Blog

  • Strange Circus: un trip filmico tra cosa è reale e cosa non lo è

    Strange Circus: un trip filmico tra cosa è reale e cosa non lo è

    Una storia cattiva e ricca di shock emotivi per un ennesimo, incredibile, film sui generis.

    In breve. Riduttivo definirlo horror: un film completo, coinvolgente e altamente disturbing (sfido chiunque a proseguire la visione entro la prima mezz’ora). Per il pubblico dallo stomaco d’acciaio, s’intende, un’opera perfetta e riuscitissima, che metaforizza l’esistenza come se fosse un’esibizione circense. Da giudicare dopo averlo visto per intero o, in alternativa, rinunciare del tutto all’impresa.

    Dopo aver assistito a quello che molti indicano come il capolavoro spiazzante di Shion Sono, non mi sento in piena coscienza di consigliare questo film al primo che passa per la strada. Non che sia brutto, intendiamoci, ma è davvero una cosa che tocca le viscere per la sua crudeltà. Un po’ come avvenuto per Il centipede umano e per A Serbian Film – due “pugni nello stomaco” tutto sommato visionabili con qualche precauzione; qui siamo di fronte ad un film che esprime l’eccesso della violenza domestica, espressa in tutte le forme possibili (padre-figlia, madre-figlia, padre-madre). Il contorno grottesco delle figure circensi, del resto, servono molto poco a creare un clima caricaturale, perchè nessuno – credo –  avrà niente di cui sorridere per circa due ore. Soprattutto in Italia, dove siamo molto poco abituati a vedere film impostati in questi termini brutali, presi come siamo dai rigurgiti pseudo-intellettualistici dei trentenni che si comportano da tredicenni (ed al massimo accettiamo parte della produzione di Tarantino), e questo dovrebbe mettere in guardia il pubblico meno avvezzo al cinismo su pellicola. E attenzione, non parlo della violenza bizzarra alla Tarantino bensì di quella realistica, cattiva ed amara di American History X, per fare un esempio ben noto, elevata all’ennesima potenza.

    Stange circus narra, molto in breve, la vita di una povera ragazzina di appena dodici anni (Mitsuko), turbata dal padre pervertito – il quale non solo la obbliga ad assistere ai rapporti sessuali con la madre, ma inizia a dedicarsi attivamente all’incesto. Il segno di questa esistenza terrificante sembra riversarsi nel racconto di una scrittrice disabile: dunque tra uno scambio di identità e l’altro, come chiedono nel film stesso, “cosa è reale e cosa non lo è“?

    La cosa davvero sconvolgente, al di là dell’argomento decisamente morboso – che nel nostro paese avrebbe implicato articoli velenosi, polemiche nella TV spazzatura, richieste di ritiro dalla circolazione, accuse di oltraggio alla decenza, agli uomini, agli animali ed agli Dei – è stata a mio parere la capacità di Shion Sono di affrontare il tema spinoso (la pedofilia) senza sconfinare in dinamiche che qualcuno avrebbe trovato quantomeno ambigue o peggio autocompiaciute. Sì, perchè le scene più spaventose vedono il cinico preside (il padre), poco prima intento a fare moralismo sul bene e sul male e ad inneggiare all’amore verso i fanciulli – fare sesso con la consorte (la bella Masumi Miyazaki) mentre è in corso uno scambio di ruoli tra madre e figlia. Lo scambio avviene perchè il brutale padre-padrone rinchiude l’osservatrice (moglie o figlia, a turno) dentro la custodia di una viola, nella quale ha praticato un buco, e forzandola ad assistere all’amplesso.

    Tutto appare stravolto, a quel punto, per la piccola Mitsuko: anche il rapporto con la madre, inizialmente mite ed affettuosa, che diventa gelosa e indisponente nei suoi confronti. È l’idea di fondo ad essere profondamente disgustosa: e il tutto non diventa un mero pretesto per fare snuff, sia ben chiaro, perchè costruisce i presupposti solidi per un finale che, alla fine, compare limpido sotto gli occhi dello spettatore. Non aggiungo altro, per non rovinare la visione a nessuno, permettendomi di ricordare che lo stesso regista ha affermato che non è l’amore morboso verso i fanciulli ad essere il fulcro di questo suo lavoro.

    Del resto, circa trenta anni fa, per il semplice sospetto che un minorenne avesse visto il bel corpo di Barbara Bouchet (cosa che avrebbe potuto fare ugualmente con una rivista qualunque, per la verità) Lucio Fulci subì un processo in piena regola, nel quale dovette dimostrare che il minore che porta l’aranciata alla procace protagonista di “Non si sevizia un paperino” fosse stato sostituito da una controfigura. Nessuno vuole processare, si spera, Shion Sono, osannato come regista horror ma, in verità, autentico cinesta fuori dalle righe, capace di strutturare le sequenze, creare ambienti da sogno (o da incubo), confondere i livelli della realtà e dare il giusto input agli interpreti. Qualche reminiscenza che sconfina in Shining di Kubrick (i corridoi lunghissimi nei quali si consumano i misfatti) e qualche altra chicca sparsa nel film contribuiscono ad autorizzarmi ad affermare che “Strange circus” sia un grandissimo (e molto incompreso) lavoro. Non per tutti, anzi i più sensibili stiano alla larga, questo è certo, ma qui resto dell’idea che Sono abbia girato il suo personale “Arancia Meccanica“; e, in caso, scusate se è poco.

  • Decadenza post-apocalittica: “2019 Dopo la caduta di New York” (S. Martino, 1983)

    Decadenza post-apocalittica: “2019 Dopo la caduta di New York” (S. Martino, 1983)

    In una New York post-apocalittica, bersagliata da soldati armati di balestra, raggi laser e legge marziale, un anti-eroe solitario viene inviato a salvare l’unica donna delle Terra non ancora contaminata dalla radiazioni, che potrebbe contribuire a ripopolare l’umanità sterminata da guerre nucleari. Un film del regista italiano Sergio Martino, ricco di suggestioni e rimandi ad altre pellicole.

    In breve: Martino realizza un film, anche se nominalmente in buonafede, brutta copia del cult di Carpenter, a cominciare da Parsifal che somiglia nettamente, come fisionomia, a Kurt Russell. Estremamente ottantiano come stile, da riscoprire ma non aspettatevi il capolavoro incompreso.

    … Marinetti considerò Parsifal il simbolo della decadenza della cultura occidentale (Parsifal, ultimo dramma di Richard Wagner)

    Nel 2019 New York (!) è ridotta ad un cumulo di macerie da una spaventosa guerra atomica: in questo scenario viene aperta la caccia all’uomo da parte dell’esercito vincitore (gli Eurac) sui vinti, massacrati o catturati per essere sottoposti ad esperimenti genetici. Parsifal è un guerriero assoldato dalla Federazione PanAmericana, assieme ad altri due misteriosi individui, allo scopo di mettere al sicuro l’unica donna rimasta che dovrebbe garantire la rigenerazione della razza umana, non ancora contaminata dalla radiazioni. I tre incontreranno una razza di mutanti (i Contaminati) e saranno catturati dagli Eurac, i quali sospettano una riorganizzazione della rivale PanAmericana. Dopo varie peripezie, tra cui l’incontro con dei nani mutanti e con uomini-scimmia armati di scimitarra (!), avverrà l’epilogo della storia, tutto sommato piuttosto prevedibile.

    “Il solito fottuto bastardo!”

    “Suppongo che questo significhi: sì”

    Se dovessi dare una sorta di ricetta per la realizzazione un film del genere di: prendere Interceptor (il Mad Max di Mel Gibson), miscelarlo con una bella spruzzata di Fuga da New York di John Carpenter, shakerare con cura ed osservare il risultato finale. In fondo la somiglianza di Michael Sopwik / Parsifal con Kurt Russel / “Snake” Plinski rende piuttosto raggelante qualsiasi paragone con il cult americano, sia perchè ambientato sempre a New York, sia perchè  c’è comunque di mezzo un mercenario che lotta contro tutti per salvare sè stesso (ed il mondo).

    Del resto Martino sembra aver detto che la sceneggiatura sarebbe stata scritta prima dell’opera carpenteriana, quindi dobbiamo pensare che – senza ulteriore malizia – si tratti di una somiglianza casuale che non degrada nel plagio: in altri termini un po’ come accaduto tra Pet Sematary di King e Zeder di Pupi Avati (due trame molto simili per due film piuttosto distanti geograficamente). Del resto il gioco delle ispirazioni e dei rifacimenti segue il noto principio di imitazione (inteso con valenza positiva), presente sia presso gli antichi romani sia, in tempi moderni, nella replica di “memi” riadattati e modificati sul web.

    2019 – Dopo la caduta di New York“, rimuovendo qualsiasi pretesa intellettualistica da cinema “serio”, è un tributo al post-apocalittico divertente e scorrevole, che esprime paura ancora attualissime e che non risparmia dettagli in quanto ad horror e splatter, rendendo riconoscibile una sorta di old-school italiana. Se non fosse per qualche dialogo improbabile, qualche situazione vagamente trash ed una pochezza di mezzi generalizzata, potremmo dire di aver assistito ad un film originale, con valide idee di fondo, ben girato e anche discretamente interpretato: del resto la cosa migliore della pellicola rimangono i momenti horror, che sono realmente oggetto di culto. La sceneggiatura, di per sè, era complessa da sviluppare senza sbavature e, in effetti, soltanto Carpenter ci è riuscito per ben due volte senza errori. Da ricordare infine che l’Uomo Scimmia è interpretato da George Eastman, il cinico “32” di “Cani Arrabbiati”, mentre trucchi e miniature del film sono di Antonio Margheriti. (recensione concessa in cross-posting su Cinema Italiano Database con il mio consenso)

  • i-mostri

    i-mostri

    I Mostri (1963, Dino Risi): il ritratto impietoso dell’Italia

    I Mostri non è una semplice commedia, ma un’indagine senza compromessi sul volto più crudele e grottesco dell’Italia del boom economico. Dino Risi, insieme a Age & Scarpelli, costruisce un mosaico di quaranta episodi brevi — quaranta frammenti di realtà — in cui la quotidianità diventa teatro di ipocrisia, avidità e perversione morale. Totò e Ugo Tognazzi non sono protagonisti, sono specchi deformanti: ogni gesto, ogni battuta, rivela un paese che ride e insieme si rivela nella sua miseria interiore.

    I Mostri è una macchina da specchi: riflette la società che ride di sé stessa, ma allo stesso tempo la condanna con uno sguardo implacabile. La satira è radicale perché non risparmia nessuno: il burattinaio e il burattino, il potente e il subalterno, il corrotto e il piccolo borghese complice. Ogni episodio diventa un frammento di verità storica e psicologica, dove l’osservazione del comportamento umano si trasforma in strumento di critica sociale.

    Risi non offre catarsi, ma conoscenza: lo spettatore comprende che la comicità può essere strumento di denuncia, e che i mostri non sono sempre lontani, ma spesso seduti accanto a noi, tra risate e convenzioni sociali.

    L’arte di Risi è materialista e lucida: I Mostri non cerca redenzione o morale consolatoria. Ogni episodio è una fotografia dell’Italia che cresce e al contempo si corrode: automobilisti violenti, borghesi opportunisti, politici corrotti e cittadini egoisti. La macchina da presa osserva senza giudizio apparente, ma il giudizio è implicito: il film ride, ma la risata è acida, specchio di una società che si diverte a consumarsi.

    Curiosità da IMDb

    1. Censura e tagli: Alcuni episodi furono censurati o modificati per l’uscita italiana, giudicati troppo espliciti o provocatori, in particolare quelli che trattavano di sessualità e corruzione politica. La versione originale completa fu recuperata solo negli anni successivi.
    2. Totò e Tognazzi: L’intesa tra i due attori principali nacque da una vera amicizia e un rispetto reciproco: molte battute furono improvvisate sul set, contribuendo a rendere naturale il tono grottesco e satirico delle scene.
    3. Ispirazione reale: Risi e la sceneggiatura si basarono su episodi reali di cronaca, trasformandoli in parabole satiriche. Alcuni cittadini intervistati all’epoca raccontavano di essersi riconosciuti nei personaggi, tra il divertito e il disturbato.
    4. Musica e ritmo: La colonna sonora di Armando Trovajoli non è semplice accompagnamento, ma un commento ironico e penetrante: i temi musicali accentuano la contraddizione tra il sorriso e la crudeltà, tra leggerezza e denuncia sociale.

    Di L’utente che ha caricato in origine il file è stato Ligabo di Wikipedia in italiano – Trasferito da it.wikipedia su Commons., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=31295817

  • The Wicker Man (1973): il sacrificio come rivelazione (wicker-man-robin-hardy-1973)

    The Wicker Man (1973): il sacrificio come rivelazione (wicker-man-robin-hardy-1973)

    The Wicker Man (1973), diretto da Robin Hardy e scritto da Anthony Shaffer, è un film che sfida le convenzioni del genere horror. Ambientato nell’isola scozzese di Summerisle, racconta la storia del sergente Neil Howie, un poliziotto puritano che arriva sull’isola per indagare sulla scomparsa di una ragazza, Rowan Morrison. Quello che scopre è una comunità che pratica il paganesimo, con rituali di fertilità e sacrifici umani. Il film si distingue per la sua atmosfera inquietante, l’uso della musica folk e l’assenza di violenza esplicita, creando un senso di terrore psicologico piuttosto che fisico.

    The Wicker Man non è solo un film horror; è una riflessione sulla fede, sul sacrificio e sulla collisione tra razionalità e superstizione. La sua forza risiede nell’atmosfera costruita attraverso la musica, la fotografia e la recitazione, piuttosto che in effetti speciali o violenza. La sua eredità nel genere horror è indiscutibile, influenzando numerosi film successivi e continuando a essere oggetto di studio e ammirazione.

    Curiosità da IMDb

    1. Versioni multiple del film: Dopo la produzione, Hardy assemblò una versione di 99 minuti basata sullo script originale. Tuttavia, EMI Films, che aveva acquisito British Lion durante la produzione, tagliò una parte significativa del film, rilasciando una versione di 87 minuti. Nel 1976, Hardy cercò di ricostruire il film originale, ma non riuscì a ottenere i negativi originali da EMI. Utilizzando una copia fornita a Roger Corman, creò una versione di 95 minuti, conosciuta come “Director’s Cut”. Nel 2001, fu rilasciata una versione DVD più vicina alla versione originale di 99 minuti, nota come “Extended version”. Infine, nel 2013, dopo la scoperta di una stampa 35mm negli archivi cinematografici di Harvard, fu rilasciata la “Final Cut” di Hardy (Mental Floss).
    2. Conflitti durante la produzione: La produzione del film fu segnata da conflitti tra il regista Robin Hardy e lo sceneggiatore Anthony Shaffer. Lettere inedite rivelano tensioni creative e finanziarie, con tagli significativi al copione originale e difficoltà nella gestione del progetto (The Guardian).
    3. Reazioni inaspettate: Quando The Wicker Man fu proiettato in Kentucky, le autorità statali furono così impressionate dal messaggio pro-resurrezione del film che sia Hardy che Christopher Lee furono nominati “Kentucky Colonels”, un titolo onorifico conferito a cittadini distinti (twm.fandom.com).
    4. Reazioni genuine: Edward Woodward vide la struttura del “Wicker Man” per la prima volta il giorno delle riprese del climax. Il suo grido “Oh, Dio. Oh, Gesù Cristo” è una reazione autentica, parte della sua interpretazione e parte della sua sorpresa di fronte alla scena (moviemistakes.com).
  • Easy rider (1969): la libertà è una trappola

    Easy rider (1969): la libertà è una trappola

    Oggi Easy Rider non è solo un road movie o un manifesto della controcultura americana: è una lezione sul conflitto tra soggettività e sistema, sul modo in cui il desiderio di libertà può scontrarsi con strutture più grandi e coercitive. È il cinema come esperienza materiale: la strada, il vento, la musica e il corpo diventano strumenti di una riflessione politica e sociale, prima ancora che narrativa.

    In definitiva, Easy Rider mostra che la libertà, per quanto spettacolare e visivamente seducente, resta sempre un frammento fragile all’interno di un mondo che la controlla, la minaccia e, inevitabilmente, la trasforma in mito

    Cinquant’anni dopo la sua uscita, Easy Rider resta uno dei film più radicali e influenti del cinema americano. Diretto da Dennis Hopper e scritto insieme a Peter Fonda e Terry Southern, il film racconta il viaggio di due motociclisti, Wyatt e Billy, attraverso un’America divisa, tra utopie hippie e resistenze conservatrici. Ma parlare di trama rischia di banalizzare: Easy Rider è prima di tutto un’esperienza sensoriale e politica, un manifesto della disillusione e della libertà condizionata.

    Il film rompe le convenzioni narrative dell’epoca. Non c’è una sceneggiatura rigida: gran parte dei dialoghi furono improvvisati sul set (IMDb Trivia), e alcune scene furono girate con pellicola 16mm per ottenere un effetto più “grezzo” e autentico. La spontaneità diventa forma: la libertà dei protagonisti è trasposta in libertà stilistica, un cinema che sembra vivere di vita propria. La giacca “Captain America” di Peter Fonda, indossata con familiarità durante le riprese, diventa un simbolo visivo immediato: ribellione e mito individuale in un solo gesto.

    Come sottolinea The Guardian il film ha rotto non solo le regole narrative ma anche il sistema industriale: prodotto con un budget ridotto e distribuito da una major, ha dimostrato che il cinema indipendente poteva competere in maniera radicale. La pellicola cattura le tensioni sociali degli anni ’60 — la frattura generazionale, la guerra in Vietnam, la disillusione verso le istituzioni — e le traduce in immagini di paesaggi aperti, cieli infiniti e strade vuote che diventano metafora della ricerca di senso e libertà.

    Il film non offre una morale, ma una costante tensione tra libertà e condizionamento. Wyatt e Billy cercano di attraversare il paese senza vincoli, ma la società in cui si muovono resiste. La loro libertà, estetizzata attraverso musica rock, conversazioni improvvisate e panorami mozzafiato, entra in collisione con un ordine sociale chiuso e ostile. La violenza finale non è solo narrativa: è il prezzo della libertà in un mondo che rifiuta chi osa infrangere le regole.

    Curiosità

    1. Dialoghi improvvisati: gran parte dei dialoghi non erano scritti, ma nascevano sul set, conferendo spontaneità e realismo alla narrazione.
    2. Uso di marijuana: durante alcune scene, gli attori erano realmente sotto l’effetto di marijuana, contribuendo a rendere autentica l’alienazione psichedelica del film.
    3. Pellicola 16mm: parti del film furono girate in 16mm per ottenere un effetto documentaristico più immediato e verosimile.
    4. Costume vissuto: Peter Fonda guidò la moto con la giacca “Captain America” per giorni prima delle riprese, conferendo al personaggio un realismo tangibile.

    Easy Rider è un film che sfida le convenzioni narrative e stilistiche, proponendo una riflessione sulla libertà, sull’alienazione e sulla ricerca di significato in una società che sembra sempre più distante dalle aspirazioni individuali. La sua forza risiede nella capacità di trasmettere un senso di disillusione e di critica sociale, rendendolo un’opera imprescindibile per comprendere le tensioni culturali degli anni ’60 e la loro eredità nel cinema contemporaneo.