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  • L’arcano incantatore: l’horror di classe di Pupi Avati

    L’arcano incantatore: l’horror di classe di Pupi Avati

    Un giovane seminarista perseguitato dalla chiesa fa un patto col diavolo per salvarsi: viene così inviato da un misterioso individuo, a suo tempo scomunicato per aver divulgato e studiato vari libri all’indice. L’atmosfera si rende subito sinistra, mentre il protagonista si lascia travolgere dagli eventi…

    In breve. Gotico all’italiana con lo stile, inconfondibile, di Pupi Avati, ed innumerevoli suggestioni argentiane: forse uno dei più incisivi e meglio realizzati horror del periodo.

    Se dovessimo indicare un horror italiano di quelli da rimpiangere nostalgicamente, sicuramente questo singolare gotico di Pupi Avati avrebbe la sua parte di rilievo. Superiore alla media delle produzioni del periodo, in un momento in cui il periodo d’oro di Argento e Fulci stava declinando o era, di fatto, già in declino, L’arcano incantatore riprende apertamente il meglio delle produzioni gotiche all’italiana (per intenderci Bava, Margheriti e compagnia) e ne tira fuori un prodotto originale, seppur (a voler trovare dei difetti per forza) con qualche pecca recitativa (a mio avviso perdonabile, nel contesto narrativo in cui ci si colloca).

    Certo Avati dimostra di saperci fare con il genere, proponendo un crescendo narrativo che è quasi interamente un flashback e che, nonostante possa apparire vagamente “telefonato” allo spettatore più avvezzo al genere, fa la sua figura più che dignitosa oggi. La figura del protagonista (uno Stefano Dionisi già visto in Non ho sonno, ad esempio) si erge nella propria duplice veste di perseguitato e colto seminarista, capace di suscitare empatia nel pubblico nonostane la sua sorta appaia segnata fin dall’inizio. Il patto che ha stipulato per provare a salvarsi la vita è un accordo col maligno, che certamente ha fatto i propri conti e che mostrerà progressivamente una rete di inganni. Per Avati, questo contesto sovrannaturale sembra ideale sia per costruire atmosfere lugubri nella nostra terra (siamo in Umbria, in particolare), sia per sottintendere una critica alla chiesa dell’epoca, peraltro senza calcare troppo la mano su questo aspetto ma limitandosi (si fa per dire) a fare un buon horror all’italiana. Generazioni successive di registi horror finiranno per prendere spunto da questo film, che potrebbe piacere anche al grande pubblico dei non prettamente appassionati del genere.

    Come suggerito da alcuni, del resto, L’arcano incantatore media, in un certo senso, i migliori aspetti dai precedenti La casa dalle finestre che ridono (soprattutto nel sinistro finale e nella sua ambiguità sorprendente) e dell’insuperabile Zeder (soprattutto nelle atmosfere, ma anche nei riferimenti, abbastanza celati, al ritorno dalla morte). Avati ci sa fare e colpisce nel segno, con un pieno di echi argentiani (il protagonista ossessionato dalla sua stessa storia, su tutti) che a ben vedere derivano più propriamente dalla tradizione gotica di Mario Bava.

  • Melancholia: il dramma della depressione secondo Von Trier

    Melancholia: il dramma della depressione secondo Von Trier

    Il pianeta Melancholia minaccia di avvicinarsi alla Terra; nel frattempo, Justine sta celebrando il proprio matrimonio…

    In breve. Incursione del regista nel genere apocalittico, ovviamente a modo proprio: si parte dal ricevimento del matrimonio della protagonista, e si prosegue la narrazione sui più cupi toni. Sullo sfondo, un pianeta che minaccia di andare in collisione e distruggere la Terra. Rientra nel genere del “più discusso che visto“, soprattutto per via delle dichiarazioni controverse di Von Trier che lo fecero espellere da Cannes.

    Un film ingiustamente sottovalutato per via della concomitanza con le dichiarazioni shockanti del regista a Cannes, che gli valsero l’espulsione dal festival; questo ha finito per mettere in ombra la sostanza del lavoro, per cui certa critica (ad esempio Maltese) è arrivata a farlo passare con disprezzo per apologia di nazismo, evitando accuratamente di menzionarne i meriti (la forza del personaggio protagonista, la narrazione apocalittica stravolta rispetto alla tradizione, il riferimento a Shakespeare), e dando un’immagine sostanzialmente fuorviante del tutto, maltrattato neanche fosse realmente aderente al cinema del Terzo Reich.

    Ovvio che le frasi del regista pro-nazismo (in risposta provocatoria ad una domanda sulle sue origini tedesche) sono state problematiche ed imbarazzanti, ma resta il fatto che i film vanno visti e vanno giudicati per quello che sono, non sulla scia di dichiarazioni di contorno – per quanto controverse (e poco chiarite in seguito) siano state. Il rischio, infatti, è quello di farsi strumentalizzare una virgola ed oscurare il restante 99%, caso tipico, peraltro, di molti degli artisti più meritevoli.

    Se è vero che il cinema di propaganda rappresentava realtà artefatte al fine di mantenere alto l’umore della folla, quest’opera di Von Trier fa l’esatto contrario: immerge senza pietà il pubblico negli spaventosi fantasmi della depressione, canalizzandoli come un pianeta portatore di distruzione. Un male che è risaputamente difficile da raccontare, e che il regista decide di accompagnare con l’esposizione, ben nota, della sua consueta filosofia nichilista: è questo a rendere forse “indigesto” questo Melancholia che, come valore assoluto, resta un film pregevole e di grande livello. Il regista decide di narrare la storia mediante discorsi prevalentemente indiretti, facendo affidamento sulla mimica della Dunst e su relazioni tra i personaggi sempre ambigue e bivalenti: può piacere o meno, ma dal punto di vista artistico la scelta è impeccabile.

    La narrazione lavoro molto sugli accenni, sui riferimenti detto/non detto, soprattutto attraverso l’interpretazione magistrale della protagonista, per cui il pianeta Melancholia, in inesorabile avvicinamento alla Terra (probabilmente ispirato al pianeta ipotetico Nibiru), diventa un simbolo puro di ineluttabile autodistruzione. Cosa ancora più significativa, il finale viene subito mostrato al pubblico, con la sequenza di Melancholia che ingloba il nostro pianeta e scatena l’Apocalisse, anticipando un finale che poteva essere clamoroso (ed obbligando il pubblico a concentrarsi sul resto del film). In quest’ottica, l’interesse di Justine per l’astronomia da un lato, e la cieca fiducia nella scienza del cognato dall’altro, assumono una valenza tragica e grottesca al tempo stesso, ed andrebbero letti esclusivamente in quest’ottica.

    Melancholia simboleggia la più crudele depressione (la stessa vissuta in prima persona dal regista, all’epoca) nella figura controversa di Justine, sposa solo apparentemente felice, che senza una reale ragione si farà sopraffare da un malessere nichilista giusto il giorno del suo matrimonio. Lo stesso personaggio che, quasi incredibilmente, saprà mantenere la calma più assoluta pur consapevole della fine imminente, emulando così il comportamento tipico degli affetti da depressione. Personaggio di grande spessore, peraltro, poichè ispirato all’Ofelia di Shakespeare così come rappresentata nel dipinto di Millais (e che nel film possiamo vedere rievocata all’inizio). Non siamo ai livelli sublimi delle conflittualità espresse in Antichrist, per intenderci, e questo film soffre di qualche problema di ritmo (tutto, nello svolgimento, è rallentato fino all’inverosimile): perdonabile, tutto sommato, se si considera quale pregevole incursione – solita fotografia spettacolare, per inciso – di Von Trier nel genere apocalittico puro, passata purtroppo inosservata da molti, oltre che snobbata per via dei problemi sopra menzionati.

    Ho molta paura di quello schifo di pianeta.

    Quello schifo di pianeta? Quel meraviglioso pianeta vorrai dire. Prima era nero, adesso è blu, copre Antares…

  • Frontiers: un horror politico riuscito solo a metà

    Frontiers: un horror politico riuscito solo a metà

    A Parigi scoppia il caos in seguito all’annunciata elezione di un canditato di estrema destra: nel frattempo un gruppo di ragazzi sta fuggendo da una tentata rapina, al fine di trovare scampo fuori città. Troveranno presto il posto sbagliato in cui fermarsi…

    In breve. Una prova di horror francese valida, a ben vedere, più nella forma che nella sostanza. Lo spettatore è avvolto da una spirale di tensione e crudeltà, in trepidante attesa di una liberazione che assume, nelle intenzioni del regista, più di un significato. Strizza l’occhio a Non aprite quella porta, ma il capolavoro di Hooper resta ineguagliato in larga parte, mentre i sottotesti infilati in questa storia finiscono per appesantire in modo artificioso la trama.

    La caratteristica più singolare di questa pellicola di Gens, probabilmente, risiede nel suo volersi mostrare politicamente schierata: sulla carta, almeno, di tratta di demonizzare la follia nazista, in particolare simboleggiandola attraverso la violenza di un gruppo di psicopatici. Nella pratica pero’, al di là delle facili euforie che vivranni alcuni spettatori, il risultato rischia di far sollevare più di un sopracciglio: ambientando le vicende in uno scenario tanto realistico quanto caotico, il regista delinea la storia di un gruppo di disperati improvvisati rapinatori, oppressi da problemi sociali e personali di vario tipo (provengono dalle banlieue parigine). L’inizio del film, di fatto, ricorda infatti più un film da cineforum che un horror tradizionale: e, in effetti, lo scollegamento tra premesse e conseguenze appare forzoso dopo circa mezz’ora, in tutta la sua interezza.

    Senza voler virare su spoiler che brucino le sorprese che “Frontiers” riserva, è importante sapere che le dinamiche sono non tanto quelle del torture-porn – un termine che è stato usato talmente a vanvera da non significare più nulla – quanto quelle del rapporto “preda-predatore”. Se si trattasse solo di questo, in verità, sarebbe l’ennesimo rehash de “Non aprite quella porta“, con i cattivi che attendono in modo estenuante l’arrivo della vittima, nella consapevolezza di essere inattaccabili e onnipotenti. Sai che novità: ma questo, secondo Gens, si presta già di suo ad interpretazioni politico-sociali, tanto che il gruppo di folli viene schematizzato come una famiglia tradizionalista e dalla morale distorta, in grottesco contrasto con i metodi poco ortodossi che utilizzano per massacrare esseri umani. Ma è davvero tutto qui?

    Nell’analisi non dobbiamo perdere di vista un altro aspetto: siamo pur sempre in un horror, il ritmo avverte dei “buchi” clamorosi soprattutto nella prima fase, si attende fin troppo il momento della mattanza (e della rivalsa) e c’è un po’ il rischio, a mio parere, che lo spettatore si ritrovi con troppa carne al fuoco da dover gestire e vedere. Dopo una seconda visione di questo film, in effetti, mi è venuto spontaneo chiedermi se per caso la lettura socio-politica del film non sia altro che – udite, udite – un’enorme ed inutile forzatura. Del resto le due parti di  “Frontiers – Ai confini dell’inferno” – la fuga da un lato, e l’arrivo in “zona maniaci” dall’altro – sembrano essere apertamente scollegate tra loro, creando una discrepanza che – mutatis mutandis – avevo riscontrato in modo similare anche ne “Il profumo della signora in nero“.

    Rappresentare dei “parenti” stretti di Leatherface e compagnia e renderli filo-nazisti poteva essere accattivante, eppure il modello di “famiglia ariana” ostentato mal si concilia, ad esempio, con la stessa immissione in famiglia di una ragazza sconosciuta (!) incinta di un uomo che non è il marito (!), senza contare che Karina Testa è pure di origine algerina. Arianesimo? È facile farsi trascinare da facili entusiasmi in queste circostanze (il film è stato osannato abbastanza incondizionatamente dalla critica), nè non ho intenzione di sminuire gratuitamente una pellicola che, sia chiaro, possiede almeno un paio di sequenze che valgono il prezzo del film.

    Bisogna pero’ riconoscere che azzardi del genere, spinti a far assumere una valenza al film che difficilmente avrebbe mai avuto, fanno forse più male che altro. Il finale riesce a consolare lo spettatore pignolo nel suo un epico crescendo splatter, mostrando comunque una faccia dell’horror che rischia di assumere una valenza quasi pomposa. La sintesi è quindi che Gens possa aver, nonostante le buone intenzioni, parzialmente mancato il bersaglio, e questo per quanto l’impianto complessivo del lavoro regga, e soprattutto sappia intrattenere.

    Una pellicola dominata da un cupo pessimismo di fondo, dunque, con una Karina Testa in un’interpretazione degna di una scream queen di altri tempi (di questo possiamo dare atto senza remore, a mio avviso). È anche vero che Frontiers, in modo più debole di A Serbian Film, sottintende un sottotesto politico (im)preciso che, a confronto della pellicola citata, sarebbe stato invece essenziale per valorizzare il film stesso (se definito meglio). La famiglia governata dall’inquietante Padre, che ricorda pesantemente il gerarca de “Il maratoneta” e ne ricalca le crudeltà all’ennesima potenza, in certi casi rischia di sembrare involontariamente caricaturale. Un archetipo di villain che spaventa con tutti i limiti del caso, e che rimane un personaggio discretamente costruito così come l’immancabile e sadica “femme fatale” modello “La casa dei 1000 corpi“.

    In conclusione questo è il tipico film che saprà variegare le opinioni del pubblico e questo, probabilmente, è il suo miglior pregio. E se è vero che in media stat virtus, probabilmente si tratta di un discreto horror che, con qualche elemento riassemblato, sarebbe stato molto, ma molto più incisivo.

  • Il signore del male: potrebbe essere uno dei migliori film di John Carpenter di sempre

    Il signore del male: potrebbe essere uno dei migliori film di John Carpenter di sempre

    Pellicola apocalittica della celebre Trilogia del regista americano, probabilmente uno dei migliori in assoluto della sua filmografia.

    Noi abbiamo venduto il nostro prodotto… un enorme inganno, questa era la verità, è stata tenuta nascosta fino adesso

    Un professore di fisica (Howard Birack, interpretato da Victor Wong) seleziona un gruppo di studenti per analizzare il contenuto di una teca, custodita segretamente dalla Setta del Silenzio all’interno di una chiesa; un gas verdognolo che manifesta inaspettate proprietà biologiche. Il gruppo si recherà sul posto per analizzare la situazione, ma qualcosa nell’aria sta cambiando: in particolare  decine di persone sembrano fissare ininterrottamente la luna, in posizione molto vicina al sole…

    Carpenter sa come raccontare una storia, e lo dimostra dall’inizio quando, in pochissime sequenze, riesce a descrivere l’attrazione di Brian verso Catherine. Il tema del film riguarda una sorta di rivelazione, sia in senso terreno che extra-sensoriale, ed ha l’obiettivo di mostrare – in modo orrorifico – la natura fallace della religione e, al tempo stesso, gli aspetti spaventosi legati alla Verità che la chiesa cattolica avrebbe tenuto nascosta per due millenni. Prendendo in prestito una sorta di teoria complottista Carpenter tiene in sospeso lo spettatore con grande maestria, mostrando un plot per certi versi prevedibile ma, per altri, decisamente incalzante e coinvolgente (soprattutto nel finale).

    Partendo dalla passione del regista per la fisica quantistisca, e prendendosi qualche licenza “poetica”, ciò che viene mostrato è incentrato da un lato sul paradosso del gatto di Schrödinger (citato all’inizio nei discorsi degli studenti), e dall’altro sulla dualità onda-particella e materia/anti-materia. Se le entità sovrannaturali sono “fatte” in qualche modo di materia, ed ammettendo che le anti-particelle non trovino posto nell’universo osservabile, si puo’ dedurre che esista una sorta di anti-Dio che aspetta soltanto di emergere tramite un mezzo (uno specchio).

    Cristo… viene per combatterci, era un essere di origini extraterrestri, ma avevo l’aspetto di un uomo…

    Licenze poetiche? Luoghi comuni abusati da b-movie? Scempiaggini scientifiche costruite ad arte? Poco importa: il film è ben costruito, e vive di una propria solida credibilità. Riprendendo il leitmotiv dell’assedio di un gruppo di persone da parte di un gruppo di barboni posseduti dalla “cosa”, “Il signore del male” fa provenire il male dall’esterno, come nella tradizione del pantheon lovecraftiano nel quale gli uomini, a dispetto del proprio conclamato scetticismo, diventano vittime sacrificali di una crudeltà assoluta che si scatenerà contro di loro. E, come sempre nel regista e nell’autore americano, senza un vero e precisato motivo, se non quel vago “senso di colpa” indefinibile che attanagliava lo scrittore di Providence nel narrare “Nyarlathotep“.

    Senza contare “Il seme della follia”, si tratta probabilmente del film più “filosofico” e “lovecraftiano” in senso stretto di John Carpenter. Un altro aspetto molto importante è legato ai sogni: mediante essi le entità comunicano con gli inquilini dell’edificio (dal futuro) ricorrendo ad una premonizione che ricorda il filmato pre-registrato di una videocassetta.

    Innumerevoli, in effetti, i riferimenti e le citazioni che si possono cogliere nel film, tra cui – per fare un esempio – quello al Dario Argento di “Inferno” nella scena in cui il barbone uccide con la lama di una forbice uno degli studenti, assediato da un numero impressionante di enormi insetti. Tale scena richiama quella in cui l’antiquario Kazanian viene assalito da una miriade di topi a Central Park, ed un venditore di hot-dog accorre esclusivamente per colpirlo a morte. Se questo non vi basta, Carpenter gioca con le dinamiche survival dei film di zombie, forse per la prima ed unical volta nella propria carriera, e ad un certo punto Ann Yen (Lisa, colei che cerca di interpretare il libro che spiega la Verità nascosta) scrive monotonamente al computer ricordando le movenze di Jack Torrance/Nicholson in Shining!

    Il signore del male” dunque, con i suoi pregi di espressività ed intreccio, e con qualche difetto di banalizzazione scientifica che non piacerà ai fisici di professione ed agli amanti di Hollywood, è, a mio parere, un cult pienamente apprezzabile anche oggi. Tra gli interpreti, un poco espressivo Jameson Parker, un Lisa Blount intensa e convincente (scomparsa nel 2010), un immenso Donald Pleasance nella parte del prete; special guest, Alice Cooper.

  • The Woman di A. van den Houten racconta una storia di segregazione in chiave horror

    The Woman di A. van den Houten racconta una storia di segregazione in chiave horror

    Una giovane donna vive nella foresta senza aver mai avuto contatti con la società moderna; catturata da un padre di famiglia dall’aspetto mite verrà inserita nel nucleo familiare…

    In breve. Un film incentrato sulla violenza domestica e la contrapposizione tra la  feroce vitalità del “selvaggio” e l’ipocrisia della società civilizzata. Temi non originalissimi, regia non esaltante (ma non per questo sgradevole) e qualche problema di ritmo: come intreccio, probabilmente più da leggere nel romanzo da cui è tratto che da vedere.

    Una donna allo stato selvaggio, un padre autoritario e maschilista, un figlio adolescente candidato ad emularne i comportamenti, una figlia affetta da turbe depressive, una moglie remissiva e psicologicamente repressa e, per chiudere in bellezza, una bambina ancora non intaccata dall’atmosfera circostante: questi gli ingredienti basilari di “The woman“, la storia di una famiglia che decide di “adottare”, allo scopo di civilizzarla, una giovane selvaggia cresciuta nelle foreste della zona. È da tali presupposti quasi “fiabeschi”, in fondo, che si riesce a sviluppare un horror di discreta qualità, caratterizzato – per quanto il soggetto sia validissimo – da una notevole lentezza nella parte iniziale. Il film finisce per decollare soltanto negli ultimi venti minuti, perdendosi nel resto tra accenni, divagazioni e caratterizzazioni dei personaggi a volte neanche troppo funzionali. Il tutto è tale da rendere desiderabile quasi l’esclusiva visione dell’ultima parte del film, che riserva tra l’altro qualche sorpresa niente male (per quanto poco chiarita nella sua origine). Van den Houten non ama esplicitare i dettagli – come invece aveva fatto Gregory Wilson in The girl next door, con cui “The woman” condivide lo stesso autore del soggetto (lo scrittore horror Jack Ketchum), e preferisce far scorrere la storia come se si trattasse di un film da prima serata.

    Cosa che “The woman” non è, visto che si tratta di una pellicola di explotation che non lesina affatto in termini di violenza fisica e mentale, sempre da parte di individui di sesso maschile sul gentil sesso (le accuse di misoginia, in questo caso, lasciano veramente il tempo che trovano, visto che è proprio quello il focus che il film critica aspramente). Senza gli eccessi del cinema di genere il regista preferisce optare per un formato da serie TV, senza spettacolarizzare alcunchè (ed avrebbe dovuto farlo, in certi casi), senza esagerare nelle efferatezze (caricarle serve spesso a potenziare il potenziale catartico della pellicola) e con il rischio di risultare inferiore alle aspettative; questo nonostante il tema forte e molto “appetibile” per un film dell’orrore. Si sviluppa così una storia ambientata nella provincia americana, nella quale un nucleo familiare dall’aspetto ordinario nasconde degli orribili segreti: roba già vista, già sentita, dispiace ma è così. Per quanto l’intreccio sia comunque originale e di livello – merito esclusivo di Ketchum, quest’ultimo – il film soffre di un‘eccessiva diluizione dei dettagli: il tempo che intercorre tra la cattura della ragazza e la conclusione del tutto sembra interminabile, e questo è dovuto anche ad uno dei “cattivi” meno credibili mai comparsi su uno schermo.

    Per quanto gli sguardi di Sean Bridgers e Belle Cleek (gli insipidi coniugi, non certo i due folli del cult La casa nera) siano pressappoco azzeccati, e le loro caratterizzazioni incalzanti, Chris risulta a mio parere uno degli psicopatici meno adeguati mai visti su uno schermo. Non ci voleva un Hannibal Lecter riveduto e corretto nè un novello Henry (mammagari!): bastava considerare un’interprete più in grado di mostrare la natura ambigua del personaggio, sospeso tra battute di caccia, cene in famiglia e stupri perpetuati come se nulla fosse. Invece l’impeccabile professionista mantiene sempre la medesima espressione anonima, sia che si tratti di compiere efferatezze che quando debba lavorare in ufficio: questo finisce per nuocere alla forma del film e, con tutti i limiti del caso, anche per ridimensionarlo di diverse spanne. Decisamente pià credibile, per fortuna, la performance di Pollyanna McIntosh, eroina totalizzante della storia, molto capace di conferire l’adeguata natura selvaggia al proprio personaggio.

    Tratto dal romanzo omonimo di Jack Ketchum (l’autore del soggetto di The girl next door), “The woman” sembra esaltare l’istinto selvaggio, quello che buona parte della civiltà moderna tenta di reprimere anche a costo di segregarlo, incatenarlo e procurargli del male fisico: quest’ultima, in reazione, finisce per proporre un modello comportamentale – trasmesso di padre in figlio – paradossalmente peggiore di quello della giungla (una contrapposizione, quest’ultima, sviluppata nel celebre “Cannibal holocaust” di Deodato già nel 1979), di quelli che finiscono per mettere tutto orribilmente sullo stesso piano. Non ci sono dubbi, inoltre, che i presupposti da cui parte questa pellicola di Andrew van den Houten – la dinamica della segregazione di un individuo è in parte simile a quella di Paura dei Manetti Bros. – siano quelli di presentare e far discutere tematiche dichiaratamente spinose (patriarcato e sessismo su tutte), e questo – come illustrano casi simili quali A serbian film, Strange circus o Frontiers – risulta essere un autentico campo minato. Potenzialmente si tratta dei lavori a maggior potenziale artistico e qualitativo, ma questo rimane realistico solo quando si riescano a bilanciare forma e contenuti: il film di Gens, ad esempio, aveva mostrato quanto una pellicola in cui si vogliano forzare significati politici – ergo più contenuti che forma – possa risultare dispersiva e parzialmente fuori bersaglio. In questa specifica circostanza si può dire invece che la priorità del regista sia stata, più semplicemente, quella di raccontare una inquietante storia di orrore quotidiano, lasciando sottintese le letture (e scatenando le ire di chi invece si aspettava maggiori focalizzazioni). Questo, se vogliamo, è anche il modo giusto di approcciare quando non si disponga di idee e budget troppo dispendiosi/e: non basta pero’ a fare un buon film (cosa che secondo me “The woman” è solo al 70%), per quanto serva a realizzare un discreto prodotto low-budget da visionare più che altro per curiosità.

    “Cosa ne facciamo di lei? La addestreremo, la renderemo… civile.”