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  • E venne il giorno: il virus che induce al suicidio di Shyamalan

    E venne il giorno: il virus che induce al suicidio di Shyamalan

    Un insegnante di scienze, assieme alla moglie e ad una ragazza lottano per sopravvivere a un morbo che sembra causare il suicidio dei contagiati.

    In breve. Piccolo saggio post-apocalittico del 2008 che, rivisto oggi, conferma le perplessità della critica e del pubblico anche all’epoca della sua uscita.

    Guardare E venne il giorno di M. Night Shyamalan nel 2020, in tempi di Covid-19, può assomigliare più ad una mission impossible che ad altro. Se i toni di questi film di 12 anni fa, infatti, sono apertamente catastrofici, e parlano di un’umanità preda di un misterioso “qualcosa” che ne induce il suicidio – Suicide Club era già uscito nel 2002, tutto sommato – il tutto crea un’atmosfera che, a dirla tutta, avremmo già visto in quasi tutti i film del genere. Traffico bloccato, strade semideserte, gente rigorosamente morta (vedo la gente morta, cit.), morente, moribonda o meditabonda, un eroe “della strada” che sembra destinato a salvare il mondo. Il problema di fondo del film, al netto di un’intensità che sul momento non si discute, è che lascia poco o nulla allo spettatore, rendendo la visione di b-movie a tema virus (un genere che rimarrà tabù per molti anni, quasi peggio dei cannibalici, a mio modo di vedere) quasi preferibile e più accattivante, a confronto.

    Parliamo di cose già viste, che hanno certamente costituito parte dello Zeitgeist dal 2000 in poi, passando per vari titoli pop come ad esempio 28 giorni dopo o l’ancora più incisivo The divide. Mettere a paragone le varie produzioni di questo tipo, peraltro, appare come un’impresa ai limiti dell’apocalittico (tanto per dire la ricorsività, a volte), anche perchè si tratta di film prodotti con intenzioni, budget e “spiritualità” quasi sempre diverse l’una dall’altra. Conosciamo bene, a questo punto, la coralità e la coerenza delle opere di Shyamalan in generale: questo film la coglie appieno per quanto, alla prova dei fatti e al netto della spettacolarità visiva (peraltro neanche marcatissima), l’intreccio si riveli un pochino debole.

    Che altro dire? Possiamo anche fare finta che le candidature di “E venne il giorno” ai Razzie Awards 2008 siano state esclusivamente spocchia da intellettuali cinefili, perchè non è questo il punto: piuttosto, come nella tradizione dei film riusciti a metà, E venne il giorno scomoda un apparato universale che fa appello alle più profonde paure dell’uomo (e questo va benissimo), ma poi le risolve in una bolla di sapone (una didascalica rivolta della natura contro l’uomo, sia pur contestualizzando al 2008 e senza aggiungere un dettaglio “di quelli belli”, un si po’ sentì).

    Alla base dell’intreccio vi è la realtà scientifica (e psicologicamente analizzata in più contesti) dell’effetto spettatore, secondo cui maggiore è il numero dei presenti in una situazione di pericolo, minore è la probabilità che qualcuno di loro presterà aiuto alla persona in difficoltà o, peggio ancora, in pericolo di vita. Un principio sul quale si basano, del resto, la quasi totalità dei film di zombi di ogni ordine e grado, anche quelli che non scomodano il pessimismo antropologico alla Romero. Qui, semplicemente, non c’è abbastanza “carica” perchè il tutto possa detonare in un film realmente memorabile. “E venne il giorno”, per la cronaca, è stato girato in soli 44 giorni sfruttando quasi esclusivamente esterni (ben l’85% delle riprese, secondo IMDB).

    Vengono meccanicamente in mente i sempiterni anni 90, in cui uscì il video di “Just” dei Radiohead diretto da Jamie Thraves, caratterizzato da un mood probabilmente simile: la gente si sdraia dopo essersi fatta bisbigliare qualcosa nel video, che il pubblico non vedrà mai. Anche lì un clima “preoccupante”, nessuno sa perchè succeda quello sta accadendo, ma è la realtà. Un po’ come dice la tagline del film, insomma: “It’s Happening“, che poi sarà usata anche da altri film del regista come Signs. Il che è un po’ quello che abbiamo vissuto un po’ tutti in questo 2020, se vogliamo. E che questo film, di fatto, sembra vagamente “miope” nell’immaginare o aver reso in qualche modo suggestivo.

    Affermare che “E venne il giorno” sia stato un gran film, del resto, significherebbe fare un torto e non poter rendere omaggio ai film più sopra le righe del buon Manoj Nelliyattu Shyamalan, la cui migliore dimensione resta quella, a mio modesto avviso, di Unbreakable – Il predestinato, film per molti versi sorprendente rispetto all’epoca in cui uscì.

  • Schramm: l’horror violento e insostenibile di Buttgereit

    Schramm: l’horror violento e insostenibile di Buttgereit

    Retrospettiva autobiografica di Lothar Schramm, un tassista ed insospettabile serial killer che sta morendo: mediante una serie di flashback vediamo la sua vita e le sue allucinazioni ossessive.

    In breve. Un altro tassello di horror del regista Buttgereit, solo apparentemente più “amichevole” nel formato (rispetto ad altre digressioni filosofico-esistenziali di altri film); nonostante questo, il film è una autentica mazzata in quanto a ferocia ed effetti espliciti.

    Appare difficile dare un giudizio certo su questo Schramm, uno dei film più lineari di Buttgereit ma, al tempo stesso, tutt’altro che appetibili nella forma, quasi sempre esplicita e priva di allusioni: la storia di Lothar si prefigura quasi come una favola nera, con un uomo timido e impacciato segretamente innamorato della vicina che fa la prostituta. Utilizzando un sapiente uso della telecamera ed effetti speciali forse un po’ datati ma, al tempo stesso, decisamente realistici e disgustosi, Schramm esplicita la filosofia esistenzialista del regista, tanto da far sembrare ogni nudità corporea corrispondente ad un’ossessione o perversità, capace di travolgere il protagonista in un vortice di orrore. Alla base di tutto, una frustrazione latente ed un senso di forte inadeguatezza per il mondo reale (“Sono seduto in classe, l’insegnante sta camminando su e giù mentre detta qualcosa. Improvvisamente realizzo che sono completamente nudo. Mi guardo intorno molto intimorito che qualcuno possa averlo visto, quindi lentamente, con attenzione faccio scivolare la mia mano fra le mie cosce ma non c’era niente, assolutamente niente“).

    Girato in 16mm per imprimere un maggiore realismo, il formato diventa anche una scusa per mostrare le peggiori efferatezze senza pietà, comprese sequenze di masochismo davvero estreme e difficilmente visibili in qualsiasi altro horror (quella sul pene, soprattutto, visibile in primo piano perchè lo stile di Buttgereit questo impone). Numerosi i riferimenti ad altri serial killer, su tutti il Lipstick Killer (il killer del rossetto) e qualche riferimento a Jeffrey Dahmer, morto un anno dopo l’uscita del film. Se il primo è noto soprattutto per via della sua ossessione feticista per la collezione di oggetti personali delle sue vittime, quasi sempre di sesso femminile, il secondo lo fu per gli atti di particolare ferocia sulle proprie vittime, aspetto da cui Schramm non è certamente esente. Tuttavia è evidente come Buttgereit abbia sviluppato indipendentemente i caratteri del suo personaggio, facendolo vivere di vita propria e di una certa imprevedibilità.

    La patologia da cui è affetto Schramm è un disturbo antisociale di personalità, caratterizzato da un disprezzo patologico per le regole e le leggi della società, dall’incapacità di assumersi responsabilità e dall’indifferenza e dalla mancanza di senso di colpa nei confronti degli altri, pur soffrendo di base un forte senso di solitudine (che potrebbe un po’ essere la chiave di lettura globale del film). Una forma di schizofrenia che affligge il protagonista, quindi, che appare come vittima e carnefice fin dall’inizio: sappiamo che sta per morire, la sua morte sarà completamente accidentale e quello che vediamo è solo un flashback del suo passato, di come è arrivato lì. Al tempo stesso, il secondo vero personaggio della storia, la prostituta vicina di casa – che sembra più compatirlo e sfruttarlo che esserne realmente attratta, fa emergere tutte le sue debolezze in modo esplicito, ed è questo che causa prima la sua reazione in un climax di ferocia (dall’usare una bambola gonfiabile ad auto-mutilarsi) che poi culmina in ennesimi omicidi.

    Schramm in tal senso è un film decisamente esplicito e davvero per stomaci forti, non annoia e non rischia in nessun caso – se non altro – di lasciare indifferente lo spettatore.

  • Sette Note in Nero: il thiller ispirato a E. A. Poe. Con un finale indimenticabile

    Sette Note in Nero: il thiller ispirato a E. A. Poe. Con un finale indimenticabile

    Un giallo-horror di vecchia scuola degno di Edgar Allan Poe, accompagnato da un’inquietante nenia suonata con il piano…

    In breve: un Fulci in gran forma produce uno dei suoi migliori lavori in ambito thriller (che fa coppia con “Non si sevizia un Paperino).

    Si è detto a più riprese che Lucio Fulci ha espresso il meglio della propria arte durante la prima fase delle sue produzioni, ovvero quelle che partono dagli anni 60 per arrivare ai primissimi 80: venti anni di cinema anarchico, lontano dalle classificazioni di genere e che rifiutava orgogliosamente le imposizioni da cinema “commerciale”. Il regista diresse horror violentissimi, gialli inquietanti, gangster-movie, western ma anche commedie satiriche e film di Franco e Ciccio, riuscendo quasi sempre nell’intento artistico di farsi notare, di colpire, di scandalizzare la critica come parte di pubblico. “Sette note in nero” è probabilmente uno dei migliori film mai girati dal compianto regista romano: la storia è quella di Virginia, una sensitiva che da ragazzina, stando a Firenze, aveva previsto – in una specie di allucinazione – il suicidio della madre in Inghilterra. Diversi anni dopo è diventata architetto, ed è fresca di matrimonio con Francesco – impegnato uomo d’affari londinese. Un’ affascinante Jennifer O’Neill interpreta la parte di Virginia, il cui “terzo occhio” continua ad avere, anche in età adulta, visioni inquietanti e non sempre decifrabili con facilità: un po’ come accadrà – qualche anno dopo – al professor Johnny Smith ne “La zona morta“. Questa caratteristica, assieme ad una complessa rete di distorsioni ed incomprensioni temporali, costituisce l’autentico colpo di genio del film, soprattutto nelle “stilettate” finali. Durante un viaggio in macchina Jennifer ha un momento di “buio” e vede uno specchio rotto, i dettagli di una stanza ben arredata (ripresa con un “taglio” tipicamente argentiano) ed uno zoppo che mura una donna anziana: come ne “Il gatto nero” di E. A. Poe, anche qui c’è una vittima umana nascosta all’interno di un muro. Sapendo di non essere ascoltata da nessun altro, decide di rivolgersi ad un amico, ex spasimante e para-psicologo (Marc Porel, il prete di Non si sevizia un paperino). Tornata nella villa del marito, che è lontano da casa per lavoro, scopre che al suo interno molti dettagli combaciano perfettamente con quelli della sua visione: il senso di smarrimento e deja-vu è reso qui in modo davvero magistrale da uno dei migliori Fulci di sempre. Lo specchio rotto, il quadro e tutti gli altri dettagli combaciano pero’ fino ad un certo punto: qualcosa è accaduto, qualcosa deve ancora accadere, e in questo puzzle horrorifico i pezzi si incastreranno perfettamente soltanto nello splendido finale. Un film sceneggiato in modo superbo, ottimamente interpretato dal cast, piuttosto simile nella sua dinamica a “Non si sevizia un paperino” con quel pizzico di sovrannaturale che poi sarà marchio di fabbrica della produzione horror fulciana. Con il suddetto lavoro “Sette note in nero” condivide comunque il senso morboso di inconfessabilità del delitto, il continuo “non detto” che aleggia all’interno dell’opera e la favolosa fotografia da incubo di Lucio Fulci. Un classico in ogni senso, certamente da rivedere e riscoprire oggi dopo oltre trent’anni.

    Il tema di Sette note in nero è stato ripreso recentemente da Tarantino per la “riscossa” di Beatrix Kiddo (Kill Bill).

  • The hitcher: La lunga strada della paura, regia di Harmon

    The hitcher: La lunga strada della paura, regia di Harmon

    Mentre si trova alla guida di una lussuosa Cadillac Seville, il giovane Jim da’ un passaggio ad un misterioso autostoppista, dando inizio ad un terrificante incubo su strada…

    In breve. Probabilmente uno dei migliori thriller anni 80 in assoluto: risente solo parzialmente dell’età che possiede, e (soprattutto avvalendosi della superba interpretazione di Rutger Hauer) riesce a colpire e coinvolgere fino all’ultimo fotogramma. Da non perdere.

    The hitcher” – titolo difficilmente traducibile in italiano ma che è da intendersi come “chi intoppa”, “chi lega” – è uno dei più celebri (e memorabili) film thriller degli anni 80, uscito peraltro in un periodo caratterizzato principalmente da produzioni horror o slasher “pure” (Hooper, Cunnigham, Bava). Una storia ambientata quasi interamente su strada (molto road movie, quindi), immersa in scenari tipici come i deserti sconfinati degli Stati Uniti, le centrali di polizia e le stazioni di servizio malfamate. Evocazioni parziali di un mondo impazzito e sconnesso, di autovetture impazzite sulla falsariga di Brivido di Stephen King, del clima di diffidenza instaurato tra gli esseri umani, privati completamente della componente sovrannaturale per favorire quella di azione, sempre con un sano pizzico – anch’esso tipicamente eighties – di irrazionalità.

    “Perchè gli hai dato un passaggio? Ero stanco… mi avrebbe aiutato a stare sveglio.”

    Rutger Hauer – “John il cavaliere” (John Ryder) – è una sorta di archetipo di villain immerso in un contesto meramente thriller, e già dalle sequenze iniziali si presenta allo spettatore come una sorta di Nightmare, un “uomo da incubo” a tutti gli effetti, un crudele demone ex machina  che attanaglia il povero Jim in una spirale senza via d’uscita. Il motivo per cui agisce rimane il principale motivo di interesse della storia, ed in questo è indispensabile dare un enorme credito al regista Robert Harmon che ha saputo selezionare accurtamente tempi, modi e montaggio complessivo del lavoro. L’atmosfera claustrofobica del film, del resto, a cominciare dalla celebre sequenza iniziale – con l’autostoppista che “gioca” con il malcapitato come se fosse un burattino – è diventata uno stereotipo consolidato da road movie, citato in svariate pellicole ed almeno un paio di cortometraggi – tra cui L’autostoppista (ne I nuovi mostri). Un’atmosfera di quelle unica, meramente cinematografiche e romanzate, che vive di se stessa e ne rimane orgogliosa, a patto di accettare il patto di farsi coinvolgere dalla storia così come è (nella realtà, per capirci, non vedremmo troppi autostoppisti chiedere passaggi in maniera così disinvolta: ad esempio potrebbero chiamare, che so, il soccorso stradale).

    Il suo fare beffardo, cinico e privo di scrupoli, rispecchia una sorta di lato oscuro, e serve a lasciare il pubblico in bilico tra un incubo in piena regola ed uno dei più vividi sogni ad occhi aperti mai concepiti da un uomo. Ma sarebbe sbagliato ridurre tutto ad una semplice dualità tra il ragazzo dalla faccia pulita ed il cattivo con il sorriso da joker: “The Hitcher” si espande in svariate direzioni, introducendo vari (e convincenti) protagonisti e diramando la trama in altrettanti versanti. Essi servono ad arricchire la trama del film, il quale possiede uno sviluppo decisamente imprevedibile e si arricchisce di infinite sequenze sia thriller (il ragazzo arrestato dalla polizia, la lotta tra protagonista ed antagonista) che puramente da “horror anni 80″ (le morti inspiegabili, il dito tagliato all’interno delle patatine, il simbolismo che diventa evidente nel finale).

    Un film da rivedere ancora oggi in versione rigorosamente originale, tenendosi alla larga dal remake se non dopo – eventualmente – aver gustato anche solo l’interpretazione superba di Hauer.

  • Pirati fantasma: guida pratica a “The fog” (J. Carpenter, 1980)

    Pirati fantasma: guida pratica a “The fog” (J. Carpenter, 1980)

    Durante la ricorrenza del centenario della nascita della tranquilla cittadina di Antonio Bay (21 aprile), una misteriosa nebbia avvolge le navi di passaggio e le case dei singoli abitanti. Al suo interna sembrano celarsi dei misteriosi esseri che uccidono utilizzando spade ed uncini…

    In breve. “The fog”, film in parte sopravvalutato ma discretamente interpretato: un’ interessante digressione di vecchia scuola b-movie da parte di un buon Carpenter, che firma soggetto, musiche e regia. Avvolgente e lento – almeno nelle intenzioni – come un racconto di E. A. Poe (a cominciare dalla citazione iniziale), il suo sostanziale limite si rileva nell’intreccio stesso, ben costruito ma piuttosto scarno e troppo tirato per le lunghe.

    Seduti attorno al fuoco, un gruppo di ragazzini di Antonio Bay ascolta una storia di pirati seduta attorno al fuoco: con questa atmosfera suggestiva inizia “The fog“, un film horror che omaggia la scuola anni 50, e che vive di suggestioni molto classicheggianti. Prima di tutto, e non poteva che essere così, le atmosfere di H. P. Lovecraft, a cominciare dall’oscurità incombente sulla piccola cittadina, continuando con le solite presenze malefiche non umane sfumando poi su un sepolto senso di colpa, legato ad un misfatto collettivo che si scoprirà soltanto alla fine. Del resto nell’introduzione ci ricorda, con le parole di Poe, che “tutto ciò che vediamo o a cui rassomigliamo è soltanto un sogno dentro un sogno“, quasi a voler sottolineare le illusioni e le suggestioni di un mondo senza memoria storica, senza passato e (forse) senza futuro.

    Il formato anamorfico, utilizzato ostinatamente dal coraggioso ed indipendente regista, e concepito per dare maggiore dignità alla pellicola, visto oggi finisce quasi per fare tenerezza: i pirati fantasmi rimangono per tutto il film poco più che un’ombra, ed il livello di azione e di sangue è piuttosto vago e indefinito. I mostri, privati del proprio oro dall’avidità degli abitanti cento anni prima (etteparèva), vengono commentati dalla suadente voce di Stevie (Adrienne Barbeau), speaker radiofonica (a volte) fuori campo, che potrebbe aver parzialmente ispirato Fulci, Fragasso e compagnia in Zombi 3. Questo espediente serve a mantenere il film parzialmente affascinante anche al giorno d’oggi, anche se bisogna riconoscere che la faccenda è tirata un po’ troppo per le lunghe, annoia in più di un tratto e potrebbe risultare facilmente soporifera per il pubblico di oggi: assolutamente inadatto, quindi, a chi si aspetta colpi di coda e thrilling intenso. Qui è come se Carpenter si sia crogiolato troppo nelle proprie idee, finendo così per sfornare un prodotto gradevole soltanto per gli iper-appassionati. Buono, comunque, il livello della regia, capace di rappresentare un doppio o triplo livello di vicende in contemporanea, senza mai creare confusione ed unendo vari punti con intelligenza ed efficacia. Peccato per gli effetti speciali, davvero troppo essenziali: qualche oggetto in movimento, qualche ombra indefinita, qualche orologio che si spacca e delle automobili che si avviano senza guidatore sono un po’ pochino per parlare di un horror corposo. E questo rimane vero, purtroppo, anche contestualizzando il tutto al periodo di uscita di “The fog“…