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  • La fortezza: il film più mitologico (ed incompiuto) di Michael Mann

    La fortezza: il film più mitologico (ed incompiuto) di Michael Mann

    1941: un gruppo di nazisti viene inviato a sorvegliare una misteriosa fortezza, in una sperduta località rumena; alle prese con una forza crudele e sinistra, dovranno ingaggiare un professore ebreo per affrontarla.

    In breve. L’unico horror puro di Mann, abbastanza difficile da reperire e orrendamente mutilato rispetto alla director’s cut (che durava circa 3 ore rispetto ai 90′ della versione che è circolata). Un cult di cui il regista non sembra avere bei ricordi, anche perchè massacrato da buona parte della critica e del pubblico – non per demeriti propri, c’è da dire, ma per le circostanze che lo accompagnarono. Ad ogni modo, alcuni sprazzi sono notevoli e l’idea di fondo straordinaria; da vedere filologicamente.

    Uscito al cinema e pubblicato in seguito solo in LaserDisc e VHS, non esisteva in DVD fino allo scorso anno (per un mix di problemi legati, peraltro, ai diritti non disponibili sulla colonna sonora, notevolissimo lavoro dei Tangerine Dream), in Italia circola esclusivamente in una versione TV di qualità media, anche se in seguito ho trovato su Amazon.com sia il DVD che la versione in streaming, ma sono in inglese. Abbastanza sicuro, del resto, che il DVD disponibile sia Region 1 – per cui è visibile solo su lettori canadesi e USA – e che entrambe le versioni di cui sopra sono quelle di circa un’ora e mezza. Sì, perchè esiste un ulteriore mistero sulla versione uncut o director’s cut de La fortezza: una versione di 210 minuti (stando alla Wikipedia inglese, quantomeno) che andò male durante le anteprime e venne ridotta a quella che conosciamo dalla Paramount, ovviamente contro il parere di Mann (che a quanto pare bloccò la pubblicazione della versione completa in DVD). Questo comporta che nel film siano presenti dei “buchi” e dei salti temporali considerevoli, senza contare che alcuni cerchi non si chiudono narrativamente, lasciando il film in un senso di sospensione tutt’altro che affascinante. Film che, nelle intenzioni di Mann, avrebbe dovuto essere un mix tra una fiaba per adulti ed una caratterizzazione realistica dei dialoghi e dei personaggi, giocando sui toni dell’horror più simbolista e introspettivo (“A fairy story for grown-ups. Fairy tales have the power of dreams, from the outside. I decided to stylize the art direction and photography extensively, but use realistic characterization and dialogue.“)

    What are you? Where do you come from?

    Where am I from? I am… from YOU!

    Parlare de “La fortezza” di Michael Mann, pertanto, deve per forza passare per la conoscenza di queste micro-storie smarrite nel nulla; se l’intenzione del regista era di proporre un horror che simboleggiasse il fascino delle ideologie fasciste sulle persone, il risultato finale non sembra purtroppo essere all’altezza delle aspettative, anche per via di uno stile ibrido tra i tempi lenti da film d’autore (molte riprese si soffermano sui panorami molto più di quanto ci si aspetterebbe, ad esempio, e c’è un’attenzione esasperante sul parlato) e l’immediatezza dell’horror fumettaro (il Golem protagonista venne ideato dal fumettista Enki Bilal, e a vederlo oggi non sfigurerebbe in un cine-fumetto di quelli più popolari). Un ibrido già atipico di suo, certo non aiutato da una produzione travagliata e dal fatto che, soprattutto, gli effetti speciali siano monchi: Wally Veevers, supervisore agli effetti speciali, morì in post-produzione (e a lui è dedicato il film), senza lasciare alcuna indicazione su un’enorme quantità di girato. Probabile, quindi, che l’uncut non vedrà mai la luce ufficialmente per questo motivo: il regista si ritrovò con una grossa quantità di video grezzo di cui non sapeva cosa fare, per cui fu costretto a riadattare il finale per quello che poteva.

    Se i toni sono quelli ideali del genere, equilibrati e al tempo stesso follemente creativi di tanti film di culto del periodo (penso a Predator e, almeno in parte, Hellraiser), l’opera è quindi considerata sostanzialmente apocrifa: è chiaro che manca qualcosa al film. Per Mann fu un vero e proprio trauma e ne parlò poco o nulla in seguito, ad ogni modo il principale riferimento narrativo dovrebbe risiedere nel film Ardenne ’44: un inferno (1969) di Sydney Pollack, che possiede una storia ed una struttura in parte analoghe, seppur con i toni della commedia. L’idea di collocare i nazisti in un contesto horror-fantastico, con riferimenti storici ben precisi innestati in un intreccio inventato, è un qualcosa che oggi definiremmo “tarantiniano“: di per sè è una grande idea, perchè fornisce al regista uno strumento impagabile per comunicare un messaggio, con il linguaggio forte e disambiguo dell’horror. Il cast di livello (da Ian McKellen a Jurgen Prochnow, passando per Scott Glenn) e l’ambientazione sulfurea (in quasi tutto il film è visibile una nebbia sinistra) impediscono qualsiasi pensiero di stroncato di questo lavoro, pur considerando il suo problema di fondo: è un horror apocrifo.

    La fortezza è un vecchio castello in pietra abbandonato, collocato in Transilvania nei pressi del Passo di Dinu (inesistente nella realtà), costellato di 108 T fatte di nickel, fattore scatenante la rovina dei nazisti. Girato in una vecchia cava abbandonata nel Galles, ambientazione del tutto naturale ed in grado di evocare sinistri presagi già di suo, alterna parte delle riprese nelle caverne di Llechwedd Slate, a sua volta “a black monumental structure” come ebbe a dire lo stesso regista in una definizione sintetica, espressiva e completa. La fortezza è un horror a forti tinte fantasy come tanti se ne sono visti nel cinema, eppure con una sua propria originalità di fondo – derivante almeno in parte dal romanzo da cui è tratta la storia, di F. Paul Wilson, a detta dei più superiore alla versione filmica. L’autore del romanzo, peraltro, non ha mai fatto mistero del suo disaccordo con la versione di Mann del suo libro, che ad esempio ha visto la sostituzione del vampiro protagonista con un Golem (figura antropomorfa della mitologia ebraica), riferendolo come un film visivamente intrigante, ma per molti versi incomprensibile (visually intriguing, but otherwise utterly incomprehensible). Pare peraltro che il racconto successivo di Wilson dal titolo Cuts non sia casuale, dato che parla di uno scrittore che pratica il voodoo contro un regista, colpevole di aver distrutto un suo lavoro.

    La fortezza è l’ultimo passaggio per un mondo (in tal senso, puramente lovecraftiano) di orrori pronti a scatenarsi sulla terra, scaturiti dall’avidità dei nazisti – qui rappresentati in modo tutt’altro che stereotipato, a cominciare dalla figura del militare dissidente (e dai tratti umani) Woermann, contrapposto alla ferocia di Kaempffer. Un film che inizia come un classico war-movie d’epoca e che evolve, poco dopo, in un sinistro fantasy-horror, incentrato più sulle atmosfere che sullo splatter: in tal senso, potremmo definirlo un’opera dai tratti fulciani (il Fulci de L’aldilà e Paura nella città dei morti viventi, s’intende). I dialoghi sono essenziali per lo svolgimento della storia, e sono recitati in uno stile sostanzialmente epico, tanto da sembrare straniante per il pubblico (e di certo il cut scomodo non aiuta e rischia di renderli non intellegibili).

    Di per sè, quindi, le sensazioni evocate da The keep sono più che altro originali e positive: con un po’ di fortuna, sarebbe stato un grandissimo horror epico, destinato a fare scuola. Ovviamente le circostanze hanno finito per renderlo un’opera sostanzialmente incompiuta, abbandonata al suo destino, nota sul web per via di recensioni più che altro insulse. In tal senso, quindi, finirà per essere apprezzata solo dai cinefili più appassionati di horror, disponibili a collocarlo nel contesto storico di cui ho discusso.

  • Ballata macabra: l’horror di Curtis con Bette Davis

    Ballata macabra: l’horror di Curtis con Bette Davis

    Una famiglia decide di spostarsi in una vecchia villa per le vacanze estive, a prezzo davvero stracciato: un edificio tanto splendido ed antico da sembrare vivo.

    In breve. Un cult settantiano che ha fatto scuola a livello di horror psicologico a tinte sovrannaturali, influenzando una varietà incredibile di autori e registi (da King ad Argento). Una storia semplice a tinte fosche, girata con pochi mezzi ed ottime interpretazioni.

    Girato nell’estate del 1975 in soli 30 giorni, e senza alcun set predisposto, ovvero sfruttando la struttura naturale di una vecchia villa, Ballata macabra è uno dei più famosi horror sovrannaturali del periodo, e anche uno dei più efficaci dal punto di vista del linguaggio e dei contenuti. Certo il titolo originale Burnt offerings (offerte votive, bruciate su un altare per motivi religiosi) era forse più suggestivo, ed avrebbe mantenuto un maggiore impatto mistico se lasciato in lingua originale; cosa che non è stata fatta, sfortunatamente, relegando questo film (come suo forse unico sostanziale difetto) nel limbo dei titoli tradotti un po’ arbitrariamente, e che sarebbero dovuti (parere personale, s’intende) rimanere distribuiti in inglese. Questo per la stessa ragione per cui nessuno si sarebbe sognato – e per fortuna nessuno l’ha fatto – di tradurre in italiano l’Alien di Ridley Scott o lo Shining di Kubrick/King.

    La storia di Ballata macabra (forse un eco della “danza macabra” tipica dell’arte medievale, caratterizzata da una danza tra uomini e scheletri) è tratta dal romanzo di Robert Marasco con lo stesso nome, e a quanto pare si sviluppa in maniera piuttosto fedele allo stile dello stesso. Tutti ricorderanno la protagonista Karen Black (voluta da Zombi nel suo recente La casa dei 1000 corpi), qualcuno in meno forse avrà presente il regista Curtis, che non è nuovo all’horror ed aveva diretto qualche anno prima Trilogia del terrore.

    Burnt offerings contiene una forte carica da horror psicologico a tinte sovrannaturali, ed è davvero infinita la lista di lavori analoghi che sono stati girati anche in seguito (The house of the devil). L’idea di una casa maledetta che influenzi la vita delle persone (in questo caso arrivando a trarre nutrimento dalle stesse fino a farle appassire) è declinata in maniera efficace, senza scomodare effetti speciali memorabili bensì puntando esclusivamente sulle duplici interpretazioni dei personaggi: una prima “versione” ordinaria e piccolo-borghese, una seconda decisamente più imprevedibile e vittima di rispettive ossessioni (la piscina, la casa, l’allucinazione del becchino dal sorriso inquietante). Se volessimo trovare un parallelo ancora più sostanziale, escludendo titoli troppo scontati, potremmo citare Un Natale rosso sangue; il film di Bob Clark condivide con questo intreccio l’idea di un “qualcosa” di invisibile ed immortale nascosto in una soffitta, il quale possiede e controlla a piacimento una casa e che, come da tradizione lovecraftiana, non è mai morta e non potrà morire. In quest’ottica, del resto, il finale del film si prefigura come uno dei più riusciti ed intensi mai realizzati nel periodo (e si scorgono vari echi dei racconti dello scrittore di Providence); attenzione alla versione che visionate, peraltro, perchè ne esiste una che è stata privata dell’unica sequenza esplicita di tutto il film (l’uomo che cade sulla macchina). Il tutto rende giustizia ad una storia decisamente scorrevole, che non si perde mai in lungaggini – questo nonostante la durata non convenzionale di quasi due ore.

    Un film che possiede più di un richiamo a Shining (la famiglia in una villa isolata, le influenze misteriose della stessa sulle relazioni tra i personaggi, il dramma che esplode inesorabile, gli orrori della casa che si specchiano nelle relazioni contraddittorie e labili tra i personaggi), tanto da essere uno degli horror preferiti da Stephen King che – anche nel fare un confronto anche approssimativo – ha attinto a piene mani da questo lavoro di Marasco (e dalla rispettive versione cinematografica di Curtis, probabilmente) per scrivere quello che è considerato, ad oggi, uno dei suoi romanzi più famosi.

    Chi si nasconde in quella casa? Chi è davvero la signora che la moglie del protagonista dovrà accudire? Perchè il contatto con la piscina e con i letti della casa sembra rendere i personaggi aggressivi gli uni contro gli altri, oltre a provocare loro una sorta di inspiegabile sonnolenza o narcolessia? Sono domande a cui lo spettatore smaliziato saprà trovare risposta immediata e, ammesso che sappia accettare ancora oggi il celebre “patto” di farsi incantare da ciò che il regista gli proporrà, riuscirà a godere della visione di uno dei migliori horror sovrannaturali anni ’70.

  • Hereditary: cast, storia, produzione, sinossi, spiegazione finale del film

    Hereditary: cast, storia, produzione, sinossi, spiegazione finale del film

    Ecco una panoramica completa di “Hereditary,” compresi il cast, la storia, la regia, la produzione, lo stile, una sinossi, alcune curiosità e una spiegazione dettagliata del finale del film con un pre-avviso spoiler:

    Cast Principale:

    • Toni Collette nel ruolo di Annie Graham
    • Alex Wolff nel ruolo di Peter Graham
    • Milly Shapiro nel ruolo di Charlie Graham
    • Gabriel Byrne nel ruolo di Steve Graham
    • Ann Dowd nel ruolo di Joan

    Regia e Produzione:

    • “Hereditary” è stato scritto e diretto da Ari Aster, che ha esordito con questo film come regista.
    • Il film è stato prodotto da A24, una casa di produzione conosciuta per il suo impegno nel cinema indipendente e di genere.

    Stile e Atmosfera:

    • “Hereditary” è noto per il suo stile visivo cupo e disturbante, con una forte enfasi sulla tensione e la suspense psicologica.
    • La colonna sonora, composta da Colin Stetson, contribuisce a creare un’atmosfera angosciante e claustrofobica.

    Sinossi: La trama di “Hereditary” ruota attorno alla famiglia Graham, composta da Annie (Toni Collette), suo marito Steve (Gabriel Byrne), il figlio maggiore Peter (Alex Wolff) e la figlia minore Charlie (Milly Shapiro). Dopo la morte della madre di Annie, la famiglia inizia a sperimentare eventi inquietanti e sconvolgenti che rivelano segreti oscuri nella loro storia familiare. Mentre la tensione aumenta e il terrore si fa più intenso, la famiglia viene trascinata in un mondo di tragedie e oscure presenze supernaturali.

    Curiosità:

    • Il film è noto per la sua complessità e simbolismo, con numerosi dettagli nascosti e riferimenti all’interno della storia.
    • Toni Collette ha ricevuto elogi unanimità per la sua interpretazione nel ruolo di Annie, guadagnandosi persino una nomination all’Oscar.
    • Il film è stato descritto da molti critici come una delle opere più spaventose e disturbanti degli ultimi anni.

    Spiegazione del Finale (Spoiler): Attenzione, da qui in poi ci saranno spoiler sul finale del film.

    Alla fine di “Hereditary,” la tensione raggiunge il suo culmine quando la possessione demoniaca si rivela essere un elemento chiave della trama. Annie, alla ricerca della figlia Charlie, scopre il libro delle invocazioni demoniache della madre e si rende conto che sua madre era coinvolta in rituali demoniaci per portare il demone Paimon in un corpo mortale. Joan, un’amichevole vicina di casa che ha fatto amicizia con Annie, si rivela essere parte di un culto che cerca di portare Paimon nel corpo di Peter. Nel climax del film, Peter viene posseduto da Paimon e Joan pronuncia un incantesimo per invocare l’entità nel corpo del ragazzo. Questo porta a una serie di eventi scioccanti, tra cui la decapitazione di Annie da parte di Peter e la successiva coronazione di Peter come ospite di Paimon. Il finale del film è estremamente oscuro e pessimista, poiché Paimon ottiene successo nella sua possessione e la famiglia Graham è completamente distrutta. La sua ossessione per il controllo e la possessione è stata portata a termine, e il culto riesce a ottenere ciò che desiderava.

    Si scopre che la famiglia Graham è stata manipolata da una setta segreta che adora un’entità demoniaca nota come Paimon. Joan, interpretata da Ann Dowd, è uno dei membri chiave di questa setta. Joan ha manipolato Annie per invocare Paimon nel corpo di Peter. Nella sequenza finale, Peter, sotto l’influenza di Paimon, diventa posseduto dalla divinità e decapita la madre Annie. Joan, Peter, e altri membri della setta, si riuniscono in un rito che trasferisce il corpo di Peter a Paimon. Nel momento culminante, Peter viene coronato come l’ospite perfetto per Paimon, e la setta celebra il suo successo. Il finale è ambiguo e inquietante, lasciando molte domande senza risposta e concludendo con l’orrore che si perpetua. La famiglia Graham è stata completamente distrutta dalle forze oscure e dai segreti del passato. La narrazione del film riflette la discesa nella follia e nel terrore, con il destino inesorabile che porta alla tragedia.

  • The void: l’horror enciclopedico e autocelebrativo di Gillespie e Kostanski, bello quanto dimenticabile

    The void: l’horror enciclopedico e autocelebrativo di Gillespie e Kostanski, bello quanto dimenticabile

    Un agente di polizia trova per strada una persona ferita, in apparente stato confusionale: una volta recatisi in ospedale, si accorge che l’edificio è stato circondato da varie figure incappucciate.

    In breve. Un horror difficile da giudicare: se gran parte del mood è positivo, e la regia sembra convinta quanto originale, il film sembra perdersi in digressioni splatter fini a se stesse, che  poco danno e poco tolgono, oltre che tendono a far perdere di vista il focus della trama. Si racconta di una intrigante “discesa negli inferi”, fin troppo sentita, quasi certamente già vista.

    Finanziato da un crowdfunding su Indiegogo (budget complessivo di 82,510 dollari), paraculisticamente annunciato “dallo stesso produttore di The Vvitch” e realizzato con massiccio uso di CGI, viene lanciato da una consueta tagline minacciosa ed espressiva: “C’è un inferno, e questo è peggio“.

    In effetti si intuisce da subito che ci sia poco da “scherzare”, in termini di credibilità della trama e di caratterizzazione dei personaggi, fin da subito sinistri, minacciosi e dal tipico modo di fare nichilista e sbrigativo già visto in decine di survival horror. Non ci vuole troppo, poco dopo, perchè la narrazione evolva nello splatter più esplicito che si possa concepire, schizzando in modo imprevedibile su vari registri e prefigurando uno scenario che evoca sia La cosa (l’essere mostruoso che usa corpi umani per replicarsi) che (in parte) Distretto 13 – Le brigate della morte (lo scenario claustrofobico e i personaggi che, come già nell’altro, non si fidano l’uno dell’altro, e ricorrono a strategie di sopravvivenza improvvisate quanto “romeriane” – La notte dei morti viventi è proprio il film che guarda uno dei ricoverati in ospedale, per inciso).

    Vedo un mostro che si vede Dio. Io ho sfidato Dio!

    Una cosa è certa: in questi casi è fin troppo comodo per qualsiasi recensore evocare i racconti di H. P. Lovecraft, cosa che ha reso accettabile qualsiasi film fuori dalle righe, irrazionale e multi-dimensionale, arricchito da orrori extraterrestri e dimensioni parallele in cui i personaggi rimangono intrappolati. Cosa piuttosto sbrigativa, in questo caso e che un film del genere a mio parere non giustifica del tutto: non fosse altro che sembra partire con determinate intenzioni, per poi evolvere su ben altro, sequenziando le varie scene in una maniera abbastanza subdola e poco prevedibile, quasi da sembrare inintelleggibile. The void evoca vari sottogeneri e in fondo non è un horror vero e proprio, proprio perchè sembra, in più momenti, un collage di idee diverse tra loro, messe insieme con entusiasmo (senza dubbio) ma in modo non sempre chiarissimo, mediante trovate a volte azzeccate (le creature che covano la propria stirpe violando corpi umani) altre meno (certe dinamiche in cui la gente si ritrova sgozzata quasi senza sapere come o perchè).

    E se le sequenze più cruente mi hanno ricordato Hellraiser (nuovi supplizianti che promettono vita eterna, in risposta al sempiterno dramma della morte di un figlio, per cui varrebbe la pena evocare film inossidabili come Don’t look now), l’aspetto di alcuni personaggi non ho potuto che ricordarmi (almeno per qualche istante) il moloch visto ne La fortezza, uno degli horror ottantiani potenzialmente più belli (e altrettanto incompiuti) mai visti su uno schermo.

    In definitiva The void è un horror compatto e relativamente convincente, che pero’ presenta il difetto sostanziale di proporre più forma che sostanza, preso com’è dall’entusiasmo e dalla briga di citare didascalicamente i classici del genere. Sia chiaro che il gioco del cinema passa anche questo genere di trovate, che possono rasentare la vera e propria manìa autocelebrativa senza sfigurare: ma se questo, come secondo me accade, finisce per far perdere di vista il focus (al punto che i personaggi sembrano soltanto sciocchi burattini destinati alla morte), ovvero un insieme di (stereo)tipi da survival horror, in cui si lotta per la sopravvivenza senza sapere cosa-cazzo-succede, chiaro che le valutazioni troppo entusiastiche dovrebbero essere messe aprioristicamente al bando. Pare anche che i registi abbiano invitato il pubblico a farsi un’idea personale sulla storia, lasciando volutamente molti riferimenti non specificati, e ciò rende The void un film horror sperimentale a pieno titolo, per cui potrebbe avere un senso l’ennesima rivalutazione incensatrice tra una ventina d’anni circa (e buon divertimento a chi lo riscoprirà, dato che adesso non ce la possiamo fare).

    Un film del genere è anche puramente carpenteriano, lo è così tanto (soprattutto nella scena clou del “regolamento di conti”) che è impossibile non pensare a Il signore del male, con i suoi riferimenti ad un’altra dimensione oscura e ad un futuro minaccioso quanto imprecisabile. C’è anche una setta di mezzo (l’elemento cardine di ogni horror moderno, a quanto pare, deve essere sempre una setta), figure incappucciate con un triangolo nero al posto del viso che potrebbe ricordare, per certi versi, i guardiani del citatissimo Squid Game in voga su Netflix (The void è disponibile su Amazon Video, per inciso).

    E quel finale che ha lasciato tanti di stucco, allora, che spiegazione ha? Impossibile provare a dare indizi senza considerare un precedente celebre di cui, per la veritá, non si fa esplicita menzione, ma qualche recensore si è accorto lo stesso. Il finale di The void sembra infatti calcare apertamente quello, altrettanto surreale, de L’aldilà di Lucio Fulci, giusto con più mezzi visuali e un mood più rassicurante: come a dire che i due personaggi sono assieme, per sempre, più o meno al sicuro, in un mondo extrasensoriale che potrebbe essere l’aldilà, appunto, che si svelerà al momento della morte. Vale la pena di ricordare la frase che chiude il capolavoro fulciano, guarda caso anch’esso ambientato parzialmente in un ospedale, ovvero: E ora affronterai il mare delle tenebre, e ciò che in esso vi è di esplorabile.

    E dagli anni ottanta per il momento è tutto.

    Dalla parte di The void, e in favore di una valutazione mediamente positiva, muove anche la sua brevità, il suo non tirarla per le lunghe, la sua capacità di far switchare i personaggi da una situazione normale ad una extra-ordinaria senza perdere colpi, ambientazione, dettagli o (per dirla con una parola semplice quanto poco utilizzata in ambito horror) credibilità. Ma c’è anche quell’effetto “minestrone” – Minestrone Valle dei Morti, probabilmente – a cavallo su più fronti, pronto a restare sul pezzo e assumere ora la parvenza del nuovo Inferno, poco dopo chissà che altro. Il tutto, insomma, rende davvero difficile per lo spettatore comprendere a che punto della trama si sia arrivati, con il dilemma di spalancare la porta della noia, quasi in corrispondenza del momento in cui un portale extradimensionale si apre sullo schermo.

    Non che The void sia un brutto horror, anche perché scrivere una cosa del genere sarebbe ingiustificato: ma non è nemmeno il film da riscoprire di cui molti hanno scritto, anche perché denota un limite evidente a livello narrativo per cui la sceneggiatura avrebbe fatto meglio ad ispirarsi seriamente a Lovecraft, invece che lasciarlo come riferimento vago (e sia pur riconoscendo l’evidente conoscenza dei classici che i due registi hanno sfoggiato). Non ci sono solo Lovecraft e Carpenter in The void: ci sono anche Lucio Fulci, Clive Barker, forse addirittura Dario Argento e Michele Soavi, per non parlare di George Romero e dei suoi immarcescibili morti viventi. Oltre un certo limite, è veramente troppo per poter osannare un vero e proprio capolavoro, senza limitarsi  – in modo più equilibrato, secondo noi – a constatare che questo film sia proprio come quello di Michael Mann: un potenziale capolavoro che vive di incompiutezza, questa volta ingiustificata rispetto alla situazione in cui si trovava il regista statunitense.

    Un horror canadese da vedere per curiosità, senza dubbio, con la certezza di non assistere al consueto delirio randomico di psicopatici e vittime urlanti, ma che rischia lo stesso di farsi dimenticare con la stessa velocità con cui si guarda, al netto degli entusiasmi che provocano determinate sequenze e alla sensazione positiva che accompagna gran parte della sua visione. Manca qualcosa, e non riusciamo a saperne di più: lo guardiamo, e tanto basta.

  • Terminator: il post-apocalittico di James Cameron che non passa mai di moda

    Terminator: il post-apocalittico di James Cameron che non passa mai di moda

    All’inizio degli anni 80′ James Cameron era un giovane regista di talento, in cerca dell’idea giusta. Nei primi anni di carriera lavora a fianco di personaggi del calibro di Roger Corman e John Carpenter, in cui Cameron oltre che nella regia si specializza nel campo degli effetti speciali e della scenografia.  James Cameron debutta alla regia nel 1982 con Piraña paura, seguito del precedente Piranha di Joe Dante. L’esordio non fu dei più fortunati, a causa dei dissidi tra la produzione e il regista che decretarono l’insuccesso del film.

     

    Dopo lo sfortunato esordio, Cameron è in cerca di un nuovo progetto in cui possa dimostrare il suo talento. L’idea che ispirerà il suo prossimo film nasce da un incubo avuto dal regista nel quale immagina un torso metallico armato di coltelli che si trascina fuori da un’esplosione. Cameron cominciò a scrivere una bozza di sceneggiatura, e alcuni disegni in cui cominciò a prendere forma il concept del famoso esoscheletro.

    Il regista dedicò tutte le sue energie tanto che per convincere i dirigenti della Hemdale Film Corporation a produrre il film si presentò all’incontro con l’amico Lance Henriksen vestito da Terminator, con finti tagli sul viso e della carta stagnola dorata sui denti. I produttori rimasero colpiti da ciò, accettando di produrre il film.

    Il cast

    Schwarzenegger reduce dal successo di Conan il barbaro era alla ricerca di un nuovo film: la produzione pensò a lui per interpretare Kyle Reese. Durante l’incontro con l’attore austriaco Cameron rimase positivamente colpito dalle sue idee, arrivando alla conclusione che avrebbe dovuto interpretare il ruolo del Terminator. La scelta si rivelò un completo successo, dando al film un’antagonista minaccioso e inquietante e lanciando definitivamente Schwarzenegger nell’olimpo del cinema hollywoodiano. Nel film l’attore austriaco pronuncia solo 18 battute tra cui la famosa “I’ll be back (Tornerò)“.

    Il sodalizio Tra l’attore e il regista continuerà in Terminator 2: il giorno del giudizio del 1991, considerato uno dei migliori sequel mai realizzati.

    Per il ruolo di Kyle Reese fu scelto l’attore Michael Biehn, soldato umano mandato indietro nel tempo per salvare il futuro della razza umana. Il ruolo diede grande popolarità a Biehn contribuendo al successo del film. L’attore continuò il sodalizio con Cameron nei film Aliens – Scontro Finale e in The Abyss. Linda Hamilton interpreta il ruolo di Sarah Connor Madre del futuro leader della resistenza, in quello che sarà di gran lunga il  suo ruolo più famoso della sua carriera. Il successo del personaggio e testimoniato dalla serie tv a lei dedicata chiamata Terminator: The Sarah Connor Chronicles.

    Il successo

    Di fronte a un budget di poco più di 6 milioni di dollari Terminator incassò in tutto il mondo 78.371.200 dollari, ottenendo un successo di critica e pubblico. Cameron ottiene finalmente il successo dimostrando il suo talento realizzando un film considerato giustamente un classico. La pellicola e tra le vette più alte del filone Cyberpunk in cui emerge l’inquietante figura del Terminator anteprima di un futuro oscuro in cui le macchine si ribelleranno all’uomo.

    Parte del successo di del film dipende proprio dall’interpretazione di Schwarzenegger che grazie alla sua fisicità riesce a trasmettere il senso di minaccia inarrestabile che pervade tutto il film. La sceneggiatura riesce a unire vari generi come la fantascienza l’horror e il thriller in modo perfetto.  Le scene con il Terminator sono ricche di tensione, regalando momenti al cardiopalma. Insomma un capolavoro del genere fantascientific,o che ha influenzato tanti film in seguito. Gli effetti speciali sono realizzati da un grande esperto come Stan Winston che fu decisivo nel dare l’aspetto finale del Terminator così come lo conosciamo.

    Cameron già da questo film dimostra quella che sarà una costante del suo cinema, ovvero saper unire grandiosi effetti speciali insieme senza mai tralasciare l’importanza della sceneggiatura. La pellicola nonostante l’obiettivo principale sia quello di intrattenere, fornisce spunti di riflessione riguardo l’uso della tecnologia da parte dell’uomo e la sua pericolosità.

    Con Terminator inizia ufficialmente la carriera di James Cameron, creando una delle saghe di fantascienza più famose di sempre. Il film ancora oggi mantiene intatto il suo fascino, ed è in grado di appassionare lo spettatore.