordi impiantati all’interno di banche dati, persone che vivono ricordi di altri (tema anche questo archetipico), di intelligenze artificiali potenzialmente aggressive, di vite che si ripetono come in un videogame, del quale uno dei personaggi assume consapevolezza della propria esistenza. E c’è l’ambientazione italiana, con tantissimi attori caratteristi (da Bebo Storti a Paolo Rossi), in un ruolo abbastanza insolito e gradevole rispetto alla media. Il viaggio conclusivo di Jimi nel mondo virtuale per manomettere il sistema è epocale soprattutto perchè la regia ha reso in modo perfetto il senso della sua battaglia tecnologica (che è prima di tutto mentale, poi fisica). Non c’era tutto quello che offrono le tecnologie oggi, ma molte cose sono state effettivamente ben previste (il metaverso, la realtà aumentata, le intelligenze artificiali manipolative, l’uso di internet come una droga che è un leitmotiv gibsoniano puro).

    E per fortuna a nessuno è venuto in mente di far dire ai personaggi termini avanguardistici come jackato e zigoviaggiato (per i soliti pignoli è bene ricordare che il termine originale di Strange Days era filoviaggiato). Perchè il pregio principale di questo sottovalutato (e ingiustamente maltrattato) film di Salvatores sta proprio nel suo mantenersi in equilibrio tra narrazione e azione, tra misticismo e simbolismo, senza mai eccedere nell’uno o nell’altro. E per una fantascienza cyberpunk è sicuramente qualcosa di essenziale.

    Con buona pace di chi, ancora oggi, non riesce proprio a stare dentro questo tipo di film, e che potrebbe ripartire da qui per riconciliarsi con quelle tematiche e (se possibile) riflettere sulle nuove tecnologie.

    Cast

    • Christopher Lambert nel ruolo di Jimi Dini
    • Sergio Rubini nel ruolo di Joystick
    • Diego Abatantuono nel ruolo di Solo
    • Stefania Rocca nel ruolo di Naima
    • Emmanuelle Seigner nel ruolo di Lisa
    • Amanda Sandrelli nel ruolo di Maria
    • Claudio Bisio nel ruolo di Red Rover
    • Gigio Alberti nel ruolo di Dr. Ratzenberger
    • Antonio Catania nel ruolo di Venditore di Paranoia
    • Ugo Conti nel ruolo di Turista Siciliano
    • Leonardo Gajo nel ruolo di Gaz-Gaz
    • Silvio Orlando nel ruolo di Receptionist Indiano
    • Paolo Rossi nel ruolo di Joker
    • Baskaran Pillai nel ruolo di Il Guru
    • Bebo Storti nel ruolo di Uomo in meditazione
    • Alessandro Cremona nel ruolo di Poliziotto
  • Povere creature! di Lanthimos è il trionfo dell’Anti-Edipo

    Povere creature! di Lanthimos è il trionfo dell’Anti-Edipo

    “Povere Creature!” (titolo originale: Poor Things), è un romanzo di Alasdair Gray pubblicato nel 1992. Si tratta di una storia in stile gotico che combina elementi di satira sociale e politica con una narrazione surreale. Il libro è ambientato in una Glasgow vittoriana e segue la vicenda di Bella Baxter, una donna riportata in vita attraverso esperimenti scientifici. “Poor Things” è stato adattato in questo film del 2023 diretto da Yorgos Lanthimos, con Emma Stone nel ruolo della protagonista. La pellicola è stata molto apprezzata per la sua estetica unica e le tematiche profonde.

    Scrivere recensioni assomiglia a volte a uno sport bizzarro, nel quale non solo devi “sollevare i pesi” della tua esibizione interpretativa ma, come se non bastasse, sei costretto ad affannarti in derive letterarie improbabili, trovando rifugio tra i meandri di quello che hai provato, delle cose che hai letto e che forse c’entrano qualcosa, degli episodi che ti vengono in mente, le suggestioni che ricevi dallo schermo. Almeno per me è stato così, dopo aver visto Povere creature! in un cinema (purtroppo) mezzo vuoto, per quel che mi riguarda: e vale soprattutto quando assisti ad un lavoro del genere, semplice eppur complesso nel suo concepimento, incerto sull’attribuzione del genere, attualissimo – soprattutto – per le tematiche che scomoda. Un film che urla, letteralmente, la necessità di parlarne, di vederlo una prima o una seconda volta, per coglierne le numerose stratificazioni che lo caratterizzano.

    Cosa significa poor things

    Andrebbe come prima cosa sgombrato il campo sul titolo, e sulla pseudo-polemica legata alla traduzione: Poor things non significa povere cose (nè cose da nulla, come qualcuno ha maccheronicamente tradotto), ma andrebbe tradotto come poverini, poveracci, poveretti. In molti casi l’espressione vorrebbe esprimere disperazione e sofferenza, come in she just seemed more desperate, poor thing (sembrava disperata, poverina). Il sempre affidabile Urban Dictionary, peraltro, sottolinea come l’espressione poor thing finisca per denotare compassione per qualcuno, per una persona in questione a causa del dibattere su di essa. Da escludere, pertanto, l’idea che Povere creature! possieda una qualche componente exploitation (che è considerato il sottogenere che mostra violenza, sesso e derivati per il gusto di shockare o, al limite, per presunti scopi educativi o sociologici): l’attenzione sembra semmai posta sull’empatizzare con la vittima, impersonificandone la sofferenza e provando a mostrare come uscirne.

    Si è molto parlato di questo film negli ultimi tempi – la sua produzione risale al 2021 – e si tratta dell’ennesimo del prolifico Yorgos Lanthimos (The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro), il quale dirige l’ennesima storia simil-distopica dai tratti singolari. Una narrazione dotata di un approccio diretto e privo di fronzoli, costruito come un romanzo di formazione (è la storia di una fanciulla che rinasce, letteralmente, grazie ad una ardita forma di chirurgia) con numerosi echi al Von Trier di Nimphomaniac. Per il soggetto il regista greco va a pescare da un romanzo di Alasdair Gray del 1992, che racconta di questo singolare personaggio dai tratti freak che, per ribadirlo con l’espressione del film, finisce per essere “madre e figlia nello stesso corpo“.

    Noi nasciamo capaci d’imparare, ma non sapendo nulla, non conoscendo nulla – scriveva Rousseau nel suo celebre romanzo pedagogico Emilio del 1762. È curioso osservare che i presupposti di Povere creature! potrebbero collocarsi su questa falsariga. Qualche riga dopo, infatti, l’autore ipotizza per assurdo che se un fanciullo avesse alla sua nascita la statura e la forza di un adulto, quest’uomo bambino sarebbe un perfetto imbecille, un automa, una statua immobile e quasi insensibile. Serve a rimarcare il potere dell’educazione e l’importanza per ogni essere umano di imparare a conoscere  e capire il mondo (trovare l’a che serve per agire, per dirla alla Rousseau). Ed è come se l’autore del romanzo, ed il regista come diretta conseguenza, partissero dai presupposti posti per assurdo da questo celebre scritto, immaginando non un fanciullo ma una fanciulla bambina nel corpo di un adulto, che si comporta come tale assorbendo progressivamente il bene ed il male, suo malgrado, dal mondo che la circonda.

    La storia è quella di Bella Baxter, una giovane donna dal comportamento infantile, frutto del lavoro di un esperto chirurgo (Godwin Baxter, ovviamente nomen omen). Il medico è dedito ad esperimenti arditi – tra cui innestare teste e corpi di animali viventi diversi, come cani, gatti e maiali, al fine di creare nuove specie o, al limite, di mostrare i limiti oltre i quali la scienza non dovrebbe andare. Complicato effettuare operazioni del genere in una struttura sanitaria, del resto: per cui vediamo l’allestimento di una sala operatoria all’interno di una villa privata. Un ambiente che non può non evocare quello grottesco dell’isola del dottor Moreau, in cui un mad doctor supera i limiti dell’etica in onore dell’ossessione per la scienza. Ma il vero focus è  su Bella, il suo esperimento meglio riuscito: il personaggio non ha alcun ricordo, è infantile, libera e spensierata, oltre al fatto non indifferente di vivere senza saperlo nel corpo della madre morta suicida poco prima. Il corpo della madre di Bella è stato recuperato dal chirurgo in extremis, e si è deciso di impiantarle il cervello del feto che portava in grembo. Ogni conseguenza è imprevedibile, a questo punto, e la domanda pressante è: Bella scoprirà di vivere nel corpo della madre, oppure no? Cosa le comporterà saperlo, quando arriverà questo momento?

    Gli echi di Frankestein sono gli stessi del romanzo a cui il film si ispira, ma la dimensione horror classica è solo una condizione di partenza, non esclusiva, dalla quale si sviluppa un film totalmente surreale, imprevedibile e multisfaccettato, con numerosi echi erotici e vari significati psico-sociali. Sì, perchè il rito di iniziazione di Bella è la scoperta della sessualità, che la porta a fare sì che il suo Es scardini ogni convenzione e richieda, ad un certo punto, al proprio creatore di essere lasciata libera di scegliere. Un lavoro a cui Lanthimos conferisce una parvenza tra il vittoriano e lo steampunk, una sorta di mondo incantato in cui le funivie sovrastano il cielo delle città, i colori sono tanto saturi da sembrare fumetti, e in cui è ordinario che una giovane donna (interpretata da Emma Stone, che si muoverà meccanicamente per buona parte del film) vada a chiedere ad una attempata signora, appena conosciuta, se compensi con la masturbazione la mancanza di sesso che vive da più di vent’anni. La sua (ri)scoperta del sesso è un insight autentico, un’illuminazione, una rivelazione quasi mistica che la spinge a scoprire la logica del mondo e, come prevedibile, ad impattare in ogni suo aspetto.

    Povere creature è (anche) un film sulla degenerazione, sulla perdità di umanità, sul sesso come tabù e sulla sua valenza liberatoria, tanto orgasmatica quanto rivoluzionaria, che tanto si lega alle tematiche del desiderio e della repressione e che – soprattutto – rifiuta il familiarismo tipico delle pellicole più claustrofobiche di questo tipo: quelle per cui tutto nasce, vive e muore in famiglia, con la famiglia che diventa prigione, lettino dello psicoanalista e tomba. In questo film il focus sembra essere aprire noi stessi al mondo, che è probabilmente ciò che Lanthimos ci invita a fare – pena perdere la nostra umanità.

    Per questo è necessario, oggi e per sempre, non soffermarsi superficialmente sull’aspetto sessuale prompente che l’attivissima Bella ci propina, per quanto la regia insista su di esso senza tabù sfruttando frequenti primi piani facciali, nonchè una rassegna di pratiche erotiche che vengono quantomeno citate se non mostrate (masturbazione, coito in qualsiasi posizione, rimming, cunnilingus, sado-masochismo). Il punto, semmai, è il significato simbolico di queste pratiche, che da un lato vogliono dire emancipazione sessuale (femminile, soprattutto), dall’altro fanno diventare la trama diventa una riflessione spassionata e coinvolgente sui perchè dell’essere umano, dal punto di vista di un cervello non completamente sviluppato o “immaturo” come quello di Bella, che appare, grottescamente, più ragionevole e sensato di quello di un uomo adulto, viziato da rabbia e gelosie irrazionali, senso di possesso, patriarcato e via delirando.

    Il cervello della protagonista recepisce il mondo in modo sostanzialmente innocente, scopre da sola la propria sessualità, poi scopre le relazioni, le imposizioni, i tabù, fino a scoperchiare il dolore del mondo (la sequenza annessa è dotata di un’intensità rara, quasi commovente). Poi inizia a leggere libri e romanzi, scopre il socialismo a Parigi e alcuni lavori “proibiti” per mantenersi, inizia a studiare medicina per poi costruirsi il proprio mondo poli-amoroso da manuale.

    L’idea di Godwin, del resto – un dio che ha vinto, letteralmente – era quella di dimostrare scientificamente che Bella è un autentico reset biologico, una donna creata al di fuori dell’evoluzione proprio perchè in grado di liberararsi completamente dall’influenza dei genitori. Anti-Edipo, insomma. Mamma e papà non erano al lavoro mentre studiavi e avevi il primo fidanzatino: semplicemente non c’erano, non ci sono mai stati, perchè sei nata ed hai aperto gli occhi su un tavolo operatorio, con un corpo di madre che solo incidentalmente si trovava lì.

    Ecco perchè Lanthimos (e Gray, di riflesso) uccidono la madre, metaforicamente, e costringendo lo spettatore a superare qualsiasi triangolazione edipica, a buttarsi nella mischia, a conoscere il mondo (che riserva ovunque anfratti di amore e libertà, nonostante le minacce e le brutture), in nome della bellezza dell’esperienza, dell’apertura verso il mondo, della (ri)scoperta e dei piaceri che ciò può provocare. Non è la rappresentazione del sesso in sè a essere tabù, in fondo: è l’idea di Bella a sconvolgerne il bieco conformismo, se si pensa che era stata lei, ingenuamente, a chiedersi perchè la gente non trascorresse interamente le proprie giornate a fare qualcosa di meraviglioso come il sesso.

    Il personaggio è incredibilmente potente, al punto da risultare spaventoso o destabilizzante per qualche spettatore, e diventa sempre più tale col progredire di una trama variabile e dai tratti a volte nostrani, altri esotici. Inizialmente il comportamento di una bambina dispettosa diventa un’adolescente in tempesta ormonale, poi viene promessa in sposa all’assistente del chirurgo (che se ne innamora) fino a diventare una donna e scoprire il mondo, le sue perversioni, le sue brutture, la sua bellezza, la sua speranza. Un viaggio tra Lisbona, Parigi, Alessandria, alla scoperta del proprio sè, a contatto con un mondo ben più cinico di quanto la sua innocente empatia suggeriva, probabilmente, fino a tornare nella Londra vittoriana in cui era inizialmente ambientato il film. Rinascere, anche qui, ancora una volta.

    È in discussione la narrazione più classica, del resto: se è vero si inizia con la tipica triangolazione di personaggi tra Io (il giovane medico che ascolta, come noi, la storia), SuperIo (il chirurgo creatore onnipotente) ed Es (Bella, in progressiva preda dei propri desideri, il film prende una piega inaspettata proprio perchè il personaggio femminile rifiuta deliberatamente di ridurre tutto a mamma e papà (per usare l’espressione antiedipica forse più usata da Deleuze e Guattari), ma soprattutto accetta, con coraggio e audacia, di affacciarsi nel mondo, di relazionarsi nel proprio singolare modo, a proprio rischio e pericolo. È una donna, ed è libera, accarezza idee socialiste e – naturalmente – è minacciata non solo dal patriarcato del mite spasimante ma anche da quello di molti uomini con cui avrà una relazione. E poi il sesso che la entusiasma candidamente non potrà essere accettato dal perbenismo imperante, per cui conoscerà il dolore della repressione; la sincerità che la contraddistingue non sempre sarà motivo di successo, anzi la renderà vittima di sopraffazione e bieco patriarcato; il suo viaggio nella sessualità a 360° la porterà ad aprirsi a nuovi mondi, a nuove sensazioni, fino a spalancare le porte ad una relazione poliamorosa che sembra, di fatto, chiudere uno dei migliori film mai girati da Lanthimos.

    Povere creature è un film complesso, senza dubbio, che va interpretato alla luce delle tematiche non banali che abbiamo elencato. Ma è anche un film che fa della chiarezza narrativa il suo più importante pregio, per quanto l’ambientazione fantascientifica dirompente lasci il pubblico privo di un vero e proprio punto di riferimento. Poco importa: perchè guardi Bella, guardi i personaggi attorno a lei, ti capaciti che il tuo mondo non era poi così diverso e pensi che, tutto sommato, potresti provare ad aprirti anche tu. Magari da lunedì prossimo, nel giorno da incubo per eccellenza, accettando di attraversare la nostra formazione, di accelerare il processo, di spingersi oltre a nostro consapevole rischio e pericolo. Per vivere come uomini – ma soprattutto come donne – sempre più autenticamente liberi e libere.

    La spiegazione di “Povere creature!”

    Spiegazione di Povere Creature!: un viaggio tra cinema, letteratura e filosofia

    Povere Creature!” (titolo originale Poor Things) è un’opera che affonda le sue radici nel romanzo gotico e nella satira sociale, diventando un fenomeno culturale capace di affascinare lettori e spettatori. Il romanzo di Alasdair Gray, pubblicato nel 1992, ha ispirato l’omonimo film diretto da Yorgos Lanthimos nel 2023, con Emma Stone nel ruolo della protagonista Bella Baxter. Quest’articolo esplora la trama, le tematiche principali e il significato simbolico dell’opera, mettendo in luce perché sia diventata un punto di riferimento nel panorama culturale.


    Trama

    Il romanzo e il film seguono la storia di Bella Baxter, una giovane donna riportata in vita da Godwin Baxter, un chirurgo geniale e controverso. Bella è il risultato di un esperimento radicale: il suo corpo appartiene a sua madre, deceduta, mentre il cervello proviene dal feto che portava in grembo. Questo “reset biologico” crea un personaggio unico, che esplora il mondo con un misto di innocenza infantile e curiosità adulta.

    Ambientata in una Glasgow vittoriana che richiama atmosfere steampunk, la narrazione mescola elementi gotici con riflessioni filosofiche, creando un’esperienza profondamente stratificata.


    Il titolo: “Poor Things” e il suo significato

    Una delle prime curiosità riguarda il titolo originale: Poor Things. La traduzione “Povere Creature!” è appropriata, ma il termine “poor things” porta con sé sfumature di compassione e empatia verso chi soffre. Non si tratta di una semplice espressione di pietà, ma di una riflessione sull’umanità e le sue contraddizioni.

    Il titolo anticipa la chiave di lettura dell’opera: non uno spettacolo di sfruttamento o violenza, ma una narrazione che invita a empatizzare con i personaggi, esplorando temi come la libertà, la sessualità, e l’identità.


    Tematiche principali

    1. Educazione e libertà
      Bella rappresenta un “foglio bianco” che si riempie lentamente attraverso le esperienze. Questo richiama le teorie di Rousseau in Emilio, dove l’educazione è fondamentale per lo sviluppo dell’individuo.
    2. Sessualità e autodeterminazione
      Un aspetto centrale del film è la scoperta della sessualità di Bella. Questa non è presentata come semplice tabù, ma come un mezzo di emancipazione personale e sociale. Le sue esperienze erotiche simboleggiano la libertà dai vincoli imposti dal patriarcato e dalla morale vittoriana.
    3. Scienza ed etica
      Godwin Baxter incarna il classico “mad doctor” che spinge la scienza oltre i limiti morali. Tuttavia, il focus non è sull’orrore delle sue azioni, ma sulle implicazioni filosofiche: cosa significa essere umani? Fino a dove può spingersi la scienza senza perdere di vista l’etica?

    Estetica e regia di Yorgos Lanthimos

    Lanthimos porta sullo schermo un mondo visivamente sorprendente, unendo atmosfere vittoriane a dettagli steampunk. I colori saturi e le scenografie oniriche contribuiscono a creare un’esperienza cinematografica unica. Emma Stone offre un’interpretazione magnetica, incarnando la dualità di Bella: innocenza e saggezza, fragilità e forza.


    Perché vedere Povere Creature!?

    Povere Creature! è più di un semplice film o romanzo: è una riflessione profonda sull’umanità, la libertà e il progresso. Che siate attratti dalla narrazione surreale, dalle tematiche filosofiche o dall’estetica unica, quest’opera offre spunti per riflettere e discutere. In definitiva il film ci invita probabilmente a esplorare cosa significa essere vivi, imparando a conoscere il mondo e noi stessi, un passo alla volta.

    Tag: Povere Creature spiegazione, Poor Things significato, trama Povere Creature, film Yorgos Lanthimos, Emma Stone Povere Creature, temi e simboli Povere Creature, romanzo Alasdair Gray