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  • Wishmaster – Il signore dei desideri: uno degli ultimi scampoli di autentico horror anni 90

    Wishmaster – Il signore dei desideri: uno degli ultimi scampoli di autentico horror anni 90

    1127: in Persia viene evocato un demone jinn, in grado di esaudire tre desideri a chi lo evoca per poi, finalmente, avere il dominio del mondo. Fermato per tempo da un sacerdote dell’epoca, viene rinchiuso in una gemma rossa. La stessa che, secoli dopo, verrà trovata accidentamente dalla protagonista…

    In breve. Horror di marchio USA sulla base di modelli particolarmente consolidati e di successo qualche anno prima (su tutti, Hellraiser). Ci sarebbero tutti gli ingredienti del film perfetto, soprattutto a livello visuale, se non fosse per un finale vagamente didascalico e qualche crepa nello script.

    Alla regia del primo Wishmasher troviamo Robert Kurtzman, molto a proprio agio con gli effetti speciali – che infatti vengono sfoggiati fin da subito – oltre ad avere una considerevole esperienza con il mood dell’horror. Ha lavorato, ad esempio, a Misery non deve morire, La casa 2 e Nightmare 5. Wishmaster, primo film di una saga di discreto successo prolungatasi fino al 2002, è anche una delle sue rare occasioni di poter lavorare alla regia, con un soggetto di Peter Atkins che si ispira alla demonologia classica, ovvero la figura del jinn. Nella tradizione, infatti, i jinn si fanno risalire all’epoca pre-musulmana, e sono entità malvage simili ai goblin o al “genio” reso popolare da Le mille e una notte, tant’è che nel film si esplicita ironicamente che il tutto non ha nulla a che vedere con Robin Williams (che nel cartone animato Aladdin, targato 1992, aveva dato la propria voce al Genio della lampada). Del resto è assodato che la tradizione favolistica abbia preservato soltanto gli aspetti rassicuranti del “genio”, rendendolo simile all’ironica figura disneyana che abbiamo conosciuto anche in Italia ai tempi, ed occultandone la natura tradizionale che lo rendeva, di fatto, più simile ad un beffardo demone.

    Il jinn di Wishmaster è molto più fedele alla tradizione – per quanto ciò avvenga in una azzardata chiave splatter – e sì, esaudisce ogni desiderio, ma lo fa spesso e volenieri a svantaggio della vittima, spesso raggirandola come avviene con la commessa trasformata in un manichino per assecondare la sua volontà di rimanere giovane & bella a vita. Il demone protagonista di questo horror alquanto scenografico, ricchissimo di splatter e compatto, è un muta-forma che si nutre dei desideri espressi dai malcapitati che incontra, fino ad assumere la parvenza di un uomo d’affari, potente ed affabulatore, che vorrebbe chiudere il cerchio per dominare il mondo. Alla malvagia creatura si opporrà Alexandra, protagonista classica di questo sottogenere dell’orrore, personaggio discretamente caratterizzato quanto vagamente fiacco per certi aspetti.

    I jinn rappresentano una sorta di demone sempre esistito, vagamente lovecraftiano, scaltro e imprevedibile nell’esaudire i desideri altrui e sempre mirato ad accrescere il proprio potere. Desideri che, inciso, ricadono in due casistiche fondamentali: vanità (soldi, bellezza) o addirittura la morte di qualcun altro, un po’ come avveniva anche in Death Note. Desideriamo spesso le peggiori nefandezze contro i nostri nemici, la vita lunga, la ricchetta o la bellezza eterna – salvo poi pentircene, rimanere travolti dal senso di colpa, ingannati e via dicendo. L’analisi psicologica è un po’ didascalica nei toni, ma sostanzialmente regge e non appesantisce la narrazione.

    Il personaggio più emblematico in tal senso è peraltro proprio Alexandra (Tammy Lauren), alle prese con un passato traumatico (ha perso i propri genitori in un incendio, riuscendo a salvare solo la sorella) e per cui il contatto con il jinn, evocato accidentalmente, si prefigura come un autentico incubo ad occhi aperti, a intermittenza.

    C’è anche da dire che, nonostante la scenaggiatura sia quasi perfetta, è presente qualche piccola forzatura, tra cui il fatto che il jinn non sembra poter fare nulla che non sia espressione di volontà altrui, per quanto poi – in alcuni momenti – sembri allegramente contravvenire alla regola, senza troppe spiegazioni. D’altro canto, ed è l’unica critica sostanziale che sento di poter muovere al film, Alexandra è un po’ troppo sul mood “risolutore made-in-USA”, ed affronta il demone in modo un po’ troppo gradasso (leggasi: poco credibile), un po’ come nella gloriosa tradizione dei film d’azione / horror niente male quanto un pochino grezzi nei modi (non è un azzardo pensare a Giorni contati, a mio avviso, per capire a cosa mi riferisco).

    La tagline “attento a ciò che desideri” con cui venne lanciato Wishmaster nel 1997, dal canto suo, è altamente suggestiva e sembra essere perfettamente in linea con questo spirito, che cavalca l’horror psicologico spesso e volentieri ma che, alla prova dei fatti, è un terrore più d’azione che mentale. Molte trovate sono davvero originali, su tutte la scena del party che diventa una mattanza e soprattutto le statue degli dei dimenticati che si animano ed iniziano ad uccidere. È l’horror inventato da Clive Barker, in fondo (Hellraiser), in cui creature infernali si innestano nel mondo moderno senza troppi complimenti, con la semplice e cruda finalità di infliggere sofferenza all’uomo, e qualche scampo di horror surrealista davvero suggestivo (Alexandra intrappolata nella gemma, la sorella dentro un quadro). Una metafora visiva dei mali del mondo che, col tempo, è stata sempre meno utilizzata dai registi, se si pensa che gli horror fantasy sono sempre meno sfruttati e popolari: varrebbe la pena, forse, dare uno sguardo anche a Jeepers Creepers, sempre sulla falsariga di Wishmaster, anche perchè il creeper protagonista è davvero molto simile al genio che  si aggira in questo film.

    È anche il caso di citare la massiccia e insistita presenza di effetti speciali, uno splatter all’ennesima potenza che rende la visione alquanto spettacolare e suggestivo al netto, forse, di una conclusione della storia vagamente semplicistica e forzosamente rassicurante quanto necessaria nella misura in cui il jinn dovrà materializzarsi nuovamente negli altri tre film della serie. Nel finale, peraltro, Alexandra opta per un desiderio che possa annullare la circostanza originaria che ha scatenato il demone, eliminando così la dimensione temporale in cui si era trovata; su questo si sarebbe potuta sviluppare qualche sottotrama interessante (tipo il colpo di genio che aveva fatto concepire, ad esempio, L’armata delle tenebre), ma si opta per la soluzione più semplice – una sola linea temporale, un solo universo pensabile, una unica dimensione. E non finisce qui: nella dimensione “ripulita” da Alexandra il jinn non solo non si manifesta, ma lei decide di concedersi all’amico che aveva in precedenza friendzonato. Happy ending e tutti a casa, insomma, in cui vediamo la vittima di un trauma che decide di lasciare spazio a sentimenti repressi, come se il pericolo scampato fosse liberatorio a prescindere, in qualche modo.

    Siamo lontani dalla tradizione nichilista dei vari Nightmare, forse l’ispirazione più palese per la creazione del demone (Wes Craven peraltro lavorò alla produzione, in questo film), e c’è da riconoscere che se il jinn non è mai diventato iconico come Freddy Krueger, un motivo deve pur esserci. Rimane un’eco potente che si ispira alla serie Ai confini della realtà / The twilight zone, in cui certi episodi assumevano una valenza didattico-didascalica, e c’era una certa compatezza narrativa priva di fronzoli, al netto di personaggi non sempre convincenti al 100%. Wishmaster si avvale della partecipazioni di volti noti dell’horror e della fantascienza, a partire da Robert Englund a finire con Tony Todd, Kane Hodder e George Buck Flower, e anche Tom Savini ha avuto una parte attiva nella creazione degli effetti speciali.

  • No, non volete davvero guardare “A Serbian Film”

    No, non volete davvero guardare “A Serbian Film”

    A Serbian film (un film serbo) è un titolo solo apparentemente innocuo per uno degli horror più espliciti, crudeli e privi di fronzoli che siano stati mai girati fino ad oggi. Oggetto di numerose controversie per via di un certo tipo di rappresentazione della violenza, in cui non si risparmiano dettagli macabri ed in cui vengono violati diversi tabù, impossibili da raccontare nella loro puntualità senza cogliere il contesto generale.

    La poetica del film di per sé sarebbe anche chiara, dato che vuole ergersi a metafora o allegoria del mondo in cui viviamo, in cui il capitalismo si erge a titolo di imbattibile mostro finale delle nostre esistenze, con l’aggravante di provare a sedurci con le sue allusioni erotico-monetarie: se hai i soldi hai tutto, paghi le bollette, mangi da dio, vivi in una villa tutta tua e il sesso è garantito, automatico, l’hai appena comprato, e non serve lo scontrino, figuriamoci. Il problema è la forma, se vogliamo chiamarlo problema, ammesso che una qualsiasi espressione artistica possa essere un priblema e, per quello che vale, dando per buono che non sia così. Il problema – nel senso a cui ci riferiamo – è il modo in cui le scene vengono proposte, nell’ottica craveniana di suscitare disgusto, repellenza, orrore puro perchè figlio di una violenza esplicita, mai accennata, fin troppo dettagliata.

    Opera sadiana ma non sadica secondo Nocturno, che lo contestualizza nell’ambito dei disturbi post traumatici delle feroci guerre in ex Jugoslavia (come fa anche Davinotti, del resto) che tormentarono gli anni Novanta, di cui questo horror potrebbe ritenersi figlio e simbolo, un po’ come accadde per Combat Shock rispetto al conflitto in Vietnam. La chiave di lettura post bellica è a mio parere estremamente interessante, perché non a tutti sarebbe venuto in mente di collegare l’idea di rappresentare gli orrori del periodo dicendoci che si tratta di un film (che parla) di una specifica nazione, in un periodo storico di cui tanti hanno forse dimenticato, senza aggiungere altro, lasciandoci la morbosa curiosità di guardare, di dare una sbirciatina, al limite tappandosi gli occhi e le orecchie in alcune sequenze.

    Ma A Serbian film è anche da considerarsi una discesa negli abissi più profondi della perversione come scritto da Silenzio in Sala, il quale ne sottolinea la primalità come opera puramente horror, da annoverarsi tra gli horror politici e sociologici che una volta erano patrimonio tipicamente USA, da Wes Craven fino a Tobe Hooper. La purezza di quest’opera rispetto al genere è ovviamente proporzionale all’insopportabilità di determinate sequenze, che sono diventate vere e propri oggetto di culto e di rehash implicito da parte degli appassionati del film, producendo lo stesso effetto che si è verificato per Operazione Luna, a ben vedere: un rimontaggio delle sole scene più forti, riproposto sul web in mille salse, che ha costituito una vera e propria sottocultura complottista, quella dei voyeur dagli istinti sadici (o sadiani) che rifuggono il contesto, la cornice, per mostrare l’orrore in quanto tale. E non è detto che ciò possa cogliere l’essenza del film, a ben vedere.

    Il risultato è che sono quasi sicuramente di più le persone che hanno visto solo le scene estreme e non il film per intero, e questo è un effetto collaterale di moltissimi di questi prodotti che tendono a fare dello sperimentalismo la propria bandiera (mi vengono in mente in ordine sparso Flesh of the voidSnuff 102 che, sulla stessa falsariga o quasi, potrebbero aver subito la stessa sorte, decontestualizzati in nome del dio post moderno o strutturalista). Srđan Spasojević (regia) e Aleksandar Radivojević (sceneggiatura) erano quasi certamente sicuramente consapevoli di quello che stavano per produrre, E di quanto strascico e discussione avrebbe prodotto un lavoro del genere.

    È anche probabile – a posteriori – che non ci sia più spazio per opere di questo tipo nei tempi in cui viviamo, più corrotti di quanto qualsiasi regista horror avrebbe potuto immaginare. Ma opere del genere rimangono simboliche di un modo di percepire un trauma collettivo, un modo per esplicitare il non detto e per recuperare nel rimosso delle nostre coscienze gli errori della violenza e di ogni tipo di guerra, sia pure con il rischio (non da poco) che quella violenza così esplicita, diretta, traumatizzante, che coinvolge esseri umani di ogni età, ordine e grado, possa essere fraintesa o capovolta nel suo reale significato.

    Negli anni Settanta avremmo parlato di shockploitation: rivedendo questo film oggi siamo molto consapevoli che le etichette non servono a nulla, per quanto in quel periodo degli anni anni Duemila andasse di moda parlare di torture porn. Un’etichetta poco adeguata che, oltre a essere fuorviante, in questo caso rischia di innescare le reazioni più scomposte: perché se lo scopo è compiacersi di quello che si guarda allora vale la pena guardare altro. Se invece l’idea è quella di esplorare nell’animo scuro dell’uomo può essere il film giusto, ma non si può – nè si deve – approcciare a un prodotto del genere con la leggerezza e l’ingenuità di chi si aspetta un’opera horror estrema: in questo caso siamo ben oltre quella soglia. Ben oltre la soglia fissata dalle 120 giornate di Sodoma di Pasolini, a cui l’opera dovrebbe peraltro ispirarsi almeno in parte.

    (aggiornamento di marzo 2024)

    Trama

    In breve: horror estremo particolarmente abile a costruire un sottotesto attrattivo (quello del mondo del porno) per poi renderlo orrorifico, disagiante e profondamente sgradevole. Film violentissimo in ogni senso, direi fino al paradosso (raramente qualcuno si è spinto a questi livelli), con un significato politico ben definito: A serbian film è quasi un manifesto anarchico, ma presenta almeno un paio di scene in cui sarà impossibile non coprirsi gli occhi con le mani. Se si regge, e si sa “leggere”, potrebbe valerne la pena.

    Nella Serbia dei giorni nostri, Milosh è un ex- attore pornografico disoccupato e con famiglia da mantenere, il quale un bel giorno – per necessità – accetta di girare un film su proposta di un ambiguo produttore (Vukmir). Le condizioni sono atipiche: dovrà recitare senza sapere i dettagli della sceneggiatura – forse un ennesimo “grande fratello” – ed in ballo vi è un compenso esageratamente alto.

    Sinossi

    La trama di “A Serbian Film” ruota attorno a un ex attore porno, Milos, che viene coinvolto in un nuovo progetto cinematografico promettente. Tuttavia, man mano che il progetto avanza, Milos si rende conto che le richieste del regista sono sempre più estreme e perverse, portandolo in situazioni di violenza sessuale e violenza inimmaginabili.

    Un film controverso

    A Serbian Film rientra nel cinema “estremo” più discusso nei forum che visto al cinema, alla prova dei fatti; e questo non è nemmeno un caso isolato, perchè quando si spinge il pedale su determinati argomenti sensibili è inevitabile, oltre una certa soglia, che possa scattare l’effetto “Salò” di Pasolini – altro film visivamente tremendo ma, alla prova dei fatti, più discusso che visto. Le critiche spietate a questo film – come prodotto ultra-violento e iper-esplicito, ad un certo punto – sono lecite quanto probabilmente figlie di una tendenza piuttosto “mainstream“: la repulsione del pubblico verso le tematiche sessuali violente (non tanto per quelle “solo” violente, che Tarantino e compagnia hanno già demistificato da anni, con la storia della graphic violence e annesse supercazzole).

    È chiaro che se i termini della discussione sono questi, e se davvero chiunque può giocare sull’effetto virale semplicemente facendo un qualsiasi torture porn, lo scenario diventa desolante. Diventa impossibile parlare di horror perchè tutto quello che scriveremo, in qualche modo, finirebbe per essere sbagliato a prescindere. Peraltro, Spasojevic in questa sede offre non pochi spunti suggestivi, addirittura inserisce una metafora politica e sociale nel film, del tutto priva di mezzi termini (sesso anale per indicare metaforicamente il rapporto tra un politico ed il suo elettore, oppure tra te ed il tuo capo, oppure ancora – per estensione – tra un cineasta e la censura). Il tutto, ovviamente, ricorrendo all’arma del trauma visivo, e spesso abusandone allegramente, a dirla tutta (certi dettagli di A serbian film sono inutilmente insistiti, quasi da sembrare insulsi).

    “Tu devi solo comparire, essere quello che sei, rilassarti ed agire come Milos agirebbe…”

    Sapore di snuff

    Il sospetto che “A serbian film” abbia qualcosa di atipico e di morboso assale lo spettatore fin dai primi istanti del film, del resto, alimentando la netta impressione che Milos stia per girare una sorta di snuff. La sostanza appare progressivamente più chiara durante lo scorrere del film, e attenzione: non si tratta di un prodotto auto-referenziale per morbosi affamati di violenza gratuita, dove la trama è poco più di un pretesto (vedi ad esempio Snuff 102 o Grotesque). È invece magistrale, e alla base dell’intero lavoro, la resa del contrasto lacerante tra la tranquillità familiare del protagonista (che conduce una vita non eccezionale, che ama poco e che rimpiangerà nel seguito) e la spirale di sangue e sesso estremo a cui molti spettatori increduli faticheranno a trovare un vero motivo. L’unico motivo è che Milos farebbe qualsiasi cosa, letteralmente, pur di guadagnare soldi per mantenere la propria famiglia e non farla soffrire, anche a costo di essere, a sua volta, abusato mentalmente o fisicamente.

    All’inizio delle riprese – che avvengono in quello che sembra essere un orfanotrofio, un luogo morbosamente atipico per girare un porno – Milos trova vari cameraman vestiti come addetti alla sicurezza che ne registrano minuziosamente i movimenti: una sorta di “grande Fratello”, sparso nei vari ambienti, dove Vukmir (il feroce committente) recita la parte del voyeur. Disgustato e imbarazzato dalle circostanze surreali in cui si trova, Milos decide inizialmente di mollare il set: e per questo la pagherà cara.

    Amo giocare con le metafore. Quando metti una metafora nuda sul tavolo, è come se facessi un disegno. Ad esempio quando diciamo “il tuo capo ti sta fottendo” potremmo disegnarlo mentre lo fa – ma sappiamo che non lo sta facendo sul serio. Stiamo quindi dipingendo come ti senti, ed è quello che abbiamo fatto nel film. E’ come se ci sentissimo violati dall’autorità, dalle nostre autorità che nel campo politico ed artistico sono così restrettive e mentalmente ristrette da rendere impossibile qualsiasi cosa. Quando vai a svolgere il tuo lavoro regolare, è come se ti stessi prostituendo no-stop. Ecco il perchè della natura pornografica del film: rappresenta qualsiasi lavoro indecente tu abbia mai fatto. E’ un tipo di pornografia perchè ti fai fottere per dare da mangiare alla tua famiglia. Stiamo rendendo metafore nella carne, come il grande David Cronenberg, una delle nostre grandi ispirazioni per il film (assieme agli horror anni 70 americani, come detto altro nell’intervista, ndr) (A. Spasojevic, intervista a Bloody Disgusting)

    Diversi sono i paralleli narrativi visibili nel film, tra cui il perenne contrasto tra l’umanità del protagonista e l’insostituibilità degli affetti familiari, in lotta feroce con l’istinto di protezione che diventa, a quel punto, quasi animalesco, capace di proteggere, rassicurare o terrorizzare. Homo homini lupus, insomma. In “A Serbian Film” si mostrano incesto, stupro, un sesso sfrenato consumato fino alla materiale incoscienza e soprattutto l’idea della Morte, a seguito della quale non esiste alcun sentimento di pietà, ma solo ulteriore strumentalizzazione e spettacolarizzazione. Memorabile, poi, la mutazione di Milos: tra ricordi confusi e inganni subdoli, la pornostar dal buon cuore arriva paradossalmente ad avere ribrezzo della sua stessa vita sessuale, tanto è riuscito un sadico burattinaio a manipolarne la personalità.  Una Morte che trionfa anche nel terribile finale: un finale che distrugge l’illusione di qualche attimo di “aver salvato il salvabile“, lasciando solo desolazione e un profondo nichilismo. L’amore, l’unità della famiglia, la coerenza dell’uomo – vengono disgregati d’un sol colpo da questa rappresentazione di un Potere sostanzialmente pasoliniano.

    L’estremo come poetica sovversiva

    Mentre tantissimi critici (spesso in buonafede o distratti da una forma che rischia di affossare la sostanza) si affannano a sconsigliare al pubblico la violenza della pellicola, non dimentichiamo che è in realtà una brutale metafora contro il Potere, che costringe, secondo le parole del regista, le persone a eseguire azioni contro la propria volontà, pur di poter sopravvivere. E se cerchi di opporti, o di trovare strade alternative, vieni prima boicottato, poi distrutto negli affetti e – a quel punto – desideri soltanto auto-eliminarti. Roba che si è vista raramente a questi livelli di esasperazione, come nemmeno accade nel pur crudo “Il centipede umano“.

    Le vittime sono la cosa più venduta di questo mondo…

    In definitivaSrpski film” infrange, con uno stile ibrido tra shockumentary e cinema-verità, i vari tabù sulla perversione, rendendoli orrorifici e ancora più aberranti di quanto non sia il solo nominarlicome in un nuovo Grande Fratello versione hardcore, con comuni cittadini ridotti a sudditi sessualmente passivi, semplici marionette senza più nulla al proprio interno. Una metafora a mio parere talmente interessante, al di là del linguaggio che non piacerà a tutti, che sembra strano che qualcuno non ci abbia pensato prima.

    Un film sostanzialmente valido per gli amanti dell’horror estremo, crudele e pesantissimo, ancor più per la metafora politica anti-governativa (da approfondire e contestualizzare, certamente), e con interpretazioni tutte sopra le righe.

    “A Serbian Film” è un controverso film horror serbo del 2010, diretto da Srdjan Spasojevic. Il film ha suscitato molte critiche e dibattiti per la sua rappresentazione esplicita di violenza sessuale e altre situazioni disturbanti. La trama segue un ex attore porno che accetta di partecipare a un nuovo progetto, solo per scoprire che le azioni richieste diventano sempre più brutali e insopportabili.

    Cast e Produzione

    Il cast del film include Srdjan Todorovic nel ruolo principale, insieme ad altri attori serbi.

    La produzione è stata guidata dal regista Srdjan Spasojevic.

    Curiosità

    Il film è stato ampiamente discusso e criticato per la sua rappresentazione esplicita e spaventosa di temi controversi, portando a discussioni sulla censura e la limitazione della libertà artistica.

    La questione della libertà artistica e dei contenuti controversi nei film è un argomento complesso e dibattuto, e probabilmente A serbian film è uno dei prodotti che più ha scatenato la discussione in questa veste. Rispondere a un’affermazione sulla necessità di vietare legalmente film come “A Serbian Film” richiede una considerazione equilibrata dei diritti individuali, della libertà espressiva e delle possibili implicazioni, anche se – per natura stessa del film – non è per nulla agevole farlo. Sappiamo che la libertà di espressione è generalmente garantita a chiunque, anche se i contenuti non fossero per tutti: del resto film terribili da visionare come Salò di Pasolini contengono scene eccessive che si collocano in una dimensione politica (criticare gli eccessi del potere), che è un po’ lo stesso che fa il regista qui.

    Ogni critica a A serbian film rischia di essere una polemica di natura politica e che accarezza pericolosamente l’idea di censura come desiderabile, cosa che dovrebbe farci inorridire più delle tremende scene contenute nel film stesso, ormai ben note.  Argumentare che anche se certi film possono contenere contenuti disturbanti o controversi, vietarli potrebbe aprire la strada a restrizioni simili su altri tipi di espressione artistica, limitando la diversità delle opinioni e delle visioni creative.

    Una legge che vieti determinati tipi di film potrebbe portare a un controllo eccessivo sulle opere artistiche, limitando la capacità degli artisti di esplorare temi oscuri o provocatori. Del resto anche i film controversi possono avere un valore educativo e critico. Possono servire come commenti sociali, spingendo il pubblico a riflettere su questioni importanti e a discutere nostro malgrado temi difficili. Invece di vietare un film per legge, potrebbe essere più appropriato stabilire restrizioni d’età chiare e accurate, consentendo al pubblico adulto di prendere decisioni informate sulla visione dei contenuti. Ciò rispetterebbe i diritti dei genitori di decidere cosa è appropriato per i loro figli e allo stesso tempo consentirebbe agli adulti di prendere decisioni autonome.

    Non dovremmo poi nemmeno ricordare, ma è bene farlo lo stesso, che il cinema è un’arte che può affrontare una vasta gamma di emozioni, esperienze e temi. Alcuni film possono essere considerati opere d’arte e possono essere oggetto di analisi critica e dibattito. A serbian film secondo noi non lo è, a dirla tutta, ma ha pieno diritto di esistere.

    Spiegazione Finale (senza spoiler)

    Come accennato in precedenza, a causa della natura estremamente disturbante del finale di “A Serbian Film”, eviterò di entrare nei dettagli. Tuttavia, posso dirti che il finale del film è noto per essere particolarmente sconvolgente e oscuro, coinvolgendo ulteriormente il protagonista in eventi traumatici e violenti che hanno alimentato molte delle polemiche e delle critiche rivolte al film. Ricorda che “A Serbian Film” è stato oggetto di numerose controversie a causa delle sue rappresentazioni violente e disturbanti. Sebbene possa suscitare curiosità, è importante considerare attentamente se desideri esplorare un film con contenuti così forti e potenzialmente traumatizzanti.

    A serbian film, dove vederlo?

    Il film è disponibile in streaming su Google Play

  • Spogliamoci così, senza pudor… è la commedia erotica di Sergio Martino

    Spogliamoci così, senza pudor… è la commedia erotica di Sergio Martino

    Titolo: Spogliamoci così, senza pudor…

    Regia: Sergio Martino

    Anno: 1976

    Genere: Commedia erotica

    Cast

    • Edwige Fenech
    • Vittorio Caprioli
    • Lino Banfi
    • Carlo Delle Piane
    • Giuseppe Pambieri

    Storia e produzione

    “Spogliamoci così, senza pudor…” è un film italiano del genere commedia erotica diretto da Sergio Martino. Ambientato negli anni ’70, il film segue le vicende di un gruppo di amici che si trovano in situazioni imbarazzanti e impreviste in una località turistica.

    Sinossi

    Il film racconta le avventure e gli equivoci che si verificano durante le vacanze di un gruppo di amici in una località turistica. Le situazioni comiche si susseguono quando si trovano coinvolti in fraintendimenti romantici e imbarazzanti. La trama ruota attorno a equivoci amorosi e situazioni spiacevoli che mettono alla prova le relazioni e la moralità dei personaggi.

    Curiosità

    Il film appartiene al genere della commedia erotica all’italiana, che era popolare nel cinema italiano degli anni ’70. Queste pellicole spesso mescolavano umorismo e contenuti piccanti, creando un mix caratteristico del periodo.

  • Wanna: su Netflix la docuserie sulla televenditrice più discussa di sempre

    Wanna: su Netflix la docuserie sulla televenditrice più discussa di sempre

    Wanna è la docuserie lampo di Netflix (di appena 4 puntate) che racconta la storia di due tra i personaggi TV più iconici di sempre: Wanna Marchi e Stefania Nobile, coppia TV di madre e figlia, nella veste delle iconiche venditrici di prodotti cosmetici (e di lì a poco, di consulti magici, rituali del sale, del desiderio, del danaro, del corallo), dedite ad una singolare forma di upselling telefonico che venne, infine, giudicato come estorsione da una giuria. La scrittura della docuserie in questione è affidata ad Alessandro Garramone, già noto per la sceneggiatura di Italian Horror Stories, mentre produzione e regia sono affidate a Gabriele Immirzi e Nicola Prosatore.

    Tutti abbiamo bisogno di illusioni, nella vita! (W. Marchi)

    Si tratta di quattro episodi per una durata complessiva di circa due ore, visionabili su Netflix a partire da settembre 2022, con la presenza di Wanna Marchi, Stefania Nobile, Federica Landi, Roberto Da Crema, che vengono sia proposti in veste storico-televisiva. Da Crema, ad esempio, è il televenditore che oggi sarebbe probabilmente un meme internet, dal caratteristico tono di voce alto ed esasperato che, come ammette lui stesso candidamente, era inizialmente legato alla sua scarsa esperienza in ambito TV, che interpretava le proprie performance come fosse in un centro commerciale senza microfono. La docuserie è ricca di lunghe, personali e approfondite interviste, mentre viene esplicitato nel finale come le protagonisti abbiano scontato le loro pene e siano, ad oggi, libere cittadine. Wanna Marchi proviene da una famiglia di umili origini, con un marito con cui ha un rapporto complicato ed una figlia a cui è legatissima, tanto da farla esordire in TV come sua spalla fin da giovanissima (il documentario è infarcito di spezzoni TV d’epoca, ovviamente).

    La dinamica delle televendita viene spiegata dalla docuserie ben nel dettaglio: l’hype delle seminali e numerosissime TV commerciali (primi anni ottanta) si stava per scontrare con la necessità di fare cassa, cosa non facile per imprenditori a volte improvvisati o poco avveduti che, come avvenuto nel caso in questione, sfruttavano televendite “memetiche”, facilmente riconoscibili, dirette, molto aggressive, che portarono inaspettatamente a vendite stellari.

    Parliamo della vendita di cosmetici che poi, come viene mostrato, ad un certo punto più non basta: si passa alla vendita di “numeri fortunati” al lotto, di talismani contro la sfortuna e via dicendo, in una catena commerciale infinita che prevedeva, per inciso, l’interlocuzione diretta per telefono con tutti i clienti (circa 300 mila, di cui solo qualche centinaio accettò di testimoniare al processo subito nel 2006). Fa sensazione pensare a tutti questi italiano che “credevano“, come si meraviglia di ammettere una ex centralinista durante un’intervista: il che indica la generazione sottovalutazione del sentimento di credenza o credulità popolare, a nostro avviso, mettendo in luce – cosa che viene apertamente ammessa – come il successo del trio Marchi, Nobile, Do Nascimento fosse da imputare più a cosa (e come lo) dicevano, che ai prodotti in sè. Non importa se poi fossero, come è stato, cure dimagranti o per la cellulite, numeri del lotto, talismani, fino ad arrivare alle televendite telefoniche basate sull’urgenza, sul pericolo imminente quanto non sulla minaccia ai clienti, a livello implicito o esplicito. Non importava perchè il prodotto si situava in un territorio borderline che, ad un certo punto, sfugge di mano alle stesse protagoniste.

    La Marchi auto-assume (con grande personalità ed una buona dose di sfrontatezza, mescolata ad una incoscienza di fondo che quasi certamente fu presente tra gli “ingredienti” di questa storia) il ruolo di leader aziendale, guadagnando tantissimi soldi grazie ad una capacità teatralizzante di effettuare vendite, sfruttando la credenza di cui sopra. Il tutto fino a  insospettire la Finanza, grazie ad una celebre segnalazione al programma Striscia la notizia ed una signora che si prestò a fare da “gancio” per avviare l’inchiesta (un format, quello di Mediaset, che possiede forse un’idea discutibile della comicità e della satira, ma che su questi frangenti è sempre stato molti passi oltre chiunque altro). Fa ancora più impressione, del resto, la linea difensiva delle Marchi, che si muove (estremizzando un po’ la sintesi) sulla falsariga del darwinismo sociale, per cui non sarebbe affatto un delitto raggirare degli ingenui.

    La sua aggressività iconica, in barba a qualsiasi criterio di razionalità e tabù moderno sul body shaming (la Marchi appellava fin dall’inizio come “grasse” le clienti target a cui si rivolgeva, e questa cosa era uno dei tratti distintivi del suo registro di comunicazione), sembrava far parte di una strategia psicologica (probabilmente non del tutto consapevloe) quanto alla prova dei fatti efficace: l’attacco frontale e senza mezzi termini serviva a sbarazzarsi della reticenza nell’acquisto, costruendo un bisogno nel futuro acquirente e facendolo sentire in dovere di fare come dicevano dall’altra parte del telefono.

    Cosa che portò la tele-venditrice più famosa d’Italia negli anni ottanta e novanta a guadagnare molti soldi, salvo doversi confrontare con situazioni non sempre trasparenti (al dramma familiare si aggiunge, ad esempio, la circostanza con cui il suo negozio viene in una circostanza preso di mira, incendiato da ignoti). Niente male, a conti fatti e dopo il trascorrere di qualche tempo, per una persona che nasce e cresce nella promozione di prodotti cosmetici, e che racconta le circostanze incredibili con cui ha arricchito la propria esistenza, fino a scontrarsi con un fallimento negli anni novanta e un processo per truffa e associazione a delinquere.

    Approfondimento esterno: Psicologia e manipolazione mentale

    Wanna colpisce nella lucidità delle testimonianze presentate dai protagonisti delle vicende, ed è interessante cogliere una sostanziale (e poco ovvia, per certi versi) riflessività della vicenda: se accettiamo che personalità del genere siano tipi psicologici più o meno “machiavellici“, il fatto che siano riuscite a vendere l’improbabile a varie gradazioni non le immunizza, come potrebbe sembrare, dal dare per scontato che il loro target fosse altrettanto sincero. In pratica, stando a questa visione psicologica, se è vero che la manipolazione c’è stata è altrettanto vero che non sarebbe comunque facile, per loro, notare a loro volta se qualcuno stesse mentendo

    Magra consolazione, per le vittime, ma tant’è: se una personalità machiavellica tende per sua natura mentire, il rovescio della medaglia è che non per forza si accorgerà se l’Altro mente, a sua volta. Il che suggerisce una escalation di significanti per cui, per associazione di idee neanche troppo arbitraria, che ciò che hanno fatto non siano le sole ad averlo fatto, che insomma il mood trasmesso da Wanda sia stato quasi riciclato da certe multinazionali digitali, per non parlare dei vari settori borderline di vendita-fuffa di cui il web è zeppo. A quel punto non puoi nemmeno farne una questione personale, per così dire, e non ti resta che chiederti: ma come hanno fatto, in quegli anni, a vendere più prodotti di quel tipo che cellulari costosi? Altro interrogativo non da poco consisterebbe, poi, nel chiedersi se quanto avvenuto sia così localizzato, o sia diventato, al contrario, emblematico di un certo modo di vendere abusando della buonafede altrui (con vari gradienti di gravità, s’intende) mediante leve psicologiche, cosa a cui dovremmo essere abituati un po’ tutti, peraltro, a giudicare dal ritmo e dal tenore delle telefonate di marketing da cui siamo tragicamente tempestati.

    Il sistema di vendita della Marchi, così come viene descritto nella docuserie in questione, ricorda in parte quello proposto dalla versione moderna del telemarketing, il digital marketing nelle sue forme più aggressive, anche lì basato sulla costruzione di bisogni e su vari gradi di upselling – ad un certo punto si iniziano a vendere numeri del lotto vincenti e, nel caso in cui non uscissero, si proponeva la lettura delle carte da parte dell’iconico, anche qui, Mário Pacheco do Nascimento. Nulla che in effetti su internet non sia ampiamente diffuso da anni, e sul quale sono cambiate certe modalità di erogazione, in parte, ma non la sostanza: la distrubuzione mediante ads ambigue di info-prodotti fake, pseudo-formazione e via dicendo, rimane ancorata al registro dell’aggressività, dello sminuire il prossimo, con marketer ambiziosi, sprezzanti ed egotici (oltre che moralmente discutibili), dell’”io so’ io e voi non siete un cazzo” di marco-grilliana memoria, uno strano mood che dovrebbe soltanto infastidire ma che, a conti fatti, accresce solo il senso di urgenza dell’acquisto nelle persone più fragili, in un delirio di iperboli e tecniche di manipolazione (implicita ed esplicita) che, spiace riconoscerlo, continuano a funzionare ancora oggi.

    La canzone “prendimi” della colonna sonora di Wanna è il brano Cinque minuti di te di Don Antonio, The Graces. Wanna è disponibile in streaming su piattaforma Netflix.

  • Saw – L’enigmista: il thriller modello argentiano di J. Wan

    Saw – L’enigmista: il thriller modello argentiano di J. Wan

    Lawrence e Adam, un chirurgo e un fotografo, si ritrovano imprigionati dentro il bagno di quello che sembra essere un edificio abbandonato; kafkianamente, sono stati rapiti senza conoscerne il motivo. Nel frattempo L’enigmista, un sadico serial killer, ha preparato per loro una trappola dalla quale i due dovranno provare ad uscire…

    In breve. Gran film: tensione, gore, ottima regia e recitazione ne compongono l’andamento. Dentro c’è davvero tutto: suggestioni iniziali alla “Cube“, thriller psicologico, cenni alla Dario Argento dei tempi d’oro, horror e splatter. Un vero e proprio filmaccio che eleva la media del genere, inchiodando a più riprese alla poltrona lo spettatore, e raccontandoci gli orrori del nuovo millennio.

    Bel tipo questo James Wan: idee valide, assoluta padronanza della macchina da presa, ricostruzione asettica e distaccata degli ambienti, buona conoscenza del cinema di genere e, soprattutto, giovane età all’epoca dell’uscita del film. Sembra essere un dato di fatto, del resto, che in molti casi i migliori horror escano fuori nei momenti di gioventù dei registi: nel caso di “Saw – L’enigmista” questo aspetto, pur essendo importante, è forse uno dei meno interessanti.

    Il primo di quella che diventerà una celebre saga (si è perso il conto dei seguiti, che ricalcano bene o male sempre la medesima idea) è un thriller incalzante e violento, dal forte feeling claustrofobico e che si distacca dalla tradizione dell’orrore “vedo-non vedo“, in grado di schiaffare sulla faccia dello spettatore la cruda realtà. Due persone vengono tenute imprigionate da un maniaco che si manifesta esclusivamente mediante una voce (o, al massimo, un video). Si tratta di un crudele serial-killer, “l’enigmista”, dalla storia piuttosto complicata (che i seguiti della saga chiariranno un po’ per volta), il quale ha deciso di imprigionare gli sventurati per un motivo preciso. Nel frattempo, quasi a voler loro insegnare il gusto della vita attraverso una estrema minaccia di morte, ha preparato delle micidiali prove di sopravvivenza, per superare le quali le vittime dovranno ricorrere al proprio istinto e capacità di improvvisazione. Sì, perchè il killer in fondo – paradossalmente – ama la vita, e non sopporta chi, come loro, mostra di averla disprezzata o di viverla in modo passivo.

    “Tecnicamente non è un assassino: lui fa in modo che le sue vittime si uccidano da sole.”

    Simile al predatore di esseri umani de “Il centipede umano“, strizzando l’occhio a Dario Argento in più di un’occasione, disseminando le strade della morte di indizi snervanti ed incomprensibili, “L’enigmista” sembra quasi suggerire un carpe diem in salsa splatter che farà la gioia di centinaia di appassionati, con effettacci insostenibili e situazioni spaventose distribuite in modo uniforme nella pellicola. In effetti questo primo episodio è un carosello del gore mica da ridere: Adam viene costretto a cercare in un putrido cesso un seghetto con il quale, per liberarsi da una catena, sarà costretto a segarsi un piede. Amanda (un’ennesima vittima, perchè – come si scoprirà – ce ne saranno parecchie), tossicodipendente, dovrà cercare la chiave per sbloccare una trappola mortale nelle viscere del suo compagno di cella (narcotizzato, ancora vivo), e così via. Il “gioco” del protagonista è, in sostanza, quello di costringere le sue vittime a ripetere gli stupidi gesti che commettevano nella propria vita, pena un grottesco suicidio se non dovessero riuscire nell’intento.

    Probabilmente uno dei pochi film del genere capace di rendersi interessante anche – secondo me – per chi non fosse, di suo, uno sfegatato fan dell’orrore.