SCI-FI_ (34 articoli)

Recensioni di film di fantascienza.

  • Fantasmi da marte: il western fantascientifico di John Carpenter

    Fantasmi da marte: il western fantascientifico di John Carpenter

    2176: la polizia viene inviata su Marte per prelevare un pericoloso detenuto. Scoprirà che le cose non vanno troppo bene, da quelle parti…

    In breve: film semplice e diretto di un Carpenter meno pioneristico del solito. Sparatorie, esecuzioni sommarie, azione ed una trama sottile quanto godibile.

    In Italia i B-movie hanno assunto soprattutto significato di film di bassa qualità. Questa definizione wikipediana, a mio avviso superficiale, pone una base indiretta per discutere di questo film del Carpenter post-2000, considerato di minor valore rispetto alla produzione precedenti. Partirei dal fatto che considero sbagliata, fuorviante, generica – oltre che stereotipata – la definizione di b-movie appena letta: i film di serie B sono molto di più, anche solo per il loro proporsi con coraggio ed originalità. Ad oggi, del resto, nonostante realtà come Nocturno si siano battute per decenni al fine di conferire un carattere autoriale (o se non altro dignitoso) a qualsiasi film del genere, resta una considerazione di fondo: il pubblico va a vedere film come Fantasmi da marte, e rimane perplesso. In sostanza la sensazione è che manchi qualcosa – o forse no: non si capisce con chiarezza. La mia secondo visione di questo film del 2005 con Ice Cube e Natasha Henstridge non ha cambiato, in buona sostanza, la mia valutazione sintetica che è poco meno che sufficente (nonostante aspettative altissime: vidi il film al cinema, la prima volta).

    Il pianeta rosso diventa qui teatro di una storia che richiama in parte “Distretto 13: le brigate della morte“, “La cosa“, “Fuga da New York“: un film dichiaratamente autocelebrativo, pertanto, che pare abbia fatto la gioia dei fan del regista sfiorando a più riprese il rischio di risultare asetticamente ibrido. Un regno di violenza incontrollata si instaura a causa di una nube (chi ha detto The fog?) sprigionata dagli scavi di una scienziata presente sul posto- particolare lovecraftiano della storia. Per il resto ci sono buoni personaggi, poco budget e discreti – rispetto al contesto – effetti speciali.

    La contrapposizione tra polizia e criminalità viene ancora una volta a cadere, in Fantasmi da Marte, perchè il resto del mondo conosciuto sembra essersi rivoltato in un terrificante tutti contro tutti nel quale pochi sopravviveranno. La valenza metaforica di questa ennesima opera di Carpenter, a mio avviso leggermente inferiore alla media ma comunque dignitosa, nonostante qualche “trashata” di troppo ed il senso di “riciclaggio” che prova lo spettatore nel vedersi propinare sempre le stesse sparatorie (quanto western, in Carpenter), gli stessi dialoghi.

    In fondo la Henstridge (eroina tosta quando conturbante) è il classico protagonista del Carpenter post-apocalittico, una sorta di Jena Plinski iper-modernizzata: cupa, lontana da compromessi, solitaria e guidata da una lealtà ed un senso di giustizia che la rendono quasi anacronistica. Regista che, per la cronaca, non risparmia prese di posizione politiche come già fatto in quasi ogni sua pellicola.

    Godiamoci pure, in definitiva, queste chicche di cinema “underground” senza pretendere più del dovuto.

  • L’invenzione di Morel di Emidio Greco è pura fantascienza italiana anni Settanta

    L’invenzione di Morel di Emidio Greco è pura fantascienza italiana anni Settanta

    Cosa rimane degli attimi trascorsi piacevolmente assieme ai nostri amici, oppure ai nostri cari? Dove viene fisicamente riposto il passato che scorre inesorabile? Sono le tematiche affrontate dal cultL’invenzione di Morel“, girato dal regista Emidio Greco, tratto dal romanzo omonimo di Adolfo Bioy Casares e presentato a Cannes nel 1974.

    “L’invenzione di Morel” è stata una piacevole scoperta che ho fatto grazie a “Fuori Orario” di Enrico Ghezzi su Rai Tre qualche anno fa: si tratta di uno dei più atipici ed alienanti sci-fi che abbia mai visto, realizzato con pochi mezzi tecnici ma con altrettanta intensità. In esso si narra di un naufrago che approda su un’isola deserta, e che scorge quasi immediatamente delle persone distinte che sembrano risiedere sul posto: tra gli altri scorge Faustine (Anna Karina), la prima che cerca di avvicinare ma che, stranamente, sembra non considerarlo affatto. La cosa ancora più strana è che, penetrando in una enorme villa, il naufrago (Giulio Brogi)  si rende conto che tutti i suoi inquilini lo ignorano: deciso a scoprire la verità su quella paradossale situazione, assiste ad una riunione indetta dal padrone di casa, Morel (John Steiner), il quale rivela di un esperimento che avrebbe eseguito a loro insaputa durante i loro sette giorni di permanenza.

    “Noi stiamo recitando anche in questo momento: tutti i nostri atti sono rimasti registrati. Avrei potuto dirvi, appena arrivati: vivremo per l’eternità…”

    Nella propria folle e romantica filosofia di vita, Morel ha fatto in modo che i momenti trascorsi assieme alla donna amata ed ai suoi amici più cari venissero immortalati da una macchina-registratore in modo talmente fedele da renderli replicabili ed indistinguibili dalla realtà. A tale scopo ha creato il macchinario – appunto, la sua “invenzione”, che registra tutto quello che accade attorno alla stessa e lo ripete all’infinito, omaggiando così la piacevolezza di quegli attimi e cercando di renderli eterni per i presenti.

    Così il povero naufrago-evaso si trova, suo malgrado, a vivere dentro quel mondo fatto di mere proiezioni: persone artificiali che hanno già vissuto e che non possono, loro malgrado, interagire con lui. Del resto sulla solitudine del singolo che sfida la morte verso l’eternità, espressa dal trovarsi letteralmente “dentro un’opera d’arte” (in quel caso un quadro) sarà un’idea di Sacchetti e Fulci qualche anno dopo nel celebre ed inquietante “…e tu vivrai nel terrore! L’aldilà”. Allo stesso modo il naufrago è coinvolto in un mondo creato da un altro essere umano, talmente realistico da sembrare vero.

    Praticamente impazzito dopo aver scoperto la verità, e consapevole di essere innamorato di una semplice immagine, il naufrago tenta di manipolare la macchina allo scopo di entrare anche lui nella proiezione, in modo da poter essere notato da Faustine. Alla fine si accorgerà che la macchina sta distruggendo il suo corpo reale, e spaccherà disperatamente il marchingegno, mentre il suo corpo sta visibilmente invecchiando: quelle persone, infatti, sono vissute molti anni prima del suo arrivo.

    Noi tutti vivremo in quella fotografia… sempre!

    Uno dei capolavori, forse tra i più sottovalutati, della storia della fantascienza italiana.

  • Brazil: un sublime saggio distopico, tuttora ineguagliato

    Brazil: un sublime saggio distopico, tuttora ineguagliato

    Sam Lawry è un tecnocrate onesto e sognatore quanto timido ed impacciato, che opera per il complicatissimo settore burocratico di una distopica società occidentale: ossessionato da un sogno ricorrente nel quale raggiunge, alato, la donna dei suoi sogni, un giorno finisce per riconoscerla in una conoscente…

    In breve. Considerato un capolavoro del genere sci-fi distopica (secondo Harlan Hallison si tratta addirittura del migliore in assoluto) si tratta effettivamente di un lavoro di eccellente fattura, che riprende toni e tematiche di “1984” (G. Orwell) ed è ambientato in uno scenario surreale, ricco degli aspetti bizzarri che i fan dei Monty Python riconosceranno immediatamente. La tragedia di un essere umano schiacciato dalle assurdità burocratiche moderne, che si tramuta in una feroce satira contro un certo tipo di modernità.

    Brazil” di Terry Gilliam è un surrogato – che non esiterei a definire epico – di tipiche situazioni di fantascienza distopica, ricchissima di simbolismi (che il regista sembra visibilmente aver amato alla follia), e che dai simbolismi stessi non si fa appesantire, come in altri film sarebbe facilmente potuto succedere. Proponendo un gioco duale e funambolico tra la realtà (sgradevole, noiosa e monotona) ed il sogno più liberatore che possa esistere, rende difficile comprendere cosa sia vero e cosa invece costruzione mentale. E nel fare questo Gilliam sembra essere stato molto attento a non cedere ad intellettualismi troppo astratti, confermando la natura “pop” del genere ed allegandovi messaggi profondi e molto mirati. Si mostra la vita di un uomo qualsiasi, un vero e proprio “numero” nel quale diventa ovvio identificarsi: una persona ricca di sfaccettature, sensibile e profondamente sognatrice, che si scontra con un mondo sordo, menefreghista e schiavo di burocrazie inutili e sfiancanti. “Brazil” rappresenta la lotta di un uomo prima di tutto contro se stesso, ed a testimoniarlo ci invia un gioco di parole intraducibile in italiano (i samurai contro cui Sam combatte evocano la frase “Sam, you’re I“) che rende decisamente più comprensibile alcune delle allucinazioni del protagonista.

    L’amore, visto in chiave “settantiana” come liberazione totale della bellezza e della purezza smarrita dall’uomo, assume caratteristiche “sovversive”, che non possono essere tollerate da un mondo repressivo e dominato da giocattoli tecnologici e chirurghi plastici senza scrupoli (il richiamo al mondo ipocrita del successivo Society non è neanche troppo azzardato). Per quanto il film possieda una stragrande maggioranza di elementi positivi, dunque, si rileva probabilmente un unico vero difetto nell’eccessiva lunghezza della pellicola, che finisce – pressapoco prima dell’ultima mezz’ora – per stancare un po’ lo spettatore meno paziente, lasciandolo pero’ in bilico ed imponendogli, di fatto, di vedere il tutto fino alla fine per forza di cose.

    Le enormi capacità comunicative ed artistiche di Gilliam, realizzate da momenti realmente bizzarri che evocano le divagazioni dei Monty Python, si esplicano in situazioni apertamente umoristiche e, senza preavviso, tragicamente realistiche e paranoiche. Molte delle tematiche, e parte delle conclusioni, sono accumunate al classico di Orwell “1984“, a cui il regista sembra essersi ispirato servendosi pero’, c’è da specificare, di un numero superiore di mezzi espressivi rispetto alla mediocre riduzione cinematografica del famoso romanzo.

    Memorabile l’interpretazione di De Niro, che compare nei panni del “libero professionista sovversivo” Tuttle, uno dei pochi alleati autenticamente umani del protagonista e focalizzato su alcune “micro-sequenze” realmente memorabili. Certamente alcune allusioni finiranno, al giorno d’oggi, per risultare inefficaci (le ossessioni da teledipendenza, ad esempio, erano state ampiamente sviscerate da Cronenberg qualche anno prima), anche se trovo impressionante rilevare come alcune trovate, come quella della macchina che fornisce volti e informazioni personali su qualsiasi cittadino, finisca per evocare l’omologazione presente all’interno dei moderni social network.

    Un film di grande valore artistico e con vari dettagli sorprendenti per un film dell’epoca: da vedere almeno una volta nella vita.

  • La mente che cancella: “Eraserhead”

    La mente che cancella: “Eraserhead”

    Henry Spencer è un tipografo che vive in una periferia industriale squallida e povera: invitato a cena dai suoceri scoprirà che la fidanzata ha appena partorito un mutante…

    In breve. Forse la più cupa espressione della complessa poetica di David Lynch: un passo obbligato per la conoscenza del cinema weird da parte di fan e coraggiosi pionieri, tutti gli altri spettatori possono (devono?) fare a meno.

    Eraserhead, fin dal delirante e lungo incipit con la testa reclinata di Jack Nance proiettata nello spazio, delinea l’esordio del regista statunitense in un indimenticabile bianco e nero e ne traccia, seppur in modo sconnesso, tematiche, preferenze e attenzione per le tematiche oscure. “Un sogno di avvenimenti oscuri e pericolosi“, un film che diventa quasi impossibile da raccontare, se non partendo dal fatto che – quantomeno nel cinema caratterizzato da elementi sci-fi o di terrore – è stato enormemente tributato nel seguito: basti pensare anche solo a due titoli, ovvero Tetsuo e Begotten, e chi li conosce capirà l’importanza di una pellicola datata 1977 di questo tipo. Gli elementi comuni con questi due non sono pochi: anzitutto la caratterizzazione fuori dalle righe dei personaggi, ma anche le ambientazioni decadenti e le tematiche, per quanto estremizzate, sostanzialmente da horror “puro” (la dimensione dell’incubo valorizzata all’ennesima potenza). Se nel lavoro di Tsukamoto il focus è pero’ incentrato sulla contaminazione uomo-macchina, mentre in quello di Merhige si narra di una sorta di mito biblico in chiave macabra, in questa circostanza si parte da una situazione apparentemente banale, di tutti i giorni. È il suo sviluppo, lentamente mediato tra incubo e realtà, a risultare del tutto disorientante per lo spettatore (ed è per questo motivo, di fatto, che ho preferito mettere in chiaro all’inizio della recensione che non è un film per tutti, anzi si tratta del più celebre rappresentante dei film weird). Al di là poi dei riferimenti, e del rischio che in queste circostanze lo stesso “non capire il film” possa risultare ingenuamente appagante (con il regista che finisce per mettere simbolicamente “sotto i piedi” il pubblico che lo osanna), Eraserhead è catalogabile come la Pellicola B-izarra per eccellenza. Non è poco, se si considerano le decine di tentativi di realizzare lavori di questo tipo in seguito, che troppo spesso sfoceranno in un linguaggio troppo autoreferenziale e “traumatico” per chiunque (con piccole eccezioni in positivo come Seguendo il sangue di Alberto Antonini). L’elemento sconnesso, irrazionale, carico di simbolismi poco ovvi o, nella peggiore delle ipotesi, un po’ vuotamente art-house – si consolida in questa sede, e non tutti gli spettatori avranno voglia e mezzi per saperlo leggere: tanto che si presentano richiami stilistici all’arte surrealista. Come se non bastasse, si ha spesso la sensazione che “Eraserhead” sia stato girato al rallentatore, imponendo lunghe pause, silenzi assurdi, pianti infantili nella notte e rallentamenti nella trama che conferiscono al tutto un ritmo che, a dirla tutta, a volte vacilla. Il film, immerso in una insostenibile scarsità di dialoghi ed intervallato da lunghissimi momenti “morti”, racconta la storia del mite tipografo Henry Spencer (il “capellone” che vediamo all’inizio). L’uomo vive in una desolata area industriale e, in uno scenario da teatro dell’assurdo (il pollo che stanno mangiando a tavola inizierà a sanguinare), i genitori della fidanzata gli annunceranno la nascita di un figlio.

    Ad esprimere il messaggio principale della pellicola vi è il fatto centrale dell’opera stessa, ovvero che il nuovo arrivato è un mostruoso mutante e questo, senza eccedere in voli pindarici ed associazioni di idee troppo azzardate, sembra voler esprimere l’ansia insostenibile di Lynch per la paternità. Un concetto piuttosto profondo che in definitiva, se veicolato in questi termini, rischia di rimanere confinato in un mondo da “addetti ai lavori”: del resto ci vorranno diversi anni perchè Lynch riesca ad esprimere al massimo grado la propria arte con Strade perdute, e per l’età del film e considerando la carriera del regista ci può anche stare. Il titolo “la mente che cancella”, per la cronaca, fa riferimento all’allucinazione di Henry che sprofonda in un letto, incontra una bizzarra cantante, vediamo la sua testa staccarsi dal suo corpo – su un pavimento a quadretti – ed un bambino che la porta in una fabbrica: qui sarà presto trasformata in una gomma per cancellare, e questo è quanto. La declinazione successiva dell’intreccio, con la scoperta che il piccolo mutante è malato, delinea uno stacco e trasmette la sensazione di aver vissuto solo un incubo che si risolve, tuttavia, in quello che sembra il reale omicidio del figlio del protagonista (da tempo malato). Se nel frattempo non avete perso i sensi per la lettura di alcuni dettagli di questa recensione, sappiate che – come ogni pellicola lynchiana – esistono molti altri dettagli e richiami ad “altro” di cui la pellicola è cosparsa, e solo una visione integrale potrà soddisfare una vostra eventuale curiosità: nel frattempo mi preme aggiungere che non si tratta certamente del miglior Lynch mai visto sullo schermo per quanto, ovviamente, per l’età ed i mezzi i gioco (sempre curati e mai poveristici) “Eraserhead” meriti senza esitazione una visione. I “coraggiosi” del cinema sono stati avvisati…

  • Cube Zero: due cose interessanti, lo splatter e il titolo

    Cube Zero: due cose interessanti, lo splatter e il titolo

    Una donna si risveglia all’interno di un cubo iper-tecnologico cosparso di trappole: dall’esterno due “addetti ai lavori” stanno monitorando la situazione…

    In due parole. Concettualmente vorrebbe riprendere (ed estendere) il capolavoro low-budget di Vincenzo Natali: ma il tentativo è riuscito in parte, ed il film è salvato dal baratro dell’anonimato da qualche effetto splatter sopra le righe. Coinvolge fino ad un certo punto, non dice granchè narrativamente e non c’è traccia, soprattutto, dell’atmosfera asfittica e tenebrosa del capitolo originale.

    Da un punto di vista prettamente narrativo Cube Zero (nonostante le vaghe suggestioni del titolo, ed un inizio promettente) conferma una regoletta molto semplice, ovvero che i prequel riescono ad essere più inutili dei sequel, visto che – come accade in questo caso – rimpinzano un pubblico già sazio cercando di fornire spiegazioni ai limiti della forzatura. Dietro il cubo, in pratica, vi è il solito complotto dei militari, che avrebbero costruito una struttura cubica per intrappolarvi le persone e spiarle mediante avanzatissime telecamere (erano più “simpatici” quando fabbricavano zombi in laboratorio, verrebbe da dire). Un qualcosa di cui – e qui vengono i problemi – si fatica a comprendere lo scopo nonostante le spiegazioni in corso, e che fa quasi rimpiangere le violenze gratuite (tanto per capirci) dei più infimi torture porn (il livello di graphic violence di Cube Zero è elevato, ma quantomeno in quei controversi horror c’è uno psicopatico dichiarato come fautore dei crimini).

    Se la sceneggiatura di questa pellicola del 2004 è piuttosto caotica e rimpinzata di dettagli inutili (quando non confusionari: a che serve aver”firmato il consenso” da potenziale prigioniero, se tanto ti cancellano la memoria?), si potrebbe dire qualcosa di meglio sulle interpretazioni, per quanto i personaggi sembrino un mero riciclo di quelli visti nel primo episodio. Credo quindi, nonostante qualche suggestione gore e qualche dettaglio tutto sommato non malaccio, che in questo capitolo il Cube devastante e nichilista del 1997 sia diventato un concentrato di aria fritta, strutturalmente più inutile e controproducente dell’abusivismo edilizio nel deserto. E anche ragionando nell’ottica utilitarista dei cattivi, del resto, non si vede la ragione per cui si dovrebbe tenere intrappolata gente all’interno di una struttura complicatissima, per testarne chissà quali capacità o reazioni, a maggior ragione del fatto che nessuno – o quasi – sembra essere riuscito ad uscirne vivo. Tanto valeva farli fuori direttamente, oppure confinarli nel solito ospedale come avveniva in film decisamente più riusciti (e molto meno pretenziosi) quali The experiment, Asylum Blackout o Il corridoio della paura. Tanto valeva, in alternativa, spingere sugli aspetti poco noti e misteriosi del Cube, piuttosto che ammettere – come fa uno dei personaggi – che quella struttura sia stata costruita coi “soldi dei contribuenti” (sic).

    Vedere l’impiegato nerd ribellarsi e calcolare mentalmente i percorsi del cubo (con tanto di animazione tridimensionale) è un innesto più da film per adolescenti che altro, e non sembra tanto cònsono allo spirito originario, cinico e simbolista della pellicola originale, della quale qui restano solo vaghi, e zoppicanti, accenni. Guardare poi i militari incappucciati che narcotizzano altre povere vittime, in quest’ottica, rischia di produrre lo stesso effetto sul povero spettatore, che più o meno dalla metà del film in poi si accorge di qualche aspetto visuale e narrativo un po’ troppo “commerciale”, e questo fa crollare quasi tutto l’impianto, troppo proteso – in altri termini – a strizzare l’occhio al grande pubblico cercando di valorizzare più la pancia che la testa (macchinazioni governative, soldati controllati mediante chip, impiegatucci che obbediscono agli ordini come bravi cagnolini ed una strategia di boicottaggio ai limiti del ridicolo).

    In definitiva un film che potrebbe deludere anche il fan “cubistico” più incallito, e che rientra probabilmente nei gusti di un settore di pubblico piuttosto ristretto: quelli che guardano tutto a prescindere, che sono intimamente masochisti o che magari scrivono spesso recensioni di film.